Pluralismo, Cristianesimo Democrazia

Pluralismo – che parola enigmatica! Che cosa s’intende con essa? Qualcosa come il pluralismo vi era già al tempo del sorgere del cristianesimo, che nella tarda antichità fu percepito in primo luogo solo come una delle molte «offerte di senso» filosofiche e religiose in concorrenza fra di loro. Ma questo pluralismo tardoantico – in un certo qual modo paragonabile al pluralismo della tarda modernità – fu, lentamente sì, ma con certezza condotto alla propria fine esattamente dalla Chiesa cristiana, quando essa ebbe raggiunto il potere necessario, mediante la cristianizzazione di tutti gli ambiti e settori della vita. Di contro, il pluralismo moderno si è sviluppato attraverso un movimento contrario a motivo della decristianizzazione della società – o quantomeno parallelamente a essa –. Per questa ragione, abbiamo oggi a che fare con una situazione completamente diversa rispetto a quella che caratterizzava la costellazione tardoantica. Ciò che noi chiamiamo pluralismo moderno è un fenomeno sui generis.

            Chiarire che cosa significhi più precisamente l’espressione pluralismo, e come la Chiesa cristiana si comprenda in seno a una società caratterizzata dal pluralismo, è quanto vorrei cercare di fare in questo mio contributo. In merito si pone fin da principio la domanda sul porsi della Chiesa di fronte allo stato. Questa frontalità deve essere, dapprima, discussa in relazione alla differenza della Chiesa dallo stato; poi, però anche in merito al rapporto positivo di entrambe le grandezze; e, non da ultimo, sotto il punto di vista di una possibile affinità del cristianesimo verso la forma democratica dello stato. Tutta la relazione si divide, conseguentemente, in tre parti. In primo luogo, sarà presa in considerazione in una prospettiva teologica la differenza di stato e Chiesa. Poi, si rifletterà sul fenomeno di una società pluralistica. E, infine, si tratterà del rapporto positivo fra Chiesa e stato, dove sarà discussa anche la questione del rapporto del cristianesimo con la democrazia.

La differenza tra stato e Chiesa
in prospettiva teologica

            Quid est imperatori cum Ecclesia? Che cosa ha a che fare l’imperatore (Cesare) con la Chiesa? E che cosa ha a che fare la Chiesa con l’imperatore (con Cesare)? La domanda di Donato (intorno al 315) sembra pensare a una relazione fra stato e Chiesa solo come non-rapporto: Chiesa e stato sembrerebbero stare semplicemente una di fronte all’altro senza relazione.

            Ma quest’apparenza inganna. E la Chiesa imperiale ha emarginato, non senza buone ragioni, i donatisti come scismatici. Infatti, la comunità cristiana ha tematizzato, già nel suo sorgere, il suo rapporto con il bene comune politico come una relazione positiva. In quel caso non si trattava affatto solo di un qualsivoglia bene comune politico, all’interno del quale la comunità cristiana ha la sua collocazione mondana. La Chiesa, piuttosto, s’imbatte nello stato già quando essa riflette su se stessa: tuttavia non in uno stato terreno, ma nello stato celeste; non in un qualche presente politeuma, ma nel politeuma che si attende dal cielo; non nella polis terrena,  ma nella polis che deve venire. I cristiani si comprendono come cittadini di un bene comune politico eterno, in cui essi già fin d’ora hanno diritto di cittadinanza – come attesta esplicitamente tutta una serie di testi del Nuovo Testamento (cf. Fil 3,20; Eb 11,10-16; 12,22; 13,14; Ap 21). La meta ultima della Chiesa non è, quindi, nuovamente una comunità religiosa spirituale, ma l’eterno politeuma, il regno di Dio. Questo orientamento escatologico della Chiesa verso il vero e proprio stato, ossia il veniente regno di Dio, dà al rapporto della Chiesa con lo stato terreno un orientamento che è sia positivo sia critico. Come poi debba essere caratterizzato in linea di principio e in via pratica questo rapporto, è questione classica che ha sempre mosso gli animi dei teorici e dei pratici nella Chiesa e nello stato.

            La forma medioevale della relazione di stato e Chiesa trovò il suo momento di consapevolezza riflessa nella cosiddetta teoria delle due spade.1

            Essa afferma che il mondo è retto e governato da due poteri: da un parte dall’autorità santificata dei vescovi e, dall’altra, dal potere imperiale. I vescovi portano la spada spirituale (gladius spiritualis), il re porta la spada mondana (gladius temporalis). Ma entrambi portano una spada. Discusso era tuttavia se Dio avesse dato al papa originariamente entrambe le spade, così che il papa e solo il papa, in quanto detentore originario del gladius uterque, personificasse l’unità del mondo, mentre l’imperatore doveva ricevere dal papa la spada politica; oppure se l’imperatore avesse ricevuto la sua spada mondana direttamente da Dio, così che il potere temporale poteva essere esercitato sì in nome di Dio, ma indipendentemente da qualsivoglia legittimazione ecclesiale. 2

            Tutt’altro è l’orientamento della dottrina luterana dei due regni e domini, del governo temporale e del governo spirituale di Dio. Essa limita la logica della spada unicamente al «governo temporale», ossia allo stato, mentre per quanto riguarda il «governo spirituale», cioè per la Chiesa, vale l’ammonimento di Gesù a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero» (Mt 26,52; cf. Lc 22,49-51). Certo, anche nella Chiesa vi è potestas, ossia una signoria. E l’ideale, oggi ampiamente decantato, di una vita associata senza forme di governo non è solo totalmente distante dal cristianesimo romano-cattolico, ma anche da quello riformato. Però vi sono diverse forme di signoria e governo. La potestas fondata dall’Evangelo viene esercitata «mediante la parola senza la spada», mentre il dominio temporale rimane legato alla spada, ossia alla minaccia e all’esercizio di una violenza del potere.3

            Poiché la Chiesa esercita la sua potestas «sine vi humana, sed verbo»,4 ne consegue che essa si distingue rigorosamente dalla potestas politica dello stato: «Non igitur commiscendae sunt potestastes ecclesiastica et civilis». La Chiesa non deve intervenire nell’ufficio dello stato, non deve elevare al trono o deporre dei re: «Non praescribat leges magistratibus de forma reipublicae constituenda».5 Corrispondentemente, all’inverso, viene vietato allo stato di immischiarsi con il suo potere temporale in questioni che riguardano la fede. Se lo stato, tuttavia, tenta di farlo, se vuole determinare per ordinamento che cosa deve essere creduto e che cosa non lo deve essere, allora il cristiano deve dichiarare: «Tu non sei più il mio imperatore, io non debbo a te più alcuna obbedienza».6 In questi casi si deve una obbedienza maggiore a Dio che agli uomini (cf. At 5,29).

            Nel solco della tradizione di questa distinzione riformata, molto tempo dopo e sotto terribili presupposti, la Chiesa confessante in Germania nel 1934, nella V tesi della Dichiarazione teologica di Barmen contro la dittatura nazionalsocialista, in merito alla commistione della potestas ecclesiastica con la potestas civilis – lo stato ideologicizzato da un lato, e la Chiesa politicizzata dall’altro, rimandandoli alle loro linee di demarcazione – ha dichiarato: «Rigettiamo la falsa dottrina secondo cui lo stato, al di sopra e al di là del suo compito particolare, dovrebbe e potrebbe diventare il solo ed esaustivo ordinamento della vita umana, assolvendo in tal modo anche la funzione della Chiesa. Rigettiamo la falsa dottrina secondo cui la Chiesa, al di sopra e al di là del suo compito particolare, dovrebbe e potrebbe appropriarsi delle caratteristiche, dei compiti e della dignità dello stato, tanto da diventare essa stessa un organo dello stato».7

            La differenza fondamentale fra stato e Chiesa appare però solo a partire da quanto di comune hanno tra di loro queste due grandezze. In entrambi gli ambiti si tratta della riuscita del vivere associato e comune delle persone. Chiesa e stato sanno bene che la vita è possibile solo in quanto vita vissuta insieme. E Chiesa e stato sanno bene che la vita associata fra le persone non può riuscire senza altre implicazioni, e che addirittura essa è profondamente minacciata dalle persone stesse che vivono insieme. La Chiesa conosce gli uomini come peccatori. Lo stato conosce gli uomini come egoisti che si vogliono realizzare a qualunque costo e, troppo spesso e volentieri, a spese degli altri. Per questo, sia la Chiesa sia lo stato sono obbligati a quegli ideali del diritto, della pace e della libertà che proteggono e favoriscono il vivere associato umano. Chiesa e stato sono precisamente questo, ma lo sono in una maniera estremamente diversa.

            Nella convivenza politica può trattarsi solo di una giustizia esterna, relativa e provvisoria, di una pace esterna, relativa e provvisoria e di una libertà esterna, relativa e provvisoria.8 Giustizia, pace e libertà quali dimensioni assolute e definitive che determinano l’uomo dall’interno verso l’esterno, sono invece contrassegni del regno di Dio. Entrambi, Chiesa e stato, partecipano a questo veniente regno di Dio, a questo politeuma celeste. Entrambi, nel mondo ancora non redento, sono parabole o abbozzi dell’eterno regno di Dio. Ma lo sono in maniera estremamente diversa. Perché la comunità dei credenti ha già adesso diritto di cittadinanza nel politeuma celeste. Il bene comune politico, invece, si deve sì a una disposizione divina (cf. Rm 13,1-7), ma esso non sa nulla di ciò, è spiritualmente cieco. Per questo, nel migliore dei casi, esso esiste come una parabola estremamente fragile della polis eterna che deve venire, senza poter riflettere su questa sua capacità di essere parabola di quella polis. La Chiesa, invece, vive consapevole di quanto sarà nel regno di Dio. Essa partecipa già ora a ciò che nel politeuma celeste sarà il fatto, mentre lo stato sulla terra deve dapprima mettere in atto quanto nel regno di Dio è già un fatto: ossia giustizia, pace e libertà. La Chiesa conosce giustizia, pace e libertà come un indicativo che sorge da Dio stesso, mentre lo stato sta sotto l’imperativo di doversi occupare e preoccupare per giustizia, pace e libertà. Cerco di spiegare più precisamente.

            1. Entrambi, stato e Chiesa, sono vincolati e obbligati all’ideale della giustizia. La Chiesa conosce il vivere insieme degli uomini come comunità dei credenti e, quindi, nella forma particolare del vivere insieme di questi uomini con Dio. Ma essi possono vivere insieme con Dio solo perché, e nella misura in cui, Dio stesso ha reso possibile questo vivere insieme, garantendolo anche per il futuro. L’Evangelo proclama questo indicativo reso possibile e garantito da Dio stesso. Nell’Evangelo Dio si rivela come colui che giustifica e rende giusto il peccatore e, in questo modo, realizza la sua giustizia teologale sulla terra come la giustizia giustificante il peccatore (cf. Rm 1,17-3,28). La Chiesa vive di questo indicativo della giustizia. Di contro lo stato si ritrova invece davanti alla necessità di dover sempre «produrre» la giustizia mondana, la iustitia suum cuique tribuens e la iustitita commutativa, e davanti alla necessità di doverla garantire sempre di nuovo e in maniera nuova. Lo stato sta sotto l’imperativo di doversi occupare e preoccupare della giustizia.

            2. Stato e Chiesa sono obbligati e vincolati all’ideale della pace. La Chiesa vive di una pace che le è già stata accreditata e attribuita. Infatti Cristo è la sua pace (cf. Ef 2,14), laddove con pace, secondo la terminologia biblica, deve essere intesa quell’ampiezza e ricchezza relazionale della vita in cui le relazioni fondamentali dell’uomo – il suo rapporto con se stesso, col mondo e con Dio – sono a loro volta in relazione tra loro per il più ampio arricchimento e sostegno vicendevole possibili.

            Secondo la visione biblica, invece, il conflitto – la non pace – domina sempre quando una di queste relazioni fondamentali si impone senza rispetto alcuno a spese delle altre. L’io umano può realizzare il suo rapporto con se stesso in maniera così spietatamente sconsiderata, che tutto il resto di quanto c’è al mondo lo interessa solo in quanto materiale o strumento, e non più per il suo essere in sé. Ma l’io umano può realizzare anche il suo rapporto con Dio in maniera così priva di rispetto e considerazione, che il fanatismo mette liberamente in circolo i suoi effetti politicamente devastanti. Nella pace anche il rapporto con Dio non viene mai realizzato senza rispetto e a spese delle altre relazioni fondamentali.

            La Chiesa conosce la pace in primo luogo in forma sacramentale: nel battesimo e nella cena del Signore la pace è, in quanto indicativo, evento. A partire da questo indicativo sacramentale la pace si irradia nel mondo. La Chiesa sa bene questo: la pace cresce e deve crescere. Per questo è impegnata proprio in quanto Chiesa anche a favore del vivere insieme in pace nella società degli uomini. Lo stato però sta sotto l’imperativo politico di procacciare e produrre la pace nel mondo, e di garantirla sempre di nuovo. Lo stato deve occuparsi e preoccuparsi della pace sotto la minaccia e l’esercizio del potere anche come violenza. La pace rimane per lo stato un compito permanente.

            3. Stato e Chiesa sono obbligati e vincolati all’ideale della libertà. Per quanto riguarda la libertà di un cristiano, vale che essa non deve essere prima conquistata, ma che essa è presente già all’indicativo nella forma della fede e dell’amore. I credenti sono figli della libertà, alla quale sono stati liberati da Cristo (cf. Gal 4,31-5,1). Libertà, però, è – secondo una felice definizione anche in prospettiva teologica di I. Kant –9 la facoltà di iniziare da sé uno stato delle cose.

            Il credente è libero perché può iniziare qualcosa con Dio, e per questo lo può iniziare anche con se stesso. Colui che ama credendo è libero perché può dare inizio a qualcosa con gli altri uomini. Nella fede e nell’amore i cristiani corrispondono all’iniziare originario del creatore. A questo cominciamento nella fede e nell’amore seguono delle prosecuzioni che, tuttavia, non lasciano mai decadere l’inizio, bensì raccolgono in sé la sua incipialità, la traspongono e perfino la ampliano. L’indicativo della libertà originato dall’Evangelo rimane e cresce.

            La libertà di cui deve occuparsi e preoccuparsi lo stato è nella sua esteriorità, relatività e provvisorietà, e nel suo trovarsi davanti a esse, continuamente minacciata di venir superata e di decadere. Quella libertà deve garantirsi sempre di nuovo, e può essere limitata e problematizzata già lungo l’iter legislativo. Per questo motivo vi è la necessità di istituzioni della libertà che facciano sperare alla libertà quantomeno una durata relativa. E per questo lo stato è posto sotto l’imperativo di doversi occupare e preoccupare sempre di nuovo per la libertà. La libertà mondana deve essere difesa, e sempre di nuovo riconquistata, affinché i cittadini possano iniziare qualcosa anche in prospettiva e ambito mondano.

            È pertanto la differenza di indicativo e imperativo, nell’ottica di quei concetti comuni a Chiesa e stato che sono la giustizia, la pace e la libertà, che fissa la differenza fondamentale tra Chiesa e stato. La Chiesa vive dell’indicativo sovrano di iustitia, pax e libertas messe in atto dalla grazia di Dio, e conosce imperativi solo come iniziazioni e rammemorazioni di questo indicativo che mai può essere prodotto da lei stessa. Lo stato, invece, sta generalmente sotto l’imperativo del doversi occupare e preoccupare sempre di nuovo a favore di iustitia, pax e libertas. La Chiesa celebra l’indicativo della grazia – «la Chiesa celebra misteri» (così in maniera azzeccata il card. Martini). E la Chiesa si deteriorerebbe in un istituto pseudopolitico e pseudomoralistico qualora finisse col sottomettere l’indicativo sovrano della grazia a qualsivoglia imperativo che non sia dettato da quell’indicativo. Ma lo stato, qualora avanzasse la pretesa di mettere in opera e garantire esso stesso l’indicativo di eterna e assoluta iustitia, pax e libertas, si pervertirebbe in uno stato totalitario e fraintenderebbe conseguentemente se stesso come «ordinamento esaustivo della vita umana» (Dichiarazione teologica di Barmen, n. 5); e, in maniera del tutto consequenziale, finirebbe col pretendere per sé assorbendolo completamente tutto l’uomo, totus homo. Ma una pretesa di totalità – sia dell’individuo sia del vivere associato degli individui – può essere avanzata unicamente da colui che prima ha creato questa totalità. E la vera totalità – sia degli individui sia del vivere associato degli individui – si edifica solo a partire dall’interno verso l’esterno. Lo stato totalitario, invece, può tutt’al più realizzare un totum esteriore; e nella sua esteriorità questo totum non potrebbe essere che totalitario: un totum che, con mezzi esteriori, costringe elementi e parti eterogenee a un tutto. Se viene meno la coercizione totalitaria, allora si disgrega immediatamente anche questo totum totalitario – come sarebbe possibile studiare sulla scorta del crollo delle dittature che si presumono socialiste.

            Questo per quanto riguarda la differenza di stato e Chiesa in una prospettiva teologica. Tale differenza si fa valere nel modo più ottimale nella società pluralista. Ma che cos’è propriamente la società pluralista? È a quest’analisi che si deve passare ora.

La società pluralista

            L’espressione pluralismo è una creazione linguistica moderna. Essa si radica nella costruzione concettuale filosofica. E la lingua della filosofia nomina originariamente pluralismo in contrapposizione all’egoismo. Immanuel Kant annota nella sua Antropologia pragmatica:10 «All’egoismo può essere contrapposto solo il pluralismo». Si tratta qui, secondo Kant, di contrapposizioni del «modo di pensare», in ambito logico, estetico e morale; così che il pluralismo è contrapposto ogni volta a un egoismo logico, a un egoismo estetico e a un egoismo morale.11 Il pluralismo contrapposto all’egoismo è considerato tutte le volte in riferimento a criteri esterni per la valutazione del proprio giudizio e della propria disposizione. Questo vuol dire che il pluralismo prende sul serio il mondo polifonico (e sfaccettato) come la possibilità di un essere-altro che lo problematizza e lo corregge. Il pluralista sa che egli è solo uno fra i molti altri. Per questo si considera «come un semplice cittadino del mondo»,12 e si comporta di conseguenza.

            Se per Kant si trattava solo di un modo di pensare, filosofi a lui posteriori hanno legato il concetto «pluralismo» a una disposizione metafisica fondamentale e, conseguentemente, hanno compreso come contrapposizioni non più quelle tra egoismo e pluralismo, ma quelle tra monismo e pluralismo. Il monista vuole ricondurre tutto a uno, e intende l’intero come dominato dall’uno. Il pluralista, invece, comprende il mondo come molteplicità processuale e incompiuta, in cui le diverse parti della realtà sono rapportate le une alle altre solo attraverso relazioni esterne, senza che  una parte domini sopra le altre, così che l’intero degli enti non dovrebbe essere inteso come uni-versum quanto, piuttosto, come pluri-versum. Questo pluralismo filosofico della modernità si è servito volentieri della metafora politica, per esempio quando ha ritenuto di pensare il mondo pluralistico in analogia a una repubblica federativa piuttosto che come un impero o un regno. Ma quando si rende plausibile la teoria metafisica di una realtà pluralistica attraverso metafore politiche, allora si ha la conseguenza che anche la realtà politica, che anche lo stato e la società siano interpretabili essi stessi pluralisticamente. Così ha visto la luce il pluralismo politico. Esso si è volto contro la totalità giurisdizionale e l’onnipotenza dello stato, rimarcando le richieste all’autodeterminazione degli altri gruppi e associazioni sociali. Qui bisogna distinguere tra una più antica teoria del pluralismo (che fu sviluppata soprattutto negli USA) e una più recente teoria del pluralismo.

            Nel più antico pluralismo politico, di casa soprattutto negli Stati Uniti, «l’autonomia dei gruppi sociali davanti allo stato è sottolineata allo stesso modo in cui nel [pluralismo] filosofico lo è l’autonomia delle singole cose davanti a una uni-totalità della realtà. Lo stato viene sostanzialmente posto sullo stesso piano dei molti altri gruppi sociali, a cui l’individuo appartiene; ed è per questo che esso non può pretendere per sé una lealtà unanime. La sua autorità, piuttosto, viene ricondotta esclusivamente al libero consenso che gli individui gli accordano (...) In casi di dubbio le persone devono accordare la loro lealtà a colui che persegue uno scopo morale più alto».13 Questo vale anche per il possibile caso di conflitto fra stato e Chiesa.

            Contro questa più vecchia teoria del pluralismo politico si è mossa la critica del geniale quanto cangiante docente di diritto pubblico, strettamente legato al nazionalsocialismo tedesco, Carl Schmitt. Egli obiettava che una simile teoria finiva con l’eliminare del tutto la differenza fra stato e società. «Lo stato (...) diviene una società accanto e fra le altre società, che sono dentro o al di fuori dello stato».14 Con ciò lo stato viene, alla fin fine, depoliticizzato, diventando la trottola dei diversi e diversificati interessi sociali.

            Che questa critica fondamentale del pluralismo sia tornata a vantaggio della equiparazione totalitaria di tutte le forze e gruppi sociali operata dal fascismo italiano e dal nazionalsocialismo tedesco, è fatto palese. Questo però non deve farci perdere di vista che anche negli stati del «socialismo reale» il marxismo in via di realizzazione ha combattuto la teoria politica del pluralismo, sia a livello delle idee sia con parole e opere. La concezione di un «pluralismo socialista» o di un «socialismo pluralista», continuamente ridiscussa da parte del comunismo europeo occidentale, nell’Europa orientale fu sempre screditata e bollata come una «una decomposizione ideologica dei partiti marxisti-leninisti e come (...) il via libera alla controrivoluzione in seno allo schieramento socialista».15 Solo con la «perestroika» proclamata da Gorbaciov il pluralismo è divenuto anche nello «schieramento socialista» la rappresentazione di una meta su cui si poteva discutere effettivamente, e che da ultimo ha contribuito in maniera considerevole alla rapida fine del mondo statale «socialista».

            Nella Repubblica federale di Germania, a motivo dell’esperienza fatta durante il «Terzo Reich» della pericolosità di un estremo antipluralismo, fu ben accolto in linea di principio il nuovo pluralismo politico. Si acconsentì sostanzialmente al fatto «che vi è una molteplicità e varietà di ambiti sociali di vita e di forze di configurazione, che non si rifanno alle medesime radici e che, quindi, non si lasciano sintetizzare generalmente sotto un unico e uguale vertice capace di esaurirle».16 Ci si può immaginare un’Europa che va crescendo insieme solo se si acconsente in linea di principio al pluralismo.

            Sinceramente, in questo, è bene essere consapevoli del fatto che una società pluralistica 1) sviluppa sempre più una tendenza a una generale pubblicità del sapere: di un sapere in un numero sempre maggiore di ambiti, ma sempre meno raggiungibile attraverso la propria esperienza e percezione e, per questo, dunque un sapere sempre più difficile da valutare in maniera autonoma. 2) Una società pluralistica sviluppa una molteplicità di opinioni che si oppone alla totale dipendenza dal sapere di massa disponibile, e un’istituzionalizzazione della critica che – davanti alla sconcertante molteplicità di opinioni – aiuta a raggiungere una propria costruzione del giudizio; l’istituzionalizzazione della critica deve esporsi a tutte le opinioni che avanzano una pretesa di verità. 3) La società pluralistica, inoltre, sviluppa in maniera crescente un dibattito pubblico in merito a quei criteri che sono costitutivi per la critica, ma che spesso sono ancora da raggiungere e individuare, che possono avere valore sempre solo all’interno degli ambiti di interazione da diversificare tra loro. 4) Infine, una società pluralistica sviluppa insieme a tutto questo, contemporaneamente, anche una tendenza alla decostruzione di tutti i legami, le convinzioni di valore e i modelli di orientamento tradizionali, a favore di decisione proprie che spesso, però, sono insufficientemente fondate.17

            A ciò è strettamente collegato il fatto che la società pluralistica regola il vivere associato al suo interno non più sulla base di convinzioni condivise, ma solo sulla base di una coordinazione giuridica ed economica del comportamento esterno, ossia privilegia le regole del diritto e della ragione economica, e fa questo sia all’interno degli stati [singoli] sia, in maniera crescente, anche nel rapporto degli stati fra di loro.18 La società pluralistica pone, corrispondentemente, al posto di determinazioni morali di contenuto una moralità orientata alle procedure, per la quale il dolore evitabile dell’altro pone un limite definitivo alla propria realizzazione di felicità e libertà.19 Nel volto dell’altra persona l’«alterità del non-integrabile» incontra, quale imperativo categorico, l’ingiunzione a non percorrere il sentiero che conduce dell’uccisione dell’altro.20

            Da queste tendenze che appartengono della società pluralistica fuoriescono per essa anche dei pericoli, che devono essere identificati al fine di poterli mettere fuori gioco. Per esempio, è possibile che il rapporto gravido di conflittualità tra i differenti interessi dei gruppi o delle associazioni sociali tra di loro, oppure anche tra essi e l’interesse complessivo, possa minare l’unità sociale. Il potere delle potenze internazionali, delle burocrazie statali e non statali, e il potere dei media possono minacciare la libertà individuale. Il «raggruppamento» (Verlösung) degli interessi plurali attraverso il dominio delle grandi organizzazioni economiche e dei loro accordi può condurre al fatto che concorrenza e conflitti vengano smorzati, e che interessi più difficilmente o per nulla organizzabili non abbiano possibilità alcuna di emergere. I partiti, destinati alla cooperazione nella costruzione della volontà politica, e presenti nelle sedi parlamentari, possono giungere a un’inadeguata comprensione di sé stessi come uno stato nello stato qualora essi, invece di rappresentare la sovranità popolare, si indentifichino con essa. E da ultimo: la società pluralistica non è in grado di garantire la sua propria omogeneità, cosicché corre il rischio di frantumarsi in gruppi eterogenei.

            Ma il sorgere di iniziative dei cittadini, di nuovi movimenti sociali al di là dei partiti e delle associazioni tradizionali, così come il dato di fatto che interessi disparati di nuovo profilo siano ben in grado di articolarsi in modo tale da non poter essere messi da parte, tutto questo mostra che il pluralismo politico è del tutto capace di sviluppo ed è in grado di elaborare elementi di autocorrezione. Per questo vi è tuttavia la necessità del riconoscimento dello stato come un esercizio di governo che si occupa e preoccupa a favore del diritto, della pace e della libertà secondo la misura dell’intelletto umano e dell’umana capacità, sotto la minaccia della forza. Non da ultimo, lo stato ha il compito di limitare quell’«egoismo» invincibile presente anche in seno al pluralismo sociale – «egoismo» non solo delle persone, ma anche in primo luogo di singoli gruppi di interesse e dei partiti –, in modo tale che dalla concorrenza degli interessi organizzati non ne venga fuori un bellum omnium in omnes a livello sociale, e che da possibili concorrenti non si passi a essere reali nemici. Dalla concorrenza e dalla competizione si può trarre qualcosa, dall’antagonismo nulla.

            Dopo questa panoramica di massima sul concetto e la genesi storica del pluralismo politico, vogliamo ora chiederci in maniera più sistematica come si atteggia la Chiesa nei confronti della società pluralistica. Non ci addentreremo nella discussione della misura in cui la scissione confessionale, che la Riforma non intendeva provocare ma che però di fatto ha provocato, abbia condotto a una certa pre-forma religiosa del pluralismo politico nel Sacro romano impero germanico (la itio in partes e la amicabilis compositio erano istituzioni della Dieta dell’impero di allora, che possono essere prese in considerazione come pre-forme storiche del pluralismo politico).21

            Prendo piuttosto le mosse dal fatto che la Chiesa evangelica in Germania, nella sua Dichiarazione teologica decisa nel Sinodo di Barmen svoltosi nel 1934, con l’aver rigettato «la falsa dottrina secondo cui lo stato, al di sopra e al di là del suo compito particolare, dovrebbe e potrebbe diventare il solo ed esaustivo ordinamento della vita umana»,22 ha almeno implicitamente riconosciuto e acconsentito al pluralismo politico. Se lo stato non deve e non può divenire il solo ed esaustivo ordinamento della vita umana, allora possono e devono evidentemente darsi più ordinamenti, e più e diversi ambiti autonomamente ordinati della vita umana, che offrono ciascuno uno speciale e inconfondibile contributo alla configurazione della vita umana.

            Una società pluralistica funzionante presuppone, quindi, la differenziazione di forme comunitarie legate e orientate all’esercizio di un preciso compito, mediante la quale si impedisce una giurisdizione onnicomplessiva di singole istituzioni. Già F.D.E. Schleiermacher aveva diversificato, sulla base di un’interpretazione della struttura finita dell’essere-persona, quattro forme comunitarie(ambiti della cultura) legate e orientate all’esercizio di un compito preciso, costitutive per la società ma relativamente specifiche e separate, all’interno delle quali possono e debbono essere soddisfatti i bisogni fondamentali dell’uomo mediante un processo di interazione: stato, libera socializzazione, associazioni scientifiche, Chiesa. Poiché ciascuno di questi ordinamenti interattivi – a differenza di ordinamenti interattivi a prestazione integrale come, per esempio, la famiglia – è limitato solamente a prestazioni speciali in una forma comunitaria (questo vuol dire che né dallo stato, né dalla libera socializzazione, né dall’associazione scientifica, né dalla Chiesa si pretende, e nemmeno si accorda a essi, un contributo culturale integrale), abbiamo a che fare con un modello di società pluralistica. A questo modello corrisponde la differenziazione, ancora oggi corrente in sociologia, fra l’interazione politica in vista dello stabilirsi del governo, l’interazione economica in vista della produzione di mezzi alimentari (nel senso più ampio possibile), l’interazione culturale tesa alla produzione del sapere. Questa, a sua volta, si differenzia nella produzione scientifica su base esperienziale di un sapere che orienta nel campo della tecnica, e nell’elaborazione filosofica o teologica di un sapere religioso ed etico che orienta nelle sfere del vissuto.23

            In riferimento a quell’ambito di funzioni costitutivo della vita sociale contrassegnato con la parola «Chiesa», nella società pluralistica vige il dato che non si può dare alcun monopolio di valore statalmente garantito per una singola religione o visione del mondo. Quando si parla di «Chiesa» qui non s’intende in alcun modo esclusivamente la Chiesa cristiana. Piuttosto, «Chiesa» è – nel senso inteso da Schleirmacher – l’espressione generale per ogni «comunità spirituale relativamente circoscritta».24 Nella società pluralistica è espressamente escluso che un’unica comunità religiosa o di visione del mondo renda universalmente obbligante per l’intero della comunità le sue convinzioni fondamentali mediante un monopolio di valore garantito dallo stato, oppure che essa condanni all’illegittimità le convinzioni che sono in opposizione alle proprie. Questo differenzia la società pluralistica da quella impostata sul Corano. Davanti alle diverse, e addirittura concorrenti pretese di verità legate a una determinata visione del mondo, e alle istituzioni che le rappresentano, lo stato non può arrogarsi il ruolo di arbitro. Nella misura in cui esse permangono adeguatamente nello spazio costituzionale (ius circa sacrum), lo stato deve tollerare tutte le pretese di verità, anche se così facendo viene profondamente problematizzata l’unità interna della società. La società pluralistica rinuncia alla produzione di un’omogeneità interna per mezzo di un monopolio della verità religiosa e di una visione del mondo garantita dallo stato. Per questa ragione, è tanto più importante che le diverse comunità religiose – all’interno di questa società – cerchino quel minimo di accordo che conduca a un reciproco rispetto tra di loro, e permetta di intendere la critica reciproca solo come una critica fatta nel pieno rispetto l’una dell’altra.

            A partire dal presupposto di questo pluralismo del mondo indipendente da tutte le pretese di verità ecclesiali non è che si dovrebbe, ma si potrebbe evocare quella dimenticanza di Dio che l’Europa borghese ha messo in atto primariamente in forma privata, una privatezza però del tutto operativa in ambito pubblico, e che l’Europa comunista ha provveduto poi a mettere in atto in piena regola con quella pressione programmatica e ideologica  in grado di determinare tutta la società. In questo caso ha giocato un ruolo decisivo non solo il monopolio del potere, ma anche il monopolio ideologico della verità (uniformazione di tutti i media, indottrinamento già a partire dalle scuole e addirittura dall’asilo, e così via...!). E però colui che come politico fa valere solo una pretesa di verità, ebbene costui innesta la menzogna. E chi reprime politicamente altre pretese di verità, ebbene costui mente non solo nei confronti della realtà pubblica, ma inganna anche se stesso. La dittatura socialista era contrassegnata in tutti gli ambiti da questa menzogna di vita, con cui uno finisce con l’ingannare anche se stesso – fin dentro le sfere dell’economia -. Esattamente su questa menzogna essa è fallita. La Glasnost le è stata fatale.

            Il crollo di questo sistema ideologico-politico significa sì una chance straordinaria, ma non è in alcun modo una garanzia, per un nuovo risvegliarsi del religioso o, addirittura, per un movimento di ripresa ecclesiale. E in ogni caso esso non significa per nulla che la Chiesa abbia da dettare alla società mondana quelle che devono essere le leggi del suo agire. L’Evangelo contiene certamente delle pretese avanzate nei confronti del legislatore mondano, ma in nessun caso l’Evangelo è un legislatore politico – così come Gesù non è un «secondo Mosè». Le Chiese cristiane possono e debbono articolare tali pretese dell’Evangelo. Qualcosa di più vorrebbe dire un profilo minore. La Chiesa tradirebbe l’Evangelo qualora volesse identificarsi con il potere politico.

            La Chiesa rappresenterà sì la pretesa di verità dell’Evangelo come una pretesa di verità universale, ma la riconoscerà all’interno della società come una pretesa di verità tra molte, che non ha altra autorità che la preghiera apostolica: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).

            La persuasione cristiana fondamentale, ossia che la verità della fede può affermarsi senza potere mondano soltanto mediante la parola della predicazione,25 ha preparato il terreno per il pluralismo della società moderna. Con tutta franchezza bisogna riconoscere che le Chiese hanno compreso troppo tardi ciò che esse stesse avevano preparato.

            In maniera esplicita è stato solo il Consiglio ecumenico delle Chiese, con la Dichiarazione sulla libertà religiosa deliberata nel corso della sua prima assemblea plenaria svoltasi ad Amsterdam nel 1948, che ha espresso la capacità di pluralismo della fede cristiana. In quattro frasi guida si dichiara: «1. Ogni persona ha il diritto di decidere da sé la sua propria fede e la sua confessione di fede. 2. Ogni persona ha il diritto di esprimere le sue convinzioni religiose nella celebrazione, nell’insegnamento e nella vita pratica, e di esprimere pubblicamente quanto da esse consegue per i rapporti all’interno della comunità sociale o politica. 3. Ogni persona ha il diritto di associarsi ad altre persone e costituire con loro un’organizzazione comune a scopo religioso. 4. Ogni organizzazione religiosa, che viene costituita o mantenuta conformemente ai diritti individuali, ha il diritto di determinare da sé i propri ordinamenti e la propria prassi a servizio degli scopi per cui essa si è destinata».26 Anche la Chiesa cattolica-romana27 ha chiaramente acconsentito, con la dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa e con la costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, al pluralismo moderno e alla democrazia pluralistica.

            Che la Chiesa debba potersi comprendere e mostrarsi capace di pluralismo, non può però in alcun modo significare che essa intenda il proprio mandato in forma particolaristica, dovendosi limitare al numero più o meno grande dei suoi membri. L’Evangelo, che la Chiesa cristiana deve testimoniare e annunciare, è esso stesso proclamazione di una grande gioia di cui deve fare esperienza tutto il popolo (cf. Lc 2,10). La parola della croce, sebbene sia uno scandalo per i giudei e una stoltezza per i greci (cf. 1Cor 1,23), significa che Dio in Cristo ha riconciliato tutto il mondo. La VI tesi di Barmen afferma per questi motivi che «la missione della Chiesa» consiste nel «rivolgere a tutto il popolo per mezzo della predicazione e del sacramento, in luogo di Cristo e quindi attraverso il ministero della sua Parola e della sua azione, il messaggio della libera grazia di Dio».28 In questo senso la Chiesa è e rimane una «Chiesa di popolo».

            Quanto vi è di teologicamente significativo nel pluralismo politico è, pertanto, la rinuncia dello stato all’imposizione di pretese di verità: «Tra di noi, ora, non vi è più alcuna verità privilegiata» – affermava già Richard Rothe.29

            Fin qui sulla capacità di pluralismo della Chiesa, dove però mi stava a cuore soprattutto esporre il tratto della Chiesa nel pluralismo e nella società pluralistica. La questione non meno importante del pluralismo nella Chiesa (quanta molteplicità essa è in grado di sopportare, ma anche di quanta pluralità essa ha bisogno?) rimane purtroppo al di fuori di queste mie riflessioni.

Il riconoscimento ecclesiale dello stato.
Cristianesimo e democrazia

            Il pluralismo politico non deve annientare l’«egoismo» naturale degli individui e l’«egoismo» organizzato dei gruppi di interesse, piuttosto lo deve valorizzare in modo tale che essi possano venire limitati e, in quanto limitati, possano essere soddisfatti (e, rispettivamente, che essi possano essere soddisfatti e, in quanto soddisfatti, limitati). Affinché della concorrenza degli interessi plurali e diversificati, che è pur da promuovere e favorire, non ne venga fuori un bellum omnium in omnes sociale e asociale, e che quindi dei concorrenti non divengano reali nemici, la società pluralistica è vincolata allo stato e, più precisamente, allo stato democratico. Il funzionamento del pluralismo politico presuppone un consenso minimale all’interno della società, senza la cui formulazione e riconoscimento vincolante – nella forma di diritti fondamentali e doveri fondamentali – il pluralismo relativo legittimo è destinato a divenire un pluralismo assoluto, che sarebbe solo l’inizio della fine del pluralismo politico. Per garantire il pluralismo relativo davanti a un pluralismo totalitario assoluto, la società è vincolata e legata a uno stato democratico. Nelle odierne democrazie pluralistiche dei paesi altamente industrializzati è essenziale, e indispensabile, un’apertura che sta divenendo sempre più ampia delle frontiere nazionali – politica, economia e scienza sono di fatto già collegate «in rete» oltre tutte le frontiere nazionali: le loro problematiche e compiti si pongono sempre più spesso non solo a livello locale ma, contemporaneamente, anche a quello globale. Per questo motivo, però, richiedono una universalizzazione dei mezzi e dei metodi necessari alla risoluzione dei loro compiti. In ragione di ciò, è indispensabile la collaborazione istituzionalizzata degli stati. Una tale collaborazione istituzionalizzata degli stati riuscirà solo se si giunge a una democratizzazione del livello interstatuale.30

            Questa problematica estremamente complessa deve essere qui ridotta alla discussione del rapporto positivo tra Chiesa e stato nella società pluralistica. Ne va qui non da ultimo della questione se la fede cristiana privilegi o meno una determinata forma di stato.

            In primo luogo si deve constatare che la Chiesa cristiana riconosce e acconsente, in linea di principio, allo stato come a un ordinamento divino. Un tale fatto, sulla base della testimonianza del Nuovo Testamento, è fuori di dubbio. Il capitolo 13 della Lettera ai Romani può essere richiamato alla memoria anche in rappresentanza dell’abbondanza di espressioni analoghe: lo stato è per Paolo un minister tibi in bonum (Rm 13,4), e per questo ha diritto a quel rispetto da parte dei cittadini che pertiene a un ministro – un rispetto alimentato non dalla paura davanti al potere, bensì un rispetto che viene dalla propria coscienza (cf. Rm 13,5). Lo stato, nel giudizio della comunità cristiana, è un’opera di bene. E questo vale per ogni stato. Per questo la Chiesa prega per lo stato e per le persone che lo rappresentano. Questa intercessione della comunità cristiana per il bene comune politico e i suoi rappresentanti è la costante più affidabile nel rapporto della Chiesa con lo stato. Per lo stato, in questo mondo, non vi è nulla di più affidabile che l’intercessione dei cristiani per esso e i suoi rappresentanti.

            Ma la comunità cristiana conosce lo stato anche in una forma demoniaca, in quanto bestia blasfema che vuole essere adorata (cf. Ap 13). E poiché la Chiesa conosce lo stato sia come opera buona di Dio sia nella sua depravazione a bestia blasfema, si pone inaggirabile la domanda sullo stato giusto. La Chiesa deve discernere fra lo stato voluto da Dio e lo stato abusato dagli uomini. Essa, però, non deve discernere unicamente fra lo stato giusto e lo stato che si perverte, ma anche tra lo stato relativamente migliore e quello relativamente peggiore. Alla luce dell’Evangelo, quando ne va del bene comune politico, non tutti i gatti sono bigi. E così dobbiamo interrogarci su quale rilevanza abbia la necessità di un simile discernimento all’interno della società pluralistica non solo tra stato giusto e stato che si perverte da se stesso, ma anche fra stato migliore e stato peggiore. Qui ci interessa prima di tutto la questione del rapporto della Chiesa nei confronti della democrazia.

            «Che in una democrazia si possa sprofondare all’inferno o che sotto una oclocrazia o una dittatura si possa divenire santi, è del tutto vero. Ma non è vero che come cristiano si possa tendere, volere e acconsentire con altrettanta serietà a una oclocrazia o una dittatura come alla democrazia». Con queste parole, Karl Barth nel 1938 si era opposto al «luogo comune della stessa affinità e non affinità di tutte le possibili forme dello stato davanti all’Evangelo»: «Un luogo comune [...] non solamente oramai logoro, ma semplicemente falso».31 La Chiesa è stata per secoli scettica e ha diffidato estremamente della democrazia. In merito non c’è alcuna attenuante. Ma anche qui vale la considerazione che «dopo» si diventa più perspicaci. E così ci domandiamo oggi, con una consapevolezza molto più acuta della problematica, se la comunità cristiana non abbia una particolare affinità alla democrazia esattamente sulla base della propria costituzione e della propria autocomprensione.

            La democrazia presuppone l’uguaglianza di tutti i suoi cittadini. «Vista dal punto di vista del diritto internazionale, la sovranità può anche risiedere presso lo stato, ma a livello di legittimazione essa pertiene al popolo. A questo potere di legittimazione degli aventi diritto si lega la loro uguaglianza».32 Dell’uguaglianza di tutti gli uomini è, però, profondamente persuasa anche la fede cristiana. Davanti a Dio non vale alcun privilegio particolare per una singola persona (cf. Dt 10,17; At 10,34; Rm 2,11; Ef 6,9; 1Pt 1,17; 1 Sam 16,7).

            Due aspetti chiedono qui di essere rimarcati. Da un lato, l’uguaglianza di tutti gli uomini è posta sotto un segno negativo: essi sono tutti peccatori (Rm 3,9.23; cf. Sal 14,1-3). L’altro aspetto è positivo: nella comunità cristiana vale il principio del sacerdozio di tutti i fedeli. C’è sì un ministero costituito da Dio e persone particolari che assumono questo ministero. Però il ministero non ha la funzione di colmare una mancanza presente nei cosiddetti laici. Il ministero ecclesiale ha invece la funzione di orientare ordinatamente quella ricchezza data con il sacerdozio di tutti i fedeli. Per questo ci sono pastori ordinati e anche vescovi consacrati. E per questo può esserci, qualora ci si intenda e si trovi un accordo sul ministero, addirittura un papa anche secondo la visione e concezione evangelica. Ma lo stato clericale, però, non deve problematizzare il sacerdozio universale di tutti i fedeli. Chierici e non chierici costituiscono insieme il popolo di Dio (laos). Per questo tutti i cristiani sono laici e tutti i laici sacerdoti.

            Entrambi questi aspetti, quello positivo e quello negativo, che fanno chiaramente riconoscere che sotto il punto di vista dell’uguaglianza la Chiesa cristiana è apparentata alla democrazia e questa alla Chiesa: vi è qui un’evidente e non raggirabile affinità del cristianesimo alla democrazia.

            Però anche sotto il presupposto dell’uguaglianza di tutti i cittadini – secondo la quale nell’«origine legittimatoria» del dominio politico, «ma francamente solo in essa [...] governanti e sottoposti [sono] identici» –,33 mediante la separazione dei poteri in democrazia il diritto viene tutelato dal rischio che decisioni di maggioranza degli uguali facciano violenza al diritto stesso. «In maniera particolare per quanto concerne la giurisdizione lo stato costituzionale democratico non consente alcun intervento intromissorio del popolo».34 In un senso comparabile a questo, nella Chiesa cristiana il mandato apostolico è sottratto a qualsivoglia decisione della maggioranza. L’Evangelo non ammette votazioni. Inoltre, la Chiesa «al suo interno, sa della diversità dei doni e dei compiti dell’unico Spirito Santo» e, per questo, «sarà vigile e aperta nel campo politico rispetto alla necessità di separare le diverse funzioni e “poteri” – quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario – in modo tale che coloro che assumono uno di essi non possano essere al tempo stesso investiti degli altri. Nessun uomo è un Dio, che sia in grado di riunificare nella propria persona le funzioni del legislatore e del governante, quelle del governante e del giudice senza mettere in pericolo la sovranità del diritto che deve essere rispettato in ciascuna di esse. Anche il “popolo” non è un tale Dio». Nella Chiesa, come nello stato, «è così, devono essere provveduti nel popolo (mediante il popolo e per il popolo) diversi ministeri che devono essere ricoperti anche da diverse persone, la cui unificazione in un’unica mano umana non sosterrebbe affatto l’unità dell’opera comune, bensì la distruggerebbe».35

            Un ulteriore punto di vista in merito al rapporto tra cristianesimo e democrazia è l’obbligazione, sia dello stato democratico sia anche della Chiesa cristiana, alla dimensione pubblica. Nella democrazia l’aspetto pubblico è «l’organo del controllo politico del potere esecutivo, legislativo, e giudiziario da parte di un pubblico critico e della sua rappresentanza parlamentare».36 La Chiesa cristiana è a sua volta una res publica. Ogni celebrazione è un evento pubblico. La verità dell’Evangelo richiede imperiosamente la dimensione pubblica. Per questo il cristianesimo non potrebbe diventare una religione misterica. Il suo mistero è un «mistero notoriamente pubblico» (Goethe).

            La fede cristiana tuttavia non conosce solo la dimensione pubblica coram mundo, in cui ci si incontra l’un l’altro nella prospettiva di osservatore. I cristiani si sanno chiamati a rendere ragione anche coram Deo. E davanti a Dio nessun io può permanere nella prospettiva di osservatore. Davanti a Dio «non c’è nessun osservatore, ma solo persone partecipi».37 E mentre l’uomo nella dimensione pubblica mondana si presenta davanti a molti ed estremamente diversi forum, Dio è un unico forum che non ne ha accanto altri. Ne consegue che l’uomo, che vive davanti a molti forum mondani, coram mundo si presenta sulla scena solo in modo parziale, mentre coram Deo egli si presenta come uomo intero e totale – come totus homo.

            Però questa dimensione pubblica coram Deo si vuole articolare coram mundo. La dimensione pubblica coram Deo, costituita mediante la prospettiva della partecipazione, che giunge a rappresentazione nella Chiesa, si vuole rendere sensibile e percettibile nella dimensione pubblica coram mundo costituita mediante la prospettiva dell’osservatore. Tenendo presenti qui tutte le differenze che devono essere poste tra dimensione pubblica ecclesiale e dimensione pubblica politica, in ogni caso deve essere tenuto per fermo il fatto che il cristianesimo ha una genuina affinità con la democrazia in quanto in entrambi nulla può procedere nel segreto. Il cristianesimo tende, alla sua maniera, verso la dimensione pubblica. E la democrazia tende, alla sua maniera, verso la dimensione pubblica.

            Questi rimandi potrebbero essere sufficienti per rendere chiaro in quale grande misura il cristianesimo abbia una particolare affinità con la democrazia. Secondo l’intelletto e la visione umana la democrazia potrebbe giungere alla massima approssimazione dell’ideale cristiano dello stato giusto.

            La Chiesa non cesserà, anche all’interno della società pluralistica, di interrogare la forma statale dello stato in cui essa esiste, sul fatto se quella forma sia, secondo il giudizio della fede, una migliore o peggiore forma statale; se essa sia, e in che misura lo sia, in linea di principio e concretamente, migliorabile o non migliorabile; e se, per questo – poiché lo stato non migliorabile minaccia di cadere fuori dalla categoria stessa di stato –, essa non debba essere sostituita da un’altra forma di stato.

            La critica che uno stato che manca ai suoi compiti si attira su di sé è, tuttavia, sempre una critica che torna a favore dello stato. Essa non rappresenta alcuna alternativa al rispetto che è dovuto allo stato e ai suoi rappresentanti, ma con tale critica esercitata in determinati momenti la Chiesa rispetta lo stato quale ordinamento grazioso di Dio. E così dovrebbe essere il sentire dei rappresentanti stessi dello stato: che la critica allo stato da parte della Chiesa non è altro che l’espressione più affinata e precisa del rispetto con cui essa impegna lo stato a essere un’opera buona di Dio a favore dell’uomo.

            Io aggiungo che la Chiesa, nella società pluralista, dovrà rispettare i cittadini quali soggetti immediatamente responsabili per lo stato e, dunque, dovrà rispettare i cristiani quali cittadini maturi e maggiorenni. Certo, essa partirà dal fatto che il singolo individuo anche in quanto cittadino non cessa di essere un cristiano e quindi di decidere cristianamente e di agire cristianamente. Ma l’agire politico dei cristiani si può realizzare in un ampio spettro di possibilità politiche, così che i singoli cristiani in quanto cittadini possono giungere a decisioni tra loro molto differenti. La Chiesa deve acconsentire a ciò. Essa deve, pertanto, approvare i differenti giudizi politici e le differenti azioni politiche dei cristiani.

            E ora, alla fine, mi sia permessa ancora un’osservazione sul rapporto delle Chiese cristiane con l’Unione Europea. Che gli stati democratici all’interno di una società pluralistica siano vincolati all’istituzionalizzazione della loro collaborazione, è già stato detto. La domanda che mi porto dentro alla fine di questa mia relazione è se, e in quale maniera, la collaborazione istituzionalizzata degli stati dell’Europa debba prendere in considerazione il passato di un’Europa che allora era cristiana. Appartiene all’identità dell’Europa38 il fatto che essa venga costruita attraverso una partecipazione del cristianesimo al processo di decisione che la configura?

            All’identità dell’Europa del passato senza dubbio alcuno. Ciò che noi chiamiamo Europa è stato primariamente «prodotto» mediante il cristianesimo.39 Questo lo si può affermare senza misconoscere il fatto che l’antico umanesimo e il diritto romano hanno anch’essi contribuito a configurare profondamente l’Europa. Dal punto di vista antropologico è però incontestabile che solo la dignità dell’uomo fondata nel definitivo riconoscimento della persona umana da parte di Dio ha dato all’Europa un conio cristiano; un conio cristiano che – bisogna onestamente e francamente riconoscere – è emerso chiaramente solo nella sua forma secolarizzata. Ma se la persona umana e la sua dignità sono costituite mediante un atto divino di riconoscimento, e se la memoria a questo dato contenutistico antropologico fondamentale appartiene all’eredità dell’Europa, allora apparterrà anche all’Europa del futuro l’«accordo su una cultura del riconoscimento», che si fonda sul rispetto «della dignità inviolabile della persona umana».40 Una tale cultura del riconoscimento vieta di trattare un io come un esso impersonale e, con ciò, di livellare la differenza categoriale tra qualcuno e qualcosa.

            Insieme all’inviolabilità della dignità umana è strettamente connesso, e dipendente, il fatto che l’uomo non deve essere responsabile del suo essere come persona, ma deve essere responsabile delle sue azioni. Il forum davanti al quale egli deve rendere responsabilmente ragione delle sue azioni è la coscienza [morale], che è inviolabile esattamente allo stesso modo in cui lo è la dignità dell’uomo. Poiché nella coscienza io mi rendo responsabile di me davanti a me stesso come se io stessi davanti a Dio (I. Kant). Per questo appartiene all’irrinunciabile eredità cristiana dell’Europa (che in questo caso è strettamente congiunta con la filosofia stoica) che la libertà di coscienza sia garantita a livello fondamentale del diritto. Solo allora l’Europa si ritroverà assicurata rispetto al pericolo di degenerare a una mera comunità amministrativa – anziché affermarsi come comunità della responsabilità. L’analogo politico della coscienza è il Parlamento, davanti al quale coloro che sono politicamente responsabili – governo e opposizione – debbono responsabilmente rendere ragione. Per questo motivo è un «cattivo segno» per l’Europa dell’ora presente che i politici del nostro tempo si spieghino e rendano ragione del proprio agire politico più spesso nei talkshows televisivi che davanti al Parlamento.

            La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che può ben valere quale accertamento consapevole e promulgazione dell’identità dell’Unione Europea, si fonda «sui valori indivisibili e universali della dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà». Questa è senza ombra di dubbio una memoria dell’«eredità cristiana» dell’Europa. Eppure nello stesso preambolo della Carta non si è evidentemente osato chiamare per nome in maniera chiara e palese questa eredità. Solo nella versione tedesca si parla di un eredità «spirituale-religiosa» dell’«Unione europea», mentre nelle versioni delle altre lingue ufficiali manca il rimando alla religiosità. Dietro a ciò vi c’è chiaramente una controversia che il Presidium della Convenzione per il futuro dell’Europa ha inteso risolvere con un «aggiustamento ad arte della traduzione».41 E questo è un fatto da biasimare. Epperò la cosiddetta «eredità cristiana» dell’Europa continua a vivere in maniera vitale da tempo in forma secolarizzata. E le Chiese cristiane continua pure a vivere della forza dello Spirito Santo. Per evitare l’impressione di dare alle istituzioni cristiane lo stesso peso della tutela dello stato patrimoniale, è bene non provocare qui alcuna controversia in materia. Ben più importante è il fatto che la positiva libertà di religione nell’Unione Europea non venga limitata esclusivamente a una libertà di religione individuale, bensì che venga riconosciuta anche come libertà di religione corporativa e collettiva. Infatti, la fede cristiana sa del singolo io e del suo credo unicamente come di un io unito alla comunione dei credenti (communio sanctorum), e un io che si accorda insieme al loro credimus. Il diritto a una positiva libertà di religione deve tenere conto di questa struttura-di-communio che è essenziale per il cristianesimo.

            Ancora più importante è se l’Europa del futuro – come sostenuto da Jacques Delors – avrà un’anima. Secondo C.F. Weizsacker la pace è il corpo di una verità. E pace è possibile solo «fintanto che la verità che la sostiene è in grado di tenere».42 Se le cose stanno effettivamente così, allora l’anima dell’Europa sarebbe una verità. Si tratta della verità proclamata dell’Evangelo dalle Chiese cristiane – e francamente troppo spesso non seguita -, quella verità che secondo Gv 8,32 rende liberi? E la verità soteriologica ha anche una forma mondana, politica? Allora ogni legiferazione europea dovrebbe essere pensata in ordine a un aumento di libertà: tuttavia essa dovrebbe essere orientata a un tale aumento della libertà che non cessa di essere, anche nella sua forma più alta, libertà umana.

            E questo mi permette, al termine di questo contributo, di passare alla questione, se una Costituzione europea o una corrispondente Carta dei diritti fondamentali nel loro preambolo debba o possa richiamarsi al nome di Dio. In questa prospettiva io sono dichiaratamente favorevole per il rimando a «Dio», così come esso è presente nel preambolo della Legge fondamentale della Repubblica federale di Germania, nella Costituzione svizzera e in quelle della Grecia e della Repubblica d’Irlanda. Se uno stato si intende in modo tale che la sua Costituzione comprenda la responsabilità davanti a Dio, allora è definitivamente esclusa la possibilità che dimensioni ideologicizzate – come la classe o la razza – vengano dichiarate come le più alte istanze di responsabilità. Che la parola «Dio» possa pur venir letta anche come una posizione vuota – e quantomeno un ateo leggerà così la parola –. Ma in tal modo rimarrà in ogni caso una memoria del fatto che all’uomo è interdetto di porre da sé un «valore supremo». La parola «Dio» rimanda l’uomo, anche qualora essa venga letta come una posizione vuota, ai suoi limiti. Essa impedisce all’uomo di divinizzare i suoi ideali. E nel mondo politico, all’uomo non può capitare nulla di meglio del fatto che gli divenga chiaro che egli non è alcun Dio. Poiché allora, e solo allora, egli può essere un uomo umano, un homo humanus. Allora, e solo allora, il suo agire può divenire umano. Quindi: «Noi dobbiamo essere uomini e non Dio – questa è la summa».43 

Eberhard Jüngel

 NOTE

       1 «Due spade» le troviamo già nella Sacra Scrittura. Nel Vangelo di Luca, tra l’annuncio del triplice rinnegamento del Signore da parte di Pietro e la pericope del Getsemani, s’inserisce uno sguardo verso quella che sarà la situazione di distretta per i discepoli dopo la morte di Gesù. Se finora non dovevano preoccuparsi delle condizioni materiali della loro esistenza, ora i discepoli vengono rimandati da Gesù al fatto che essi, nel tempo della persecuzione che sta per giungere – qui è inteso «il tempo della Chiesa, come spiega Luca negli Atti degli apostoli» (W. Grundmann, Das Evangelium nach Lukas. Theologischer Handkommentar zum Neuen Testament, Vol. III, 91981, 409), dovranno provvedere da sé a quanto di più necessario. E per sottolineare la serietà della situazione, Gesù ingiunge loro di avere sempre con sé una spada. I discepoli, però, fanno cenno che essi già ora hanno non solo una spada, bensì due. Gesù interrompe la scena in maniera un po’ brusca dicendo: «Basta!» (cf. Lc 22,35-38).

      2 Il controcanto alla teoria medioevale delle due spade è rappresentato dalla forma elaborata in Inghilterra dai giuristi di corte dell’epoca elisabettiana dei due corpi del re, che accredita al monarca non solo un corpo naturale e mortale, bensì anche un corpo soprannaturale comparabile a quello degli angeli che non muore mai: il re, e non il papa, appare ora come il rappresentante di Cristo sulla terra. Come Cristo è persona in due nature (la natura umana e quella divina), così la persone regale esiste con due corpi (un corpo mortale e uno immortale). Anche questa teoria ha radici molto più antiche (esse sono state illustrate da E.H. Kantorowicz, The King’s Two Bodies. A Study in Medieval Political Theology, 1957; trad. it. I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medevale, Torino 1989). La si può identificare anche nella simbologia dell’antica corona dell’impero custodita a Vienna.

      3 Martin Lutero, «Ob Kriegsleute auch in seligem Stande sein können», 1526; WA 19, 629.

      4 «Senza ricorrere alla forza, ma unicamente con la parola»: Confessione di Augusta, art. 28; in R. Fabbri (a cura di), Confessioni di fede delle Chiese cristiane, EDB, Bologna 1996, n. 109.

      5 «Non deve dettare legge ai magistrati sulla forma di organizzazione dello stato»; in Fabbri (a cura di), Confessioni di fede delle Chiese cristiane, n. 108.

      6 Martin Lutero, «Predigt vom 4. Mai 1522»: WA 10/III, 122.

      7 Dichiarazione teologica di Barmen, 1934; in Fabbri (a cura di), Confessioni di fede delle Chiese cristiane, n. 2173.

      8 Cf. K. Barth, Christengemeinde und Bürgergemeinde, Kaiser, München 1946, 4 (ristampato in Id., Rechtfertigung und Recht, 1998, 47-80 qui 48).

      9 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 561, in Id., Gesammelte Schriften (=Akademie Ausgabe), Vol. III, 1911, 363; trad. it. Critica della ragion pura, Bari 1924.

      10 I. Kant, Gesammelte Schriften, Vol. VII, 1917, 130; trad. it. Antropologia pragmatica, Bari 21969.

      11 «L’egoista logico ritiene inutile di verificare il suo giudizio rispetto all’intelletto di altri, come se egli non avesse alcun bisogno di questa pietra di paragone (criterium veritatis externum)». «L’egoista estetico è colui a cui basta già il proprio gusto». L’«egoista morale» da ultimo delimita «tutti gli scopi a se stesso» e vede «l’utilità» solamente «in ciò che serve a lui» e nella «propria felicità» (Kant, Gesammelte Schriften, 128-130).

      12 I. Kant, Gesammelte Schriften, 130.

       13 W. Kerber, «Pluralismus», in Historisches Wörterbuch der Philosophie, VII, 988-993, qui 990.

      14 C. Schmitt, Der Begriff des Politischen. Text von 1932 mit einem Vorwort und drei Corollarien, Berlin 1987, 44s.

      15 Cf. G. Klaus, M. Buhr (a cura di), Philosophische Wörterbuch, Leipzig 121976, 940.

      16 O. von Nell-Breuning, «Unitarismus und Pluralismus», in Id. (a cura di), Gesellschaftliche Ordnungssysteme, Herder, Freiburg 1951, 449-450, 459-460, 449s.

      17 Cf. I.U. Dalferth, «Das Wort von Kreuz in der offenen Gesellschaft», in Id., Gedeutete Gegenwart. Zur Wahrnehmung Gottes in der Erfahrungen der Zeit, Mohr Siebeck, Tübingen 1997, 57-85, 69ss.

      18 Cf. E. Herms, «Auf dem Weg in die offene Gesellschaft», in Id., Erfahrbare Kirche. Beiträge zur Ekklesiologie, Tübingen 1990, 239-249, 240s.

      19 Cf. Dalferth, «Das Wort von Kreuz», 73s.

      20 E. Lévinas, «Die Transzendenz und das Übel», in Id., Wenn Gott ins Denken einfällt. Diskurse über die Betroffenheit von Transzendenz, Freiburg i.Br. 1985, 172-194 qui 192 (cf. in particolare 192-194); trad. it. Di Dio che viene all’idea, Milano 1983. Cf. Id., «Vom Einen zum Anderen», ivi, 229-265 (in particolare 257).

      21 La itio in partes e l’amicabilis compositio furono codificate nella pace di Westfalia (Instrumentum pacis Caesareo-Suecicum Osnabrugense 1648) per le adunanze della dieta imperiale: «In causis religionis omnibusque aliis negotiis, ubi status tamquam unum corpus considerari nequeunt, ut etiam catholicis et Augustanae confessionis statibus in duas partes euntibus, sola amicabilis compositio lites dirimat, non attenta votorum pluralitate» - da C. Mirbt, Quellen zur Geschichte des Papstum und des römischen Katholizismus, Tübingen 41924, 378 («In fatti di religione, e in tutti gli altri affari dello stato, nei quali le parti non possono essere considerati come un corpo unico, come quando i cattolici e i membri della Confessione di Augusta si scompongono in due parti, si deve dirimere la contesa unicamente attraverso una composizione amicale senza ricorrere alla maggior parte [intesa come maggioranza] dei voti»).

      22 Dichiarazione teologica di Barmen, n. 5; in Fabbri (a cura di), Confessioni di fede delle Chiese cristiane, n. 2173.

      23 Cf. E. Herms, «Religion und Organisation. Die gesellschaftliche Funktion von Kirche aus der Sicht der evangelischen Kirche», in Id., Erfahrbare Kirche, 49-79 (in particolare si veda 56-62).

      24 F. Schleiermacher, Der christliche Glaube, Vol. I, § 6.2, 71960, 45 (a cura di M. Redeker).

      25 Confessione di Augusta, art. 28; in R. Fabbri (a cura di), Confessioni di fede delle Chiese cristiane, EDB, Bologna 1996, n. 106ss.

      26 Die Kirche und die internationale Unordnung, Genf 1948, 271ss.

      27 Cf. A. Schavan, «Pluralismus», in Staatslexikon, IV, Freiburg 71988, 430.

      28 Dichiarazione teologica di Barmen, n. 6; in Fabbri (a cura di), Confessioni di fede delle Chiese cristiane, n. 2174.

      29 Cf. E. Troeltsch, Richard Rothe. Gedächtnisrede, 1899, 39.  

      30 Sulla questione si veda O. Höffe, Demokratie im zeitalter der Globalisierung, München 1999, 282ss.

      31 Barth, Rechtfertigung und Recht, 1938, 43 nota 30b (ristampato in K. Barth, Rechtfertigung und Recht. Christengemeinde und Bürgergemeinde, 1998, 5-45, qui 41 nota 30b).

      32 Höffe, Demokratie, 107.

      33 Ivi.

      34 Ivi, 114.

      35 Barth, Christengemeinde und Bürgergemeinde, 29s (nella ristampa 68s).

      36 Dalferth, «Vor Gott gibt es keine Beobachter. Öffentlichkeit, Universität und Theologie», in Id., Gedeutete Gegenwart, 36-56 qui 40. Attraverso la modificazione delle strutture sociali e il cambio della funzione politica, il principio del fattore critico del pubblico, che organizza le procedure degli organi statali (parlamento e tribunali), è divenuto una sempre più ampia sfera della dimensione pubblica che penetra tutta la società. Questa dimensione pubblica, proprio in virtù della sua potenziale onnipresenza, minaccia di finire col perdere la sua forza critica e con ciò la sua funzione politica. La dimensione pubblica viene di per sé stessa intesa in modo tale che si giunge a un processo che si potrebbe contrassegnare come un abbandonarsi alla schiavitù della dimensione pubblica. «Nulla, neanche di quanto più intimo vi sia, è sottratto alla presa della dimensione pubblica (…) Solo a colui che s’impone a essa viene accordato un significato che va preso seriamente (…) Non vi è (quasi) nulla che non potrebbe essere portato nello spazio della dimensione pubblica in nome di essa stessa» (Dalferth, «Vor Gott», 36). L’introduzione di un potere manipolativo dei media contribuisce a precostituire e dominare la dimensione pubblica, così che la sua innocenza viene sottratta al principio del fattore critico del pubblico (cf. J. Habermas, Strukturwandel der Öffentlichkeit. Untersuchungen zu einer Kategorie der bürgerlichen Gesellschaft. Mit einer Vorwort zur Neuauflage, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1993, 28; trad. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari 82001).

      37 Dalferth, «Vor Gott», 56.  

      38 Cf. W. Graf Vitzthum, «Die Identität Europas», in Europarecht 37 (2002) 1, 1-16.

      39 Cf. O. Kimmrich, «Europa als (geistige) geschichtliche Erscheinung», in Essener Gespräche zum Thema Staat und Kirche, 1993, 31.

      40 Cf. W. Huber, «Europa als Wertegemeinschaft. Seine christlichen Grundlagen gestern, heute, morgen», in M. Münkler, M. Lanque, C.K. Stepina, Der demokratische Nationalstaat in den Zeiten der Globalisierung. Politische Leitideen für das 21. Jahrhundert. Festschrift zum 80. Geburtstag von I. Ftescher, 2002.

      41 Cf. Graf Vitzthum, «Die Identität Europas», 8s (anche la nota 22).

      42 C.F. Weizsacker, Der Garten des Menschlichen. Beiträge zur geschichtlichen Anthropologie, München 61978, 40s.

      43 Martin Lutero, «Brief an Spalatin»: WA 5, 415, 45.  

___________________________
[Fonte: Incontri di Camaldoli 2002]

prima1.gif (1064 byte)- Home