Pluralismo,
Cristianesimo Democrazia
Pluralismo
– che parola enigmatica! Che cosa s’intende con essa? Qualcosa come
il pluralismo vi era già al tempo del sorgere del cristianesimo,
che nella tarda antichità fu percepito in primo luogo solo come una
delle molte «offerte di senso» filosofiche e religiose in concorrenza
fra di loro. Ma questo pluralismo tardoantico – in un certo qual modo
paragonabile al pluralismo della tarda modernità – fu, lentamente sì,
ma con certezza condotto alla propria fine esattamente dalla Chiesa
cristiana, quando essa ebbe raggiunto il potere necessario, mediante la
cristianizzazione di tutti gli ambiti e settori della vita. Di
contro, il pluralismo moderno si è sviluppato attraverso un movimento
contrario a motivo della decristianizzazione della società – o
quantomeno parallelamente a essa –. Per questa ragione, abbiamo oggi a
che fare con una situazione completamente diversa rispetto a quella che
caratterizzava la costellazione tardoantica. Ciò che noi chiamiamo
pluralismo moderno è un fenomeno sui generis.
Chiarire che cosa significhi
più precisamente l’espressione pluralismo, e come la Chiesa
cristiana si comprenda in seno a una società caratterizzata dal
pluralismo, è quanto vorrei cercare di fare in questo mio contributo.
In merito si pone fin da principio la domanda sul porsi della Chiesa di
fronte allo stato. Questa frontalità deve essere, dapprima, discussa in
relazione alla differenza della Chiesa dallo stato; poi, però
anche in merito al rapporto positivo di entrambe le grandezze; e,
non da ultimo, sotto il punto di vista di una possibile affinità del
cristianesimo verso la forma democratica dello stato. Tutta la
relazione si divide, conseguentemente, in tre parti. In primo luogo, sarà
presa in considerazione in una prospettiva teologica la differenza
di stato e Chiesa. Poi, si rifletterà sul fenomeno di una società
pluralistica. E, infine, si tratterà del rapporto positivo
fra Chiesa e stato, dove sarà discussa anche la questione del rapporto
del cristianesimo con la democrazia.
La differenza tra stato
e Chiesa
in prospettiva teologica
Quid est imperatori cum
Ecclesia? Che cosa ha a che fare l’imperatore (Cesare) con la
Chiesa? E che cosa ha a che fare la Chiesa con l’imperatore (con
Cesare)? La domanda di Donato (intorno al 315) sembra pensare a una
relazione fra stato e Chiesa solo come non-rapporto: Chiesa e
stato sembrerebbero stare semplicemente una di fronte all’altro
senza relazione.
Ma quest’apparenza inganna.
E la Chiesa imperiale ha emarginato, non senza buone ragioni, i
donatisti come scismatici. Infatti, la comunità cristiana ha
tematizzato, già nel suo sorgere, il suo rapporto con il bene comune
politico come una relazione positiva. In quel caso non si
trattava affatto solo di un qualsivoglia bene comune politico,
all’interno del quale la comunità cristiana ha la sua collocazione
mondana. La Chiesa, piuttosto, s’imbatte nello stato già quando essa
riflette su se stessa: tuttavia non in uno stato terreno, ma nello stato
celeste; non in un qualche presente politeuma, ma nel politeuma
che si attende dal cielo; non nella polis terrena,
ma nella polis che deve venire. I cristiani si comprendono
come cittadini di un bene comune politico eterno, in cui essi già fin
d’ora hanno diritto di cittadinanza – come attesta esplicitamente
tutta una serie di testi del Nuovo Testamento (cf. Fil 3,20; Eb
11,10-16; 12,22; 13,14; Ap 21). La meta ultima della Chiesa non è,
quindi, nuovamente una comunità religiosa spirituale, ma l’eterno politeuma,
il regno di Dio. Questo orientamento escatologico della Chiesa verso il
vero e proprio stato, ossia il veniente regno di Dio, dà al rapporto
della Chiesa con lo stato terreno un orientamento che è sia positivo
sia critico. Come poi debba essere caratterizzato in linea di principio
e in via pratica questo rapporto, è questione classica che ha sempre
mosso gli animi dei teorici e dei pratici nella Chiesa e nello stato.
La forma medioevale della
relazione di stato e Chiesa trovò il suo momento di consapevolezza
riflessa nella cosiddetta teoria delle due spade.1
Essa afferma che il mondo è
retto e governato da due poteri: da un parte dall’autorità
santificata dei vescovi e, dall’altra, dal potere imperiale. I vescovi
portano la spada spirituale (gladius spiritualis), il re porta la
spada mondana (gladius temporalis). Ma entrambi portano una spada.
Discusso era tuttavia se Dio avesse dato al papa originariamente
entrambe le spade, così che il papa e solo il papa, in quanto detentore
originario del gladius uterque, personificasse l’unità del
mondo, mentre l’imperatore doveva ricevere dal papa la spada politica;
oppure se l’imperatore avesse ricevuto la sua spada mondana
direttamente da Dio, così che il potere temporale poteva essere
esercitato sì in nome di Dio, ma indipendentemente da qualsivoglia
legittimazione ecclesiale. 2
Tutt’altro è
l’orientamento della dottrina luterana dei due regni e
domini, del governo temporale e del governo spirituale di Dio. Essa
limita la logica della spada unicamente al «governo temporale», ossia
allo stato, mentre per quanto riguarda il «governo spirituale», cioè
per la Chiesa, vale l’ammonimento di Gesù a Pietro: «Rimetti la
spada nel fodero» (Mt 26,52; cf. Lc 22,49-51). Certo, anche nella
Chiesa vi è potestas, ossia una signoria. E l’ideale,
oggi ampiamente decantato, di una vita associata senza forme di
governo non è solo totalmente distante dal cristianesimo
romano-cattolico, ma anche da quello riformato. Però vi sono diverse
forme di signoria e governo. La potestas fondata dall’Evangelo
viene esercitata «mediante la parola senza la spada», mentre il
dominio temporale rimane legato alla spada, ossia alla minaccia e
all’esercizio di una violenza del potere.3
Poiché la Chiesa esercita la
sua potestas «sine vi humana, sed verbo»,4
ne consegue che essa si distingue rigorosamente dalla potestas
politica dello stato: «Non igitur commiscendae sunt potestastes
ecclesiastica et civilis». La Chiesa non deve intervenire
nell’ufficio dello stato, non deve elevare al trono o deporre dei re: «Non
praescribat leges magistratibus de forma reipublicae constituenda».5
Corrispondentemente, all’inverso, viene vietato allo stato di
immischiarsi con il suo potere temporale in questioni che riguardano la
fede. Se lo stato, tuttavia, tenta di farlo, se vuole determinare per
ordinamento che cosa deve essere creduto e che cosa non lo deve essere,
allora il cristiano deve dichiarare: «Tu non sei più il mio
imperatore, io non debbo a te più alcuna obbedienza».6
In questi casi si deve una obbedienza maggiore a Dio che agli uomini (cf.
At 5,29).
Nel solco della tradizione di
questa distinzione riformata, molto tempo dopo e sotto terribili
presupposti, la Chiesa confessante in Germania nel 1934, nella V tesi
della Dichiarazione teologica di Barmen contro la dittatura
nazionalsocialista, in merito alla commistione della potestas
ecclesiastica con la potestas civilis – lo stato
ideologicizzato da un lato, e la Chiesa politicizzata dall’altro,
rimandandoli alle loro linee di demarcazione – ha dichiarato: «Rigettiamo
la falsa dottrina secondo cui lo stato, al di sopra e al di là del suo
compito particolare, dovrebbe e potrebbe diventare il solo ed esaustivo
ordinamento della vita umana, assolvendo in tal modo anche la funzione
della Chiesa. Rigettiamo la falsa dottrina secondo cui la Chiesa, al di
sopra e al di là del suo compito particolare, dovrebbe e potrebbe
appropriarsi delle caratteristiche, dei compiti e della dignità dello
stato, tanto da diventare essa stessa un organo dello stato».7
La differenza fondamentale
fra stato e Chiesa appare però solo a partire da quanto di comune
hanno tra di loro queste due grandezze. In entrambi gli ambiti si tratta
della riuscita del vivere associato e comune delle persone. Chiesa e
stato sanno bene che la vita è possibile solo in quanto vita vissuta
insieme. E Chiesa e stato sanno bene che la vita associata fra le
persone non può riuscire senza altre implicazioni, e che addirittura
essa è profondamente minacciata dalle persone stesse che vivono
insieme. La Chiesa conosce gli uomini come peccatori. Lo stato conosce
gli uomini come egoisti che si vogliono realizzare a qualunque costo e,
troppo spesso e volentieri, a spese degli altri. Per questo, sia la
Chiesa sia lo stato sono obbligati a quegli ideali del diritto,
della pace e della libertà che proteggono e favoriscono
il vivere associato umano. Chiesa e stato sono precisamente questo, ma
lo sono in una maniera estremamente diversa.
Nella convivenza politica può
trattarsi solo di una giustizia esterna, relativa e provvisoria, di una
pace esterna, relativa e provvisoria e di una libertà esterna, relativa
e provvisoria.8
Giustizia, pace e libertà quali dimensioni assolute e definitive
che determinano l’uomo dall’interno verso l’esterno, sono
invece contrassegni del regno di Dio. Entrambi, Chiesa e stato,
partecipano a questo veniente regno di Dio, a questo politeuma
celeste. Entrambi, nel mondo ancora non redento, sono parabole o abbozzi
dell’eterno regno di Dio. Ma lo sono in maniera estremamente diversa.
Perché la comunità dei credenti ha già adesso diritto di cittadinanza
nel politeuma celeste. Il bene comune politico, invece, si deve sì
a una disposizione divina (cf. Rm 13,1-7), ma esso non sa nulla di ciò,
è spiritualmente cieco. Per questo, nel migliore dei casi, esso esiste
come una parabola estremamente fragile della polis eterna che
deve venire, senza poter riflettere su questa sua capacità di essere
parabola di quella polis. La Chiesa, invece, vive consapevole di
quanto sarà nel regno di Dio. Essa partecipa già ora a ciò che nel politeuma
celeste sarà il fatto, mentre lo stato sulla terra deve dapprima
mettere in atto quanto nel regno di Dio è già un fatto: ossia
giustizia, pace e libertà. La Chiesa conosce giustizia, pace e libertà
come un indicativo che sorge da Dio stesso, mentre lo stato sta
sotto l’imperativo di doversi occupare e preoccupare per
giustizia, pace e libertà. Cerco di spiegare più precisamente.
1. Entrambi, stato e Chiesa, sono vincolati e obbligati
all’ideale della giustizia. La Chiesa conosce il vivere insieme
degli uomini come comunità dei credenti e, quindi, nella forma
particolare del vivere insieme di questi uomini con Dio. Ma essi
possono vivere insieme con Dio solo perché, e nella misura in cui, Dio
stesso ha reso possibile questo vivere insieme, garantendolo anche per
il futuro. L’Evangelo proclama questo indicativo reso possibile e
garantito da Dio stesso. Nell’Evangelo Dio si rivela come colui che
giustifica e rende giusto il peccatore e, in questo modo, realizza la
sua giustizia teologale sulla terra come la giustizia
giustificante il peccatore (cf. Rm 1,17-3,28). La Chiesa vive di
questo indicativo della giustizia. Di contro lo stato si ritrova
invece davanti alla necessità di dover sempre «produrre» la giustizia
mondana, la iustitia suum cuique tribuens e la iustitita
commutativa, e davanti alla necessità di doverla garantire sempre
di nuovo e in maniera nuova. Lo stato sta sotto l’imperativo di
doversi occupare e preoccupare della giustizia.
2. Stato e Chiesa sono
obbligati e vincolati all’ideale della pace. La Chiesa vive di
una pace che le è già stata accreditata e attribuita. Infatti Cristo
è la sua pace (cf. Ef 2,14), laddove con pace, secondo la terminologia
biblica, deve essere intesa quell’ampiezza e ricchezza relazionale
della vita in cui le relazioni fondamentali dell’uomo – il suo
rapporto con se stesso, col mondo e con Dio – sono a loro volta in
relazione tra loro per il più ampio arricchimento e sostegno
vicendevole possibili.
Secondo la visione biblica,
invece, il conflitto – la non pace – domina sempre
quando una di queste relazioni fondamentali si impone senza rispetto
alcuno a spese delle altre. L’io umano può realizzare il suo rapporto
con se stesso in maniera così spietatamente sconsiderata, che tutto il
resto di quanto c’è al mondo lo interessa solo in quanto materiale o
strumento, e non più per il suo essere in sé. Ma l’io umano può
realizzare anche il suo rapporto con Dio in maniera così priva di
rispetto e considerazione, che il fanatismo mette liberamente in circolo
i suoi effetti politicamente devastanti. Nella pace anche il
rapporto con Dio non viene mai realizzato senza rispetto e a spese delle
altre relazioni fondamentali.
La Chiesa conosce la pace in
primo luogo in forma sacramentale: nel battesimo e nella cena del
Signore la pace è, in quanto indicativo, evento. A partire da questo indicativo
sacramentale la pace si irradia nel mondo. La Chiesa sa bene questo:
la pace cresce e deve crescere. Per questo è impegnata proprio in
quanto Chiesa anche a favore del vivere insieme in pace nella società
degli uomini. Lo stato però sta sotto l’imperativo politico di
procacciare e produrre la pace nel mondo, e di garantirla sempre di
nuovo. Lo stato deve occuparsi e preoccuparsi della pace sotto la
minaccia e l’esercizio del potere anche come violenza. La pace rimane
per lo stato un compito permanente.
3. Stato e Chiesa sono
obbligati e vincolati all’ideale della libertà. Per quanto
riguarda la libertà di un cristiano, vale che essa non deve
essere prima conquistata, ma che essa è presente già all’indicativo
nella forma della fede e dell’amore. I credenti sono figli
della libertà, alla quale sono stati liberati da Cristo (cf. Gal
4,31-5,1). Libertà, però, è – secondo una felice definizione anche
in prospettiva teologica di I. Kant –9
la facoltà di iniziare da sé uno stato delle cose.
Il credente è libero perché
può iniziare qualcosa con Dio, e per questo lo può iniziare anche
con se stesso. Colui che ama credendo è libero perché può dare
inizio a qualcosa con gli altri uomini. Nella fede e nell’amore
i cristiani corrispondono all’iniziare originario del creatore. A
questo cominciamento nella fede e nell’amore seguono delle prosecuzioni
che, tuttavia, non lasciano mai decadere l’inizio, bensì
raccolgono in sé la sua incipialità, la traspongono e perfino la
ampliano. L’indicativo della libertà originato dall’Evangelo
rimane e cresce.
La libertà di cui deve
occuparsi e preoccuparsi lo stato è nella sua esteriorità,
relatività e provvisorietà, e nel suo trovarsi davanti a esse,
continuamente minacciata di venir superata e di decadere. Quella libertà
deve garantirsi sempre di nuovo, e può essere limitata e
problematizzata già lungo l’iter legislativo. Per questo
motivo vi è la necessità di istituzioni della libertà che
facciano sperare alla libertà quantomeno una durata relativa. E per
questo lo stato è posto sotto l’imperativo di doversi occupare
e preoccupare sempre di nuovo per la libertà. La libertà mondana deve
essere difesa, e sempre di nuovo riconquistata, affinché i cittadini
possano iniziare qualcosa anche in prospettiva e ambito mondano.
È pertanto la differenza
di indicativo e imperativo, nell’ottica di quei concetti comuni a
Chiesa e stato che sono la giustizia, la pace e la libertà, che fissa
la differenza fondamentale tra Chiesa e stato. La Chiesa vive
dell’indicativo sovrano di iustitia, pax e libertas
messe in atto dalla grazia di Dio, e conosce imperativi solo come
iniziazioni e rammemorazioni di questo indicativo che mai può essere
prodotto da lei stessa. Lo stato, invece, sta generalmente sotto
l’imperativo del doversi occupare e preoccupare sempre di nuovo a
favore di iustitia, pax e libertas. La Chiesa
celebra l’indicativo della grazia – «la Chiesa celebra misteri»
(così in maniera azzeccata il card. Martini). E la Chiesa si
deteriorerebbe in un istituto pseudopolitico e pseudomoralistico qualora
finisse col sottomettere l’indicativo sovrano della grazia a
qualsivoglia imperativo che non sia dettato da quell’indicativo. Ma lo
stato, qualora avanzasse la pretesa di mettere in opera e garantire esso
stesso l’indicativo di eterna e assoluta iustitia, pax e
libertas, si pervertirebbe in uno stato totalitario e
fraintenderebbe conseguentemente se stesso come «ordinamento esaustivo
della vita umana» (Dichiarazione teologica di Barmen, n. 5); e,
in maniera del tutto consequenziale, finirebbe col pretendere per sé
assorbendolo completamente tutto l’uomo, totus homo. Ma una pretesa
di totalità – sia dell’individuo sia del vivere associato degli
individui – può essere avanzata unicamente da colui che prima ha creato
questa totalità. E la vera totalità – sia degli individui sia del
vivere associato degli individui – si edifica solo a partire
dall’interno verso l’esterno. Lo stato totalitario, invece, può
tutt’al più realizzare un totum esteriore; e nella sua
esteriorità questo totum non potrebbe essere che totalitario:
un totum che, con mezzi esteriori, costringe elementi e parti
eterogenee a un tutto. Se viene meno la coercizione totalitaria, allora
si disgrega immediatamente anche questo totum totalitario –
come sarebbe possibile studiare sulla scorta del crollo delle dittature
che si presumono socialiste.
Questo per quanto riguarda la differenza
di stato e Chiesa in una prospettiva teologica. Tale differenza si fa
valere nel modo più ottimale nella società pluralista. Ma che cos’è
propriamente la società pluralista? È a quest’analisi che si deve
passare ora.
La società pluralista
L’espressione pluralismo
è una creazione linguistica moderna. Essa si radica nella costruzione
concettuale filosofica. E la lingua della filosofia nomina
originariamente pluralismo in contrapposizione all’egoismo.
Immanuel Kant annota nella sua Antropologia pragmatica:10
«All’egoismo può essere contrapposto solo il pluralismo». Si tratta
qui, secondo Kant, di contrapposizioni del «modo di pensare», in
ambito logico, estetico e morale; così che il pluralismo è
contrapposto ogni volta a un egoismo logico, a un egoismo estetico e a
un egoismo morale.11
Il pluralismo contrapposto all’egoismo è considerato
tutte le volte in riferimento a criteri esterni per la valutazione del
proprio giudizio e della propria disposizione. Questo vuol dire che il
pluralismo prende sul serio il mondo polifonico (e sfaccettato) come la
possibilità di un essere-altro che lo problematizza e lo corregge. Il
pluralista sa che egli è solo uno fra i molti altri. Per questo si
considera «come un semplice cittadino del mondo»,12
e si comporta di conseguenza.
Se per Kant si trattava solo
di un modo di pensare, filosofi a lui posteriori hanno legato il
concetto «pluralismo» a una disposizione metafisica fondamentale
e, conseguentemente, hanno compreso come contrapposizioni non più
quelle tra egoismo e pluralismo, ma quelle tra monismo e pluralismo. Il monista
vuole ricondurre tutto a uno, e intende l’intero come dominato
dall’uno. Il pluralista, invece, comprende il mondo come
molteplicità processuale e incompiuta, in cui le diverse parti della
realtà sono rapportate le une alle altre solo attraverso relazioni
esterne, senza che una
parte domini sopra le altre, così che l’intero degli enti non
dovrebbe essere inteso come uni-versum quanto, piuttosto, come pluri-versum.
Questo pluralismo filosofico della modernità si è servito
volentieri della metafora politica, per esempio quando ha ritenuto di
pensare il mondo pluralistico in analogia a una repubblica federativa
piuttosto che come un impero o un regno. Ma quando si rende plausibile
la teoria metafisica di una realtà pluralistica attraverso metafore
politiche, allora si ha la conseguenza che anche la realtà politica,
che anche lo stato e la società siano interpretabili essi stessi
pluralisticamente. Così ha visto la luce il pluralismo politico.
Esso si è volto contro la totalità giurisdizionale e l’onnipotenza
dello stato, rimarcando le richieste all’autodeterminazione degli
altri gruppi e associazioni sociali. Qui bisogna distinguere tra una più
antica teoria del pluralismo (che fu sviluppata soprattutto negli
USA) e una più recente teoria del pluralismo.
Nel più antico pluralismo
politico, di casa soprattutto negli Stati Uniti, «l’autonomia dei
gruppi sociali davanti allo stato è sottolineata allo stesso modo in
cui nel [pluralismo] filosofico lo è l’autonomia delle singole cose
davanti a una uni-totalità della realtà. Lo stato viene
sostanzialmente posto sullo stesso piano dei molti altri gruppi sociali,
a cui l’individuo appartiene; ed è per questo che esso non può
pretendere per sé una lealtà unanime. La sua autorità, piuttosto,
viene ricondotta esclusivamente al libero consenso che gli individui gli
accordano (...) In casi di dubbio le persone devono accordare la loro
lealtà a colui che persegue uno scopo morale più alto».13
Questo vale anche per il possibile caso di conflitto fra stato e Chiesa.
Contro questa più vecchia
teoria del pluralismo politico si è mossa la critica del geniale quanto
cangiante docente di diritto pubblico, strettamente legato al
nazionalsocialismo tedesco, Carl Schmitt. Egli obiettava che una simile
teoria finiva con l’eliminare del tutto la differenza fra stato e
società. «Lo stato (...) diviene una società accanto e fra le altre
società, che sono dentro o al di fuori dello stato».14
Con ciò lo stato viene, alla fin fine, depoliticizzato,
diventando la trottola dei diversi e diversificati interessi sociali.
Che questa critica
fondamentale del pluralismo sia tornata a vantaggio della equiparazione
totalitaria di tutte le forze e gruppi sociali operata dal fascismo
italiano e dal nazionalsocialismo tedesco, è fatto palese. Questo però
non deve farci perdere di vista che anche negli stati del «socialismo
reale» il marxismo in via di realizzazione ha combattuto la teoria
politica del pluralismo, sia a livello delle idee sia con parole e
opere. La concezione di un «pluralismo socialista» o di un «socialismo
pluralista», continuamente ridiscussa da parte del comunismo europeo
occidentale, nell’Europa orientale fu sempre screditata e bollata come
una «una decomposizione ideologica dei partiti marxisti-leninisti e
come (...) il via libera alla controrivoluzione in seno allo
schieramento socialista».15
Solo con la «perestroika» proclamata da Gorbaciov il pluralismo
è divenuto anche nello «schieramento socialista» la rappresentazione
di una meta su cui si poteva discutere effettivamente, e che da ultimo
ha contribuito in maniera considerevole alla rapida fine del mondo
statale «socialista».
Nella Repubblica federale di
Germania, a motivo dell’esperienza fatta durante il «Terzo Reich»
della pericolosità di un estremo antipluralismo, fu ben accolto in
linea di principio il nuovo pluralismo politico. Si acconsentì
sostanzialmente al fatto «che vi è una molteplicità e varietà di
ambiti sociali di vita e di forze di configurazione, che non si rifanno
alle medesime radici e che, quindi, non si lasciano sintetizzare
generalmente sotto un unico e uguale vertice capace di esaurirle».16
Ci si può immaginare un’Europa che va crescendo insieme solo se si
acconsente in linea di principio al pluralismo.
Sinceramente, in questo, è
bene essere consapevoli del fatto che una società pluralistica 1)
sviluppa sempre più una tendenza a una generale pubblicità del
sapere: di un sapere in un numero sempre maggiore di ambiti,
ma sempre meno raggiungibile attraverso la propria esperienza e
percezione e, per questo, dunque un sapere sempre più difficile
da valutare in maniera autonoma. 2) Una società pluralistica sviluppa
una molteplicità di opinioni che si oppone alla totale
dipendenza dal sapere di massa disponibile, e un’istituzionalizzazione
della critica che – davanti alla sconcertante molteplicità di
opinioni – aiuta a raggiungere una propria costruzione del giudizio;
l’istituzionalizzazione della critica deve esporsi a tutte le opinioni
che avanzano una pretesa di verità. 3) La società pluralistica,
inoltre, sviluppa in maniera crescente un dibattito pubblico in merito a
quei criteri che sono costitutivi per la critica, ma che spesso sono
ancora da raggiungere e individuare, che possono avere valore sempre
solo all’interno degli ambiti di interazione da diversificare tra
loro. 4) Infine, una società pluralistica sviluppa insieme a tutto
questo, contemporaneamente, anche una tendenza alla decostruzione
di tutti i legami, le convinzioni di valore e i modelli di orientamento
tradizionali, a favore di decisione proprie che spesso, però, sono
insufficientemente fondate.17
A ciò è strettamente
collegato il fatto che la società pluralistica regola il vivere
associato al suo interno non più sulla base di convinzioni condivise,
ma solo sulla base di una coordinazione giuridica ed economica
del comportamento esterno, ossia privilegia le regole del
diritto e della ragione economica, e fa questo sia all’interno
degli stati [singoli] sia, in maniera crescente, anche nel rapporto
degli stati fra di loro.18
La società pluralistica pone, corrispondentemente, al posto di
determinazioni morali di contenuto una moralità orientata alle
procedure, per la quale il dolore evitabile dell’altro pone un
limite definitivo alla propria realizzazione di felicità e libertà.19
Nel volto dell’altra persona l’«alterità del non-integrabile»
incontra, quale imperativo categorico, l’ingiunzione a non percorrere
il sentiero che conduce dell’uccisione dell’altro.20
Da queste tendenze che
appartengono della società pluralistica fuoriescono per essa anche dei pericoli,
che devono essere identificati al fine di poterli mettere fuori gioco.
Per esempio, è possibile che il rapporto gravido di conflittualità tra
i differenti interessi dei gruppi o delle associazioni sociali tra di
loro, oppure anche tra essi e l’interesse complessivo, possa minare
l’unità sociale. Il potere delle potenze internazionali, delle
burocrazie statali e non statali, e il potere dei media possono
minacciare la libertà individuale. Il «raggruppamento» (Verlösung)
degli interessi plurali attraverso il dominio delle grandi
organizzazioni economiche e dei loro accordi può condurre al fatto che
concorrenza e conflitti vengano smorzati, e che interessi più
difficilmente o per nulla organizzabili non abbiano possibilità alcuna
di emergere. I partiti, destinati alla cooperazione nella costruzione
della volontà politica, e presenti nelle sedi parlamentari, possono
giungere a un’inadeguata comprensione di sé stessi come uno stato
nello stato qualora essi, invece di rappresentare la sovranità
popolare, si indentifichino con essa. E da ultimo: la società
pluralistica non è in grado di garantire la sua propria omogeneità,
cosicché corre il rischio di frantumarsi in gruppi eterogenei.
Ma il sorgere di iniziative
dei cittadini, di nuovi movimenti sociali al di là dei partiti e delle
associazioni tradizionali, così come il dato di fatto che interessi
disparati di nuovo profilo siano ben in grado di articolarsi in modo
tale da non poter essere messi da parte, tutto questo mostra che il
pluralismo politico è del tutto capace di sviluppo ed è in grado di
elaborare elementi di autocorrezione. Per questo vi è tuttavia la
necessità del riconoscimento dello stato come un esercizio di
governo che si occupa e preoccupa a favore del diritto, della pace e
della libertà secondo la misura dell’intelletto umano e dell’umana
capacità, sotto la minaccia della forza. Non da ultimo, lo stato ha il
compito di limitare quell’«egoismo» invincibile presente anche in
seno al pluralismo sociale – «egoismo» non solo delle persone, ma
anche in primo luogo di singoli gruppi di interesse e dei partiti –,
in modo tale che dalla concorrenza degli interessi organizzati
non ne venga fuori un bellum omnium in omnes a livello sociale, e
che da possibili concorrenti non si passi a essere reali nemici.
Dalla concorrenza e dalla competizione si può trarre qualcosa,
dall’antagonismo nulla.
Dopo questa panoramica di
massima sul concetto e la genesi storica del pluralismo politico,
vogliamo ora chiederci in maniera più sistematica come si atteggia la
Chiesa nei confronti della società pluralistica. Non ci addentreremo
nella discussione della misura in cui la scissione confessionale, che la
Riforma non intendeva provocare ma che però di fatto ha provocato,
abbia condotto a una certa pre-forma religiosa del pluralismo politico
nel Sacro romano impero germanico (la itio in partes e la amicabilis
compositio erano istituzioni della Dieta dell’impero di allora,
che possono essere prese in considerazione come pre-forme storiche del
pluralismo politico).21
Prendo piuttosto le mosse dal
fatto che la Chiesa evangelica in Germania, nella sua Dichiarazione
teologica decisa nel Sinodo di Barmen svoltosi nel 1934, con
l’aver rigettato «la falsa dottrina secondo cui lo stato, al di sopra
e al di là del suo compito particolare, dovrebbe e potrebbe diventare
il solo ed esaustivo ordinamento della vita umana»,22
ha almeno implicitamente riconosciuto e acconsentito al pluralismo
politico. Se lo stato non deve e non può divenire il solo ed esaustivo
ordinamento della vita umana, allora possono e devono evidentemente
darsi più ordinamenti, e più e diversi ambiti autonomamente ordinati
della vita umana, che offrono ciascuno uno speciale e inconfondibile
contributo alla configurazione della vita umana.
Una società pluralistica
funzionante presuppone, quindi, la differenziazione di forme
comunitarie legate e orientate all’esercizio di un preciso compito,
mediante la quale si impedisce una giurisdizione onnicomplessiva
di singole istituzioni. Già F.D.E. Schleiermacher aveva
diversificato, sulla base di un’interpretazione della struttura finita
dell’essere-persona, quattro forme comunitarie(ambiti della cultura)
legate e orientate all’esercizio di un compito preciso, costitutive
per la società ma relativamente specifiche e separate, all’interno
delle quali possono e debbono essere soddisfatti i bisogni fondamentali
dell’uomo mediante un processo di interazione: stato, libera
socializzazione, associazioni scientifiche, Chiesa. Poiché ciascuno di
questi ordinamenti interattivi – a differenza di ordinamenti
interattivi a prestazione integrale come, per esempio, la
famiglia – è limitato solamente a prestazioni speciali in una
forma comunitaria (questo vuol dire che né dallo stato, né dalla
libera socializzazione, né dall’associazione scientifica, né dalla
Chiesa si pretende, e nemmeno si accorda a essi, un contributo culturale
integrale), abbiamo a che fare con un modello di società
pluralistica. A questo modello corrisponde la differenziazione, ancora
oggi corrente in sociologia, fra l’interazione politica in vista dello
stabilirsi del governo, l’interazione economica in vista della
produzione di mezzi alimentari (nel senso più ampio possibile),
l’interazione culturale tesa alla produzione del sapere. Questa, a sua
volta, si differenzia nella produzione scientifica su base esperienziale
di un sapere che orienta nel campo della tecnica, e nell’elaborazione
filosofica o teologica di un sapere religioso ed etico che orienta nelle
sfere del vissuto.23
In riferimento a
quell’ambito di funzioni costitutivo della vita sociale contrassegnato
con la parola «Chiesa», nella società pluralistica vige il dato che
non si può dare alcun monopolio di valore statalmente garantito per una
singola religione o visione del mondo. Quando si parla di «Chiesa» qui
non s’intende in alcun modo esclusivamente la Chiesa cristiana.
Piuttosto, «Chiesa» è – nel senso inteso da Schleirmacher –
l’espressione generale per ogni «comunità spirituale
relativamente circoscritta».24
Nella società pluralistica è espressamente escluso che un’unica
comunità religiosa o di visione del mondo renda universalmente
obbligante per l’intero della comunità le sue convinzioni
fondamentali mediante un monopolio di valore garantito dallo stato,
oppure che essa condanni all’illegittimità le convinzioni che sono in
opposizione alle proprie. Questo differenzia la società pluralistica da
quella impostata sul Corano. Davanti alle diverse, e addirittura
concorrenti pretese di verità legate a una determinata visione del
mondo, e alle istituzioni che le rappresentano, lo stato non può
arrogarsi il ruolo di arbitro. Nella misura in cui esse permangono
adeguatamente nello spazio costituzionale (ius circa sacrum), lo
stato deve tollerare tutte le pretese di verità, anche se così facendo
viene profondamente problematizzata l’unità interna della società.
La società pluralistica rinuncia alla produzione di un’omogeneità
interna per mezzo di un monopolio della verità religiosa e di una
visione del mondo garantita dallo stato. Per questa ragione, è tanto più
importante che le diverse comunità religiose – all’interno di
questa società – cerchino quel minimo di accordo che conduca a un
reciproco rispetto tra di loro, e permetta di intendere la critica
reciproca solo come una critica fatta nel pieno rispetto l’una
dell’altra.
A partire dal presupposto di
questo pluralismo del mondo indipendente da tutte le pretese di verità
ecclesiali non è che si dovrebbe, ma si potrebbe evocare
quella dimenticanza di Dio che l’Europa borghese ha messo in atto
primariamente in forma privata, una privatezza però del tutto operativa
in ambito pubblico, e che l’Europa comunista ha provveduto poi a
mettere in atto in piena regola con quella pressione programmatica e
ideologica in grado di
determinare tutta la società. In questo caso ha giocato un ruolo
decisivo non solo il monopolio del potere, ma anche il monopolio
ideologico della verità (uniformazione di tutti i media,
indottrinamento già a partire dalle scuole e addirittura dall’asilo,
e così via...!). E però colui che come politico fa valere solo una
pretesa di verità, ebbene costui innesta la menzogna. E chi reprime
politicamente altre pretese di verità, ebbene costui mente non solo nei
confronti della realtà pubblica, ma inganna anche se stesso. La
dittatura socialista era contrassegnata in tutti gli ambiti da questa
menzogna di vita, con cui uno finisce con l’ingannare anche se stesso
– fin dentro le sfere dell’economia -. Esattamente su questa
menzogna essa è fallita. La Glasnost le è stata fatale.
Il crollo di questo sistema
ideologico-politico significa sì una chance straordinaria, ma
non è in alcun modo una garanzia, per un nuovo risvegliarsi del
religioso o, addirittura, per un movimento di ripresa ecclesiale. E in
ogni caso esso non significa per nulla che la Chiesa abbia da dettare
alla società mondana quelle che devono essere le leggi del suo agire.
L’Evangelo contiene certamente delle pretese avanzate nei
confronti del legislatore mondano, ma in nessun caso l’Evangelo è un
legislatore politico – così come Gesù non è un «secondo Mosè».
Le Chiese cristiane possono e debbono articolare tali pretese
dell’Evangelo. Qualcosa di più vorrebbe dire un profilo minore.
La Chiesa tradirebbe l’Evangelo qualora volesse identificarsi con il
potere politico.
La Chiesa rappresenterà sì
la pretesa di verità dell’Evangelo come una pretesa di verità universale,
ma la riconoscerà all’interno della società come una pretesa
di verità tra molte, che non ha altra autorità che la preghiera
apostolica: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare
con Dio» (2Cor 5,20).
La persuasione cristiana
fondamentale, ossia che la verità della fede può affermarsi senza
potere mondano soltanto mediante la parola della predicazione,25
ha preparato il terreno per il pluralismo della società moderna. Con
tutta franchezza bisogna riconoscere che le Chiese hanno compreso troppo
tardi ciò che esse stesse avevano preparato.
In maniera esplicita è stato
solo il Consiglio ecumenico delle Chiese, con la Dichiarazione sulla
libertà religiosa deliberata nel corso della sua prima assemblea
plenaria svoltasi ad Amsterdam nel 1948, che ha espresso la capacità di
pluralismo della fede cristiana. In quattro frasi guida si dichiara: «1.
Ogni persona ha il diritto di decidere da sé la sua propria fede e la
sua confessione di fede. 2. Ogni persona ha il diritto di esprimere le
sue convinzioni religiose nella celebrazione, nell’insegnamento e
nella vita pratica, e di esprimere pubblicamente quanto da esse consegue
per i rapporti all’interno della comunità sociale o politica. 3. Ogni
persona ha il diritto di associarsi ad altre persone e costituire con
loro un’organizzazione comune a scopo religioso. 4. Ogni
organizzazione religiosa, che viene costituita o mantenuta conformemente
ai diritti individuali, ha il diritto di determinare da sé i propri
ordinamenti e la propria prassi a servizio degli scopi per cui essa si
è destinata».26
Anche la Chiesa cattolica-romana27
ha chiaramente acconsentito, con la dichiarazione Dignitatis
humanae sulla libertà religiosa e con la costituzione pastorale Gaudium
et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, al pluralismo moderno
e alla democrazia pluralistica.
Che la Chiesa debba potersi
comprendere e mostrarsi capace di pluralismo, non può però in alcun
modo significare che essa intenda il proprio mandato in forma
particolaristica, dovendosi limitare al numero più o meno grande dei
suoi membri. L’Evangelo, che la Chiesa cristiana deve testimoniare e
annunciare, è esso stesso proclamazione di una grande gioia di cui deve
fare esperienza tutto il popolo (cf. Lc 2,10). La parola della croce,
sebbene sia uno scandalo per i giudei e una stoltezza per i greci (cf.
1Cor 1,23), significa che Dio in Cristo ha riconciliato tutto il mondo.
La VI tesi di Barmen afferma per questi motivi che «la missione della
Chiesa» consiste nel «rivolgere a tutto il popolo per mezzo della
predicazione e del sacramento, in luogo di Cristo e quindi attraverso il
ministero della sua Parola e della sua azione, il messaggio della libera
grazia di Dio».28
In questo senso la Chiesa è e rimane una «Chiesa di popolo».
Quanto vi è di teologicamente
significativo nel pluralismo politico è, pertanto, la rinuncia dello
stato all’imposizione di pretese di verità: «Tra di noi, ora, non vi
è più alcuna verità privilegiata» – affermava già Richard
Rothe.29
Fin qui sulla capacità di
pluralismo della Chiesa, dove però mi stava a cuore soprattutto esporre
il tratto della Chiesa nel pluralismo e nella società
pluralistica. La questione non meno importante del pluralismo nella
Chiesa (quanta molteplicità essa è in grado di sopportare, ma
anche di quanta pluralità essa ha bisogno?) rimane purtroppo al di
fuori di queste mie riflessioni.
Il riconoscimento
ecclesiale dello stato.
Cristianesimo e democrazia
Il pluralismo politico non
deve annientare l’«egoismo» naturale degli individui e l’«egoismo»
organizzato dei gruppi di interesse, piuttosto lo deve valorizzare in
modo tale che essi possano venire limitati e, in quanto limitati,
possano essere soddisfatti (e, rispettivamente, che essi possano essere
soddisfatti e, in quanto soddisfatti, limitati). Affinché della
concorrenza degli interessi plurali e diversificati, che è pur da
promuovere e favorire, non ne venga fuori un bellum omnium in omnes
sociale e asociale, e che quindi dei concorrenti non divengano reali
nemici, la società pluralistica è vincolata allo stato e, più
precisamente, allo stato democratico. Il funzionamento del pluralismo
politico presuppone un consenso minimale all’interno della società,
senza la cui formulazione e riconoscimento vincolante – nella forma di
diritti fondamentali e doveri fondamentali – il pluralismo relativo
legittimo è destinato a divenire un pluralismo assoluto, che
sarebbe solo l’inizio della fine del pluralismo politico. Per
garantire il pluralismo relativo davanti a un pluralismo totalitario
assoluto, la società è vincolata e legata a uno stato democratico.
Nelle odierne democrazie pluralistiche dei paesi altamente
industrializzati è essenziale, e indispensabile, un’apertura che sta
divenendo sempre più ampia delle frontiere nazionali – politica,
economia e scienza sono di fatto già collegate «in rete» oltre tutte
le frontiere nazionali: le loro problematiche e compiti si pongono
sempre più spesso non solo a livello locale ma, contemporaneamente,
anche a quello globale. Per questo motivo, però, richiedono una universalizzazione
dei mezzi e dei metodi necessari alla risoluzione dei loro compiti. In
ragione di ciò, è indispensabile la collaborazione istituzionalizzata
degli stati. Una tale collaborazione istituzionalizzata degli stati
riuscirà solo se si giunge a una democratizzazione del livello
interstatuale.30
Questa problematica
estremamente complessa deve essere qui ridotta alla discussione del
rapporto positivo tra Chiesa e stato nella società pluralistica. Ne va
qui non da ultimo della questione se la fede cristiana privilegi o meno
una determinata forma di stato.
In primo luogo si deve
constatare che la Chiesa cristiana riconosce e acconsente, in linea di
principio, allo stato come a un ordinamento divino. Un tale fatto, sulla
base della testimonianza del Nuovo Testamento, è fuori di dubbio. Il
capitolo 13 della Lettera ai Romani può essere richiamato alla memoria
anche in rappresentanza dell’abbondanza di espressioni analoghe: lo
stato è per Paolo un minister tibi in bonum (Rm 13,4), e per
questo ha diritto a quel rispetto da parte dei cittadini che pertiene a
un ministro – un rispetto alimentato non dalla paura davanti al
potere, bensì un rispetto che viene dalla propria coscienza (cf. Rm
13,5). Lo stato, nel giudizio della comunità cristiana, è un’opera
di bene. E questo vale per ogni stato. Per questo la Chiesa prega
per lo stato e per le persone che lo rappresentano. Questa intercessione
della comunità cristiana per il bene comune politico e i suoi
rappresentanti è la costante più affidabile nel rapporto della Chiesa
con lo stato. Per lo stato, in questo mondo, non vi è nulla di più
affidabile che l’intercessione dei cristiani per esso e i suoi
rappresentanti.
Ma la comunità cristiana
conosce lo stato anche in una forma demoniaca, in quanto bestia
blasfema che vuole essere adorata (cf. Ap 13). E poiché la Chiesa
conosce lo stato sia come opera buona di Dio sia nella sua depravazione
a bestia blasfema, si pone inaggirabile la domanda sullo stato giusto.
La Chiesa deve discernere fra lo stato voluto da Dio e lo stato abusato
dagli uomini. Essa, però, non deve discernere unicamente fra lo stato
giusto e lo stato che si perverte, ma anche tra lo stato relativamente
migliore e quello relativamente peggiore. Alla luce dell’Evangelo,
quando ne va del bene comune politico, non tutti i gatti sono bigi. E
così dobbiamo interrogarci su quale rilevanza abbia la necessità di un
simile discernimento all’interno della società pluralistica non solo
tra stato giusto e stato che si perverte da se stesso, ma anche fra
stato migliore e stato peggiore. Qui ci interessa prima di tutto la
questione del rapporto della Chiesa nei confronti della democrazia.
«Che in una democrazia si
possa sprofondare all’inferno o che sotto una oclocrazia o una
dittatura si possa divenire santi, è del tutto vero. Ma non è vero che
come cristiano si possa tendere, volere e acconsentire con altrettanta
serietà a una oclocrazia o una dittatura come alla democrazia». Con
queste parole, Karl Barth nel 1938 si era opposto al «luogo comune
della stessa affinità e non affinità di tutte le possibili forme dello
stato davanti all’Evangelo»: «Un luogo comune [...] non solamente
oramai logoro, ma semplicemente falso».31
La Chiesa è stata per secoli scettica e ha diffidato estremamente della
democrazia. In merito non c’è alcuna attenuante. Ma anche qui vale la
considerazione che «dopo» si diventa più perspicaci. E così ci
domandiamo oggi, con una consapevolezza molto più acuta della
problematica, se la comunità cristiana non abbia una particolare
affinità alla democrazia esattamente sulla base della propria
costituzione e della propria autocomprensione.
La democrazia presuppone l’uguaglianza
di tutti i suoi cittadini. «Vista dal punto di vista del diritto
internazionale, la sovranità può anche risiedere presso lo stato, ma a
livello di legittimazione essa pertiene al popolo. A questo potere di
legittimazione degli aventi diritto si lega la loro uguaglianza».32
Dell’uguaglianza di tutti gli uomini è, però, profondamente persuasa
anche la fede cristiana. Davanti a Dio non vale alcun privilegio
particolare per una singola persona (cf. Dt 10,17; At 10,34; Rm 2,11; Ef
6,9; 1Pt 1,17; 1 Sam 16,7).
Due aspetti chiedono qui di
essere rimarcati. Da un lato, l’uguaglianza di tutti gli uomini è
posta sotto un segno negativo: essi sono tutti peccatori (Rm
3,9.23; cf. Sal 14,1-3). L’altro aspetto è positivo: nella
comunità cristiana vale il principio del sacerdozio di tutti i fedeli.
C’è sì un ministero costituito da Dio e persone particolari che
assumono questo ministero. Però il ministero non ha la funzione di
colmare una mancanza presente nei cosiddetti laici. Il ministero
ecclesiale ha invece la funzione di orientare ordinatamente quella
ricchezza data con il sacerdozio di tutti i fedeli. Per questo ci sono
pastori ordinati e anche vescovi consacrati. E per questo può esserci,
qualora ci si intenda e si trovi un accordo sul ministero, addirittura
un papa anche secondo la visione e concezione evangelica. Ma lo stato
clericale, però, non deve problematizzare il sacerdozio universale di
tutti i fedeli. Chierici e non chierici costituiscono insieme il popolo
di Dio (laos). Per questo tutti i cristiani sono laici e tutti i
laici sacerdoti.
Entrambi questi aspetti,
quello positivo e quello negativo, che fanno chiaramente riconoscere che
sotto il punto di vista dell’uguaglianza la Chiesa cristiana è
apparentata alla democrazia e questa alla Chiesa: vi è qui
un’evidente e non raggirabile affinità del cristianesimo alla
democrazia.
Però anche sotto il
presupposto dell’uguaglianza di tutti i cittadini – secondo
la quale nell’«origine legittimatoria» del dominio politico, «ma
francamente solo in essa [...] governanti e sottoposti [sono] identici»
–,33 mediante
la separazione dei poteri in democrazia il diritto viene tutelato
dal rischio che decisioni di maggioranza degli uguali facciano violenza
al diritto stesso. «In maniera particolare per quanto concerne la
giurisdizione lo stato costituzionale democratico non consente alcun
intervento intromissorio del popolo».34
In un senso comparabile a questo, nella Chiesa cristiana il mandato
apostolico è sottratto a qualsivoglia decisione della maggioranza.
L’Evangelo non ammette votazioni. Inoltre, la Chiesa «al suo interno,
sa della diversità dei doni e dei compiti dell’unico Spirito Santo»
e, per questo, «sarà vigile e aperta nel campo politico rispetto alla
necessità di separare le diverse funzioni e “poteri” – quello
legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario – in modo tale che
coloro che assumono uno di essi non possano essere al tempo stesso
investiti degli altri. Nessun uomo è un Dio, che sia in grado di
riunificare nella propria persona le funzioni del legislatore e del
governante, quelle del governante e del giudice senza mettere in
pericolo la sovranità del diritto che deve essere rispettato in
ciascuna di esse. Anche il “popolo” non è un tale Dio». Nella
Chiesa, come nello stato, «è così, devono essere provveduti nel
popolo (mediante il popolo e per il popolo) diversi ministeri che devono
essere ricoperti anche da diverse persone, la cui unificazione in
un’unica mano umana non sosterrebbe affatto l’unità dell’opera
comune, bensì la distruggerebbe».35
Un ulteriore punto di vista in
merito al rapporto tra cristianesimo e democrazia è l’obbligazione,
sia dello stato democratico sia anche della Chiesa cristiana, alla
dimensione pubblica. Nella democrazia l’aspetto pubblico è «l’organo
del controllo politico del potere esecutivo, legislativo, e giudiziario
da parte di un pubblico critico e della sua rappresentanza parlamentare».36
La Chiesa cristiana è a sua volta una res publica. Ogni
celebrazione è un evento pubblico. La verità dell’Evangelo richiede
imperiosamente la dimensione pubblica. Per questo il cristianesimo non
potrebbe diventare una religione misterica. Il suo mistero è un «mistero
notoriamente pubblico» (Goethe).
La fede cristiana tuttavia non
conosce solo la dimensione pubblica coram mundo, in cui ci si
incontra l’un l’altro nella prospettiva di osservatore. I
cristiani si sanno chiamati a rendere ragione anche coram Deo. E davanti
a Dio nessun io può permanere nella prospettiva di osservatore.
Davanti a Dio «non c’è nessun osservatore, ma solo persone
partecipi».37 E
mentre l’uomo nella dimensione pubblica mondana si presenta davanti a
molti ed estremamente diversi forum, Dio è un unico
forum che non ne ha accanto altri. Ne consegue che l’uomo, che vive
davanti a molti forum mondani, coram mundo si presenta sulla
scena solo in modo parziale, mentre coram Deo egli si presenta
come uomo intero e totale – come totus homo.
Però questa dimensione
pubblica coram Deo si vuole articolare coram mundo. La
dimensione pubblica coram Deo, costituita mediante la prospettiva
della partecipazione, che giunge a rappresentazione nella Chiesa, si
vuole rendere sensibile e percettibile nella dimensione pubblica coram
mundo costituita mediante la prospettiva dell’osservatore.
Tenendo presenti qui tutte le differenze che devono essere poste tra
dimensione pubblica ecclesiale e dimensione pubblica politica, in ogni
caso deve essere tenuto per fermo il fatto che il cristianesimo ha una
genuina affinità con la democrazia in quanto in entrambi nulla può
procedere nel segreto. Il cristianesimo tende, alla sua maniera,
verso la dimensione pubblica. E la democrazia tende, alla sua maniera,
verso la dimensione pubblica.
Questi rimandi potrebbero
essere sufficienti per rendere chiaro in quale grande misura il
cristianesimo abbia una particolare affinità con la democrazia. Secondo
l’intelletto e la visione umana la democrazia potrebbe giungere alla
massima approssimazione dell’ideale cristiano dello stato giusto.
La Chiesa non cesserà, anche
all’interno della società pluralistica, di interrogare la forma
statale dello stato in cui essa esiste, sul fatto se quella forma
sia, secondo il giudizio della fede, una migliore o peggiore forma
statale; se essa sia, e in che misura lo sia, in linea di
principio e concretamente, migliorabile o non migliorabile; e se, per
questo – poiché lo stato non migliorabile minaccia di cadere fuori
dalla categoria stessa di stato –, essa non debba essere sostituita da
un’altra forma di stato.
La critica che uno
stato che manca ai suoi compiti si attira su di sé è, tuttavia,
sempre una critica che torna a favore dello stato. Essa non rappresenta
alcuna alternativa al rispetto che è dovuto allo stato e ai suoi
rappresentanti, ma con tale critica esercitata in determinati momenti la
Chiesa rispetta lo stato quale ordinamento grazioso di Dio. E così
dovrebbe essere il sentire dei rappresentanti stessi dello stato: che la
critica allo stato da parte della Chiesa non è altro che
l’espressione più affinata e precisa del rispetto con cui essa
impegna lo stato a essere un’opera buona di Dio a favore dell’uomo.
Io aggiungo che la Chiesa,
nella società pluralista, dovrà rispettare i cittadini quali
soggetti immediatamente responsabili per lo stato e, dunque, dovrà
rispettare i cristiani quali cittadini maturi e maggiorenni.
Certo, essa partirà dal fatto che il singolo individuo anche in quanto
cittadino non cessa di essere un cristiano e quindi di decidere
cristianamente e di agire cristianamente. Ma l’agire politico dei
cristiani si può realizzare in un ampio spettro di possibilità
politiche, così che i singoli cristiani in quanto cittadini possono
giungere a decisioni tra loro molto differenti. La Chiesa deve
acconsentire a ciò. Essa deve, pertanto, approvare i differenti giudizi
politici e le differenti azioni politiche dei cristiani.
E ora, alla fine, mi sia
permessa ancora un’osservazione sul rapporto delle Chiese cristiane
con l’Unione Europea. Che gli stati democratici all’interno di una
società pluralistica siano vincolati all’istituzionalizzazione della
loro collaborazione, è già stato detto. La domanda che mi porto dentro
alla fine di questa mia relazione è se, e in quale maniera, la
collaborazione istituzionalizzata degli stati dell’Europa debba
prendere in considerazione il passato di un’Europa che allora era
cristiana. Appartiene all’identità dell’Europa38
il fatto che essa venga costruita attraverso una partecipazione del
cristianesimo al processo di decisione che la configura?
All’identità dell’Europa
del passato senza dubbio alcuno. Ciò che noi chiamiamo Europa è stato
primariamente «prodotto» mediante il cristianesimo.39
Questo lo si può affermare senza misconoscere il fatto che l’antico
umanesimo e il diritto romano hanno anch’essi contribuito a
configurare profondamente l’Europa. Dal punto di vista antropologico
è però incontestabile che solo la dignità dell’uomo fondata
nel definitivo riconoscimento della persona umana da parte di Dio
ha dato all’Europa un conio cristiano; un conio cristiano che –
bisogna onestamente e francamente riconoscere – è emerso chiaramente
solo nella sua forma secolarizzata. Ma se la persona umana e la sua
dignità sono costituite mediante un atto divino di riconoscimento, e se
la memoria a questo dato contenutistico antropologico fondamentale
appartiene all’eredità dell’Europa, allora apparterrà anche
all’Europa del futuro l’«accordo su una cultura del riconoscimento»,
che si fonda sul rispetto «della dignità inviolabile della persona
umana».40 Una
tale cultura del riconoscimento vieta di trattare un io come un esso
impersonale e, con ciò, di livellare la differenza categoriale tra qualcuno
e qualcosa.
Insieme all’inviolabilità
della dignità umana è strettamente connesso, e dipendente, il fatto
che l’uomo non deve essere responsabile del suo essere come
persona, ma deve essere responsabile delle sue azioni. Il forum
davanti al quale egli deve rendere responsabilmente ragione delle sue
azioni è la coscienza [morale], che è inviolabile esattamente
allo stesso modo in cui lo è la dignità dell’uomo. Poiché nella
coscienza io mi rendo responsabile di me davanti a me stesso come se io
stessi davanti a Dio (I. Kant). Per questo appartiene
all’irrinunciabile eredità cristiana dell’Europa (che in questo
caso è strettamente congiunta con la filosofia stoica) che la libertà
di coscienza sia garantita a livello fondamentale del diritto. Solo
allora l’Europa si ritroverà assicurata rispetto al pericolo di
degenerare a una mera comunità amministrativa – anziché
affermarsi come comunità della responsabilità. L’analogo
politico della coscienza è il Parlamento, davanti al quale
coloro che sono politicamente responsabili – governo e opposizione –
debbono responsabilmente rendere ragione. Per questo motivo è un
«cattivo segno» per l’Europa dell’ora presente che i politici del
nostro tempo si spieghino e rendano ragione del proprio agire politico
più spesso nei talkshows televisivi che davanti al Parlamento.
La Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea, che può ben valere quale
accertamento consapevole e promulgazione dell’identità dell’Unione
Europea, si fonda «sui valori indivisibili e universali della dignità
umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà». Questa è senza
ombra di dubbio una memoria dell’«eredità cristiana» dell’Europa.
Eppure nello stesso preambolo della Carta non si è evidentemente
osato chiamare per nome in maniera chiara e palese questa eredità. Solo
nella versione tedesca si parla di un eredità «spirituale-religiosa»
dell’«Unione europea», mentre nelle versioni delle altre lingue
ufficiali manca il rimando alla religiosità. Dietro a ciò vi c’è
chiaramente una controversia che il Presidium della Convenzione per il
futuro dell’Europa ha inteso risolvere con un «aggiustamento ad arte
della traduzione».41
E questo è un fatto da biasimare. Epperò la cosiddetta «eredità
cristiana» dell’Europa continua a vivere in maniera vitale da tempo
in forma secolarizzata. E le Chiese cristiane continua pure a vivere
della forza dello Spirito Santo. Per evitare l’impressione di dare
alle istituzioni cristiane lo stesso peso della tutela dello stato
patrimoniale, è bene non provocare qui alcuna controversia in materia.
Ben più importante è il fatto che la positiva libertà di religione
nell’Unione Europea non venga limitata esclusivamente a una libertà
di religione individuale, bensì che venga riconosciuta anche come
libertà di religione corporativa e collettiva. Infatti, la fede
cristiana sa del singolo io e del suo credo unicamente come di un
io unito alla comunione dei credenti (communio sanctorum), e un
io che si accorda insieme al loro credimus. Il diritto a una
positiva libertà di religione deve tenere conto di questa struttura-di-communio
che è essenziale per il cristianesimo.
Ancora più importante è se
l’Europa del futuro – come sostenuto da Jacques Delors – avrà
un’anima. Secondo C.F. Weizsacker la pace è il corpo di
una verità. E pace è possibile solo «fintanto che la verità
che la sostiene è in grado di tenere».42
Se le cose stanno effettivamente così, allora l’anima
dell’Europa sarebbe una verità. Si tratta della verità
proclamata dell’Evangelo dalle Chiese cristiane – e francamente
troppo spesso non seguita -, quella verità che secondo Gv 8,32 rende
liberi? E la verità soteriologica ha anche una forma mondana, politica?
Allora ogni legiferazione europea dovrebbe essere pensata in
ordine a un aumento di libertà: tuttavia essa dovrebbe essere
orientata a un tale aumento della libertà che non cessa di essere,
anche nella sua forma più alta, libertà umana.
E questo mi permette, al
termine di questo contributo, di passare alla questione, se una
Costituzione europea o una corrispondente Carta dei diritti
fondamentali nel loro preambolo debba o possa richiamarsi al nome di
Dio. In questa prospettiva io sono dichiaratamente favorevole per il
rimando a «Dio», così come esso è presente nel preambolo della Legge
fondamentale della Repubblica federale di Germania, nella Costituzione
svizzera e in quelle della Grecia e della Repubblica d’Irlanda. Se uno
stato si intende in modo tale che la sua Costituzione comprenda la
responsabilità davanti a Dio, allora è definitivamente esclusa la
possibilità che dimensioni ideologicizzate – come la classe o la
razza – vengano dichiarate come le più alte istanze di responsabilità.
Che la parola «Dio» possa pur venir letta anche come una posizione
vuota – e quantomeno un ateo leggerà così la parola –. Ma in tal
modo rimarrà in ogni caso una memoria del fatto che all’uomo è
interdetto di porre da sé un «valore supremo». La parola «Dio»
rimanda l’uomo, anche qualora essa venga letta come una posizione
vuota, ai suoi limiti. Essa impedisce all’uomo di divinizzare i suoi
ideali. E nel mondo politico, all’uomo non può capitare nulla di
meglio del fatto che gli divenga chiaro che egli non è alcun Dio. Poiché
allora, e solo allora, egli può essere un uomo umano, un homo
humanus. Allora, e solo allora, il suo agire può divenire umano.
Quindi: «Noi dobbiamo essere uomini e non Dio – questa è la summa».43
Eberhard
Jüngel
NOTE
1
«Due spade» le troviamo già nella Sacra Scrittura. Nel Vangelo
di Luca, tra l’annuncio del triplice rinnegamento del Signore da parte
di Pietro e la pericope del Getsemani, s’inserisce uno sguardo verso
quella che sarà la situazione di distretta per i
discepoli dopo la morte di Gesù. Se finora non dovevano preoccuparsi
delle condizioni materiali della loro esistenza, ora i discepoli vengono
rimandati da Gesù al fatto che essi, nel tempo della persecuzione che
sta per giungere – qui è inteso «il tempo della Chiesa, come spiega
Luca negli Atti degli apostoli» (W.
Grundmann, Das Evangelium nach Lukas. Theologischer
Handkommentar zum Neuen Testament,
Vol. III, 91981,
409), dovranno provvedere da sé a quanto di più necessario. E per
sottolineare la serietà della situazione, Gesù ingiunge loro di avere
sempre con sé una spada. I discepoli, però, fanno cenno che essi già
ora hanno non solo una spada, bensì due. Gesù interrompe la scena in
maniera un po’ brusca dicendo: «Basta!» (cf. Lc 22,35-38).
2
Il controcanto alla teoria medioevale delle due spade è rappresentato
dalla forma elaborata in Inghilterra dai giuristi di corte dell’epoca
elisabettiana dei due corpi del re, che accredita al monarca non
solo un corpo naturale e mortale, bensì anche un corpo soprannaturale
comparabile a quello degli angeli che non muore mai: il re, e non il
papa, appare ora come il rappresentante di Cristo sulla terra. Come
Cristo è persona in due nature (la natura umana e quella divina), così
la persone regale esiste con due corpi (un corpo mortale e uno
immortale). Anche questa teoria ha radici molto più antiche (esse sono
state illustrate da E.H.
Kantorowicz, The King’s Two Bodies. A
Study in Medieval Political Theology,
1957; trad. it. I due
corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medevale, Torino
1989). La si può identificare anche nella simbologia dell’antica
corona dell’impero custodita a Vienna.
3
Martin Lutero, «Ob
Kriegsleute auch in seligem Stande sein können», 1526; WA 19,
629.
4
«Senza ricorrere alla forza, ma unicamente con la parola»: Confessione
di Augusta, art. 28; in R.
Fabbri (a cura di), Confessioni
di fede delle Chiese cristiane, EDB,
Bologna 1996, n. 109.
5
«Non deve dettare legge ai magistrati sulla forma di organizzazione
dello stato»; in Fabbri (a
cura di), Confessioni
di fede delle Chiese cristiane, n.
108.
6
Martin Lutero,
«Predigt vom 4. Mai
1522»: WA 10/III, 122.
7
Dichiarazione teologica di Barmen, 1934; in Fabbri
(a cura di), Confessioni
di fede delle Chiese cristiane, n.
2173.
8
Cf. K. Barth, Christengemeinde
und Bürgergemeinde, Kaiser, München 1946, 4 (ristampato in Id.,
Rechtfertigung und Recht, 1998, 47-80 qui 48).
9
I. Kant,
Kritik der reinen Vernunft, B 561, in Id.,
Gesammelte Schriften (=Akademie Ausgabe), Vol. III,
1911, 363; trad. it. Critica
della ragion pura, Bari
1924.
10
I. Kant, Gesammelte
Schriften, Vol. VII,
1917, 130; trad. it. Antropologia
pragmatica, Bari 21969.
11
«L’egoista logico ritiene inutile di verificare il suo
giudizio rispetto all’intelletto di altri, come se egli non avesse
alcun bisogno di questa pietra di paragone (criterium veritatis
externum)». «L’egoista estetico è colui a cui basta già
il proprio gusto». L’«egoista morale» da ultimo delimita «tutti
gli scopi a se stesso» e vede «l’utilità» solamente «in ciò che
serve a lui» e nella «propria felicità» (Kant,
Gesammelte Schriften, 128-130).
12
I. Kant, Gesammelte
Schriften, 130.
13 W.
Kerber, «Pluralismus», in Historisches Wörterbuch der
Philosophie, VII, 988-993, qui 990.
14
C. Schmitt, Der Begriff
des Politischen. Text von 1932 mit einem Vorwort und drei Corollarien,
Berlin 1987, 44s.
15
Cf. G. Klaus, M. Buhr (a
cura di), Philosophische Wörterbuch, Leipzig 121976,
940.
16
O. von Nell-Breuning, «Unitarismus
und Pluralismus», in Id.
(a cura di), Gesellschaftliche Ordnungssysteme, Herder, Freiburg
1951, 449-450, 459-460, 449s.
17
Cf. I.U. Dalferth, «Das
Wort von Kreuz in der offenen Gesellschaft», in Id.,
Gedeutete Gegenwart. Zur Wahrnehmung Gottes in der Erfahrungen der
Zeit, Mohr Siebeck, Tübingen 1997, 57-85, 69ss.
18
Cf. E. Herms, «Auf dem
Weg in die offene Gesellschaft», in Id.,
Erfahrbare Kirche. Beiträge zur Ekklesiologie, Tübingen 1990,
239-249, 240s.
19
Cf. Dalferth, «Das Wort
von Kreuz», 73s.
20
E. Lévinas, «Die
Transzendenz und das Übel», in Id.,
Wenn Gott ins Denken einfällt. Diskurse über die Betroffenheit von
Transzendenz, Freiburg i.Br. 1985, 172-194 qui 192 (cf. in
particolare 192-194); trad. it. Di
Dio che viene all’idea, Milano
1983. Cf.
Id., «Vom Einen zum
Anderen», ivi, 229-265 (in particolare 257).
21
La itio in partes e l’amicabilis compositio furono
codificate nella pace di Westfalia (Instrumentum pacis
Caesareo-Suecicum Osnabrugense 1648) per le adunanze della dieta
imperiale: «In causis religionis omnibusque aliis negotiis, ubi
status tamquam unum corpus considerari nequeunt, ut etiam catholicis et
Augustanae confessionis statibus in duas partes euntibus, sola
amicabilis compositio lites dirimat, non attenta votorum pluralitate»
- da C. Mirbt, Quellen
zur Geschichte des Papstum und des römischen Katholizismus, Tübingen
41924, 378 («In fatti di religione, e in tutti gli altri
affari dello stato, nei quali le parti non possono essere considerati
come un corpo unico, come quando i cattolici e i membri della
Confessione di Augusta si scompongono in due parti, si deve dirimere la
contesa unicamente attraverso una composizione amicale senza ricorrere
alla maggior parte [intesa come maggioranza] dei voti»).
22
Dichiarazione teologica di Barmen, n. 5; in Fabbri
(a cura di), Confessioni
di fede delle Chiese cristiane, n.
2173.
23
Cf. E. Herms, «Religion
und Organisation. Die gesellschaftliche Funktion von Kirche aus der
Sicht der evangelischen Kirche», in Id.,
Erfahrbare Kirche, 49-79 (in particolare si veda 56-62).
24
F. Schleiermacher, Der
christliche Glaube, Vol. I,
§ 6.2, 71960, 45
(a cura di M. Redeker).
25
Confessione di Augusta, art. 28; in R.
Fabbri (a cura di), Confessioni
di fede delle Chiese cristiane, EDB,
Bologna 1996, n. 106ss.
26
Die Kirche und die internationale Unordnung, Genf 1948, 271ss.
27
Cf. A. Schavan, «Pluralismus»,
in Staatslexikon, IV, Freiburg 71988,
430.
28
Dichiarazione teologica di Barmen, n. 6; in Fabbri
(a cura di), Confessioni
di fede delle Chiese cristiane, n.
2174.
29
Cf. E. Troeltsch, Richard
Rothe. Gedächtnisrede,
1899, 39.
30 Sulla
questione si veda O. Höffe,
Demokratie im zeitalter der Globalisierung, München 1999, 282ss.
31
Barth, Rechtfertigung
und Recht, 1938, 43 nota 30b (ristampato in K.
Barth, Rechtfertigung und Recht. Christengemeinde und Bürgergemeinde,
1998, 5-45, qui 41 nota 30b).
32
Höffe, Demokratie,
107.
33
Ivi.
34
Ivi, 114.
35
Barth, Christengemeinde
und Bürgergemeinde, 29s (nella ristampa 68s).
36
Dalferth, «Vor Gott gibt
es keine Beobachter. Öffentlichkeit, Universität und Theologie», in Id.,
Gedeutete Gegenwart, 36-56 qui 40. Attraverso
la modificazione delle strutture sociali e il cambio della funzione
politica, il principio del fattore critico del pubblico, che organizza
le procedure degli organi statali (parlamento e tribunali), è divenuto
una sempre più ampia sfera della dimensione pubblica che penetra tutta
la società. Questa dimensione pubblica, proprio in virtù della sua
potenziale onnipresenza, minaccia di finire col perdere la sua forza
critica e con ciò la sua funzione politica. La dimensione pubblica
viene di per sé stessa intesa in modo tale che si giunge a un processo
che si potrebbe contrassegnare come un abbandonarsi alla schiavitù
della dimensione pubblica. «Nulla, neanche di quanto più intimo vi
sia, è sottratto alla presa della dimensione pubblica (…) Solo a
colui che s’impone a essa viene accordato un significato che va preso
seriamente (…) Non vi è (quasi) nulla che non potrebbe essere portato
nello spazio della dimensione pubblica in nome di essa stessa» (Dalferth,
«Vor Gott», 36). L’introduzione di un potere manipolativo dei media
contribuisce a precostituire e dominare la dimensione pubblica, così
che la sua innocenza viene sottratta al principio del fattore critico
del pubblico (cf. J. Habermas,
Strukturwandel der Öffentlichkeit. Untersuchungen
zu einer Kategorie der bürgerlichen Gesellschaft. Mit einer Vorwort zur
Neuauflage,
Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1993, 28; trad. it. Storia
e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari
82001).
37
Dalferth, «Vor Gott»,
56.
38 Cf. W.
Graf Vitzthum, «Die Identität Europas», in Europarecht
37 (2002) 1, 1-16.
39
Cf. O. Kimmrich, «Europa
als (geistige) geschichtliche Erscheinung», in Essener Gespräche
zum Thema Staat und Kirche, 1993, 31.
40
Cf. W. Huber, «Europa als
Wertegemeinschaft. Seine christlichen Grundlagen gestern, heute, morgen»,
in M. Münkler, M. Lanque, C.K.
Stepina, Der demokratische Nationalstaat in den Zeiten der
Globalisierung. Politische Leitideen für das 21. Jahrhundert.
Festschrift zum 80. Geburtstag von I. Ftescher, 2002.
41
Cf. Graf Vitzthum, «Die
Identität Europas», 8s (anche la nota 22).
42
C.F. Weizsacker, Der
Garten des Menschlichen. Beiträge zur geschichtlichen Anthropologie,
München 61978,
40s.
43
Martin Lutero, «Brief an
Spalatin»: WA 5, 415, 45.
___________________________
[Fonte: Incontri di Camaldoli 2002]
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