“Il primo annuncio. Dove siamo? A cosa
tendiamo?”Quali modi e linguaggio usare verso gli uomini e le donne in ricerca? Il
dovere e la bellezza di testimoniare Gesù nella società di oggi al centro di
una due giorni di riflessione e confronto
Si è tenuto a Roma il 15 e 16 gennaio un seminario sul primo
annuncio aperto con la presentazione di S.E. Mons. Bruno Forte,
Arcivescovo di Chieti-Vasto e Presidente della Commissione episcopale per la
dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi, e con l’intervento
introduttivo su “Il primo annuncio. Dove siamo? A cosa tendiamo?” di Mons.
Walter Ruspi, Direttore dell’Ufficio catechistico nazionale della Cei.
Tra gli obiettivi del seminario:
- “aiutare a
prendere atto del cambiamento della situazione sociale, culturale ed
ecclesiale, favorendo e orientando un passaggio graduale, ma coraggioso
rispetto a una presupposta situazione cristiana tramontata” e
- “ orientare
verso percorsi di primo annuncio, in tutti gli ambiti della catechesi e della
pastorale ecclesiale”.
Tra gli intervenuti Luigi Accattoli,
vaticanisti del Corriere della Sera; il prof. Adriano Fabris, ordinario di
Filosofia morale all’Università di Pisa; don Cesare Bissoli, coordinatore del
Settore apostolato biblico dell’Ufficio catechistico della Cei; S.E. Mons.
Marcello Semeraro, Vescovo di Albano Laziale; don Luca Bressan, docente di
teologia pastorale; S.E. Mons. Lorenzo Chiarinelli, Vescovo di Viterbo.
Le «nuove» domande dei cercatori di Dio
L'arcivescovo Forte, intervistato da Avvenire:
"dobbiamo dare ragione
della nostra speranza"
Da duemila anni in qua è sempre tempo di «primo annuncio». Ma oggi questa
forma di proposta della fede cristiana sta assumendo forme ed esigenze nuove
in relazione anche all'evoluzione della società. «Non aumenta solo la
secolarizzazione - fa notare monsignor Bruno Forte - Crescono di numero pure i
"cercatori di Dio". E nei loro confronti dobbiamo essere in grado di rendere
ragione della speranza che è in noi». L'arcivescovo di Chieti-Vasto ha aperto
ieri il seminario di studio sull'argomento, organizzato a Roma dalla
Commissione episcopale per la dottrina della fede e la catechesi, di cui è
presidente.
Eccellenza, che cos'è propriamente il primo annuncio?
«È il kerigma di cui parla il Nuovo Testamento, cioè l'annuncio centrale
della fede cristiana: Gesù morto e risorto è l'unico salvatore dell'uomo.
Accanto al termine kerigma c'è però nel Nuovo Testamento anche la parola
catechesi. Ora, la distinzione tra questi due termini è importante, perché la
catechesi costituisce l'approfondimento del kerigma. E non si può fare a meno
né dell'uno né dell'altra».
Non è strano, in una nazione di antica evangelizzazione come l'Italia,
tornare a parlare di primo annuncio?
«In effetti, nel corso dei secoli la distinzione tra kerigma e catechesi,
nelle situazioni di cristianità come quella italiana, si è oscurata. L'accento
andava soprattutto sulla catechesi. Oggi, invece, ci accorgiamo che la
catechesi, pur indispensabile per tutte le fasce di età, se non è appoggiata
sul primo annuncio, rischia di essere come un edificio senza fondamento».
E questo a motivo delle mutate condizioni socio-religiose del Paese?
«Di certo nella società italiana post moderna, in un contesto segnato
dalla secolarizzazione, ma anche da un ritorno di Dio, abbiamo avvertito il
bisogno di riflettere su come proporre il primo annuncio della fede a quanti
si pongono la domanda di cercare Dio. E anche a chi non se la po ne, nel
tentativo di suscitare innanzitutto questa stessa domanda».
Chi sono, sotto il profilo sociologico quelli che lei definisce "cercatori
di Dio"?
«Ogni uomo o donna che coltivi il desiderio di conoscere il Dio cristiano,
o che abbia comunque una nostalgia dell'assoluto e dell'eterno e che si ponga
seriamente le domande ultime sul senso della vita. Sotto questa qualifica
possiamo incontrare una grande varietà di persone: giovani e adulti, operai e
studenti, professionisti o addetti ai servizi più diversi nella società,
immigrati. In altre parole non c'è un unico destinatario, così come non c'è un
unico punto di partenza. Possiamo trovarci di fronte a persone che vogliano
approfondire la fede ricevuta quando erano bambini o non credenti o anche
appartenenti ad altre religioni».
A chi tocca, dunque, farsi promotore del primo annuncio?
«Ogni battezzato è chiamato ad essere testimone e quindi anche soggetto
del primo annuncio agli altri. Si suole dire che un tempo erano i genitori a
trasmettere il primo annuncio ai figli, ma questo è solo relativamente vero.
Spesso ci si apriva alla fede per incontri che esulavano dalla famiglia.
Insomma le possibilità di fare il primo annuncio sono tante e diverse,
soprattutto in una società complessa come la nostra. Ecco perché dovrebbe
sentirsi responsabile del primo annuncio chiunque abbia avuto il dono di
incontrare Gesù e sia pronto a rendere ragione della speranza che questo
incontro ha acceso nel suo cuore, come ci ricorda il testo della prima Lettera
di Pietro che ha fatto da leit motiv al Convegno di Verona».
E le modalità?
«Proprio a motivo della varietà dei destinatari è particolarmente
difficile definire una modalità unica per il primo annuncio. C'è ovviamente un
contenuto centrale (la risurrezione di Gesù, la fede nel Dio Trinità-Amore),
c'è un linguaggio da utilizzare (il più comprensibile per tutti), c'è
un'esperienza da proporre (il "venite e vedete" che risuona gi à sulla bocca
di Gesù e che costituisce la condizione di ogni proposta di esperienza
cristiana nel tempo), ma c'è naturalmente anche la complessità di destinatari,
linguaggi, situazioni quanto mai diversi e variegati».
Il seminario dirà qualcosa da questo punto di vista?
«Lo scopo è quello di vedere se sia possibile elaborare uno strumento che
possa servire per il primo annuncio. Una sorta di "lettera ai cercatori di
Dio". Naturalmente non è scontato che questo sia possibile o utile. Ma porsi
il problema è quanto mai importante per chi come i vescovi, i sacerdoti, gli
operatori pastorali son impegnati sul campo».
Fabris , la "Questione del senso" antidoto a
"indifferenza"
In un’epoca in cui “si intrecciano, paradossalmente, un’indifferenza nei
confronti delle problematiche religiose e una declinazione fondamentalistica
della fede”, la “questione del senso” può risultare decisiva per recuperare
quegli elementi di “cattolicesimo diffuso” presenti ancora, nonostante tutto,
nello scenario italiano. Lo ha detto Adriano Fabris, docente di etica della
comunicazione all’Università di Pisa, intervenendo oggi al seminario sul
“primo annuncio”, promosso a Roma dalla Commissione Cei per la dottrina della
fede, l’annuncio e la catechesi. “L’annuncio cristiano si può definire come
tale e può presentarsi in maniera coinvolgente anzitutto come annuncio di
senso per l’uomo”, ha affermato il relatore, evidenziando come nonostante “il
nichilismo di chi ritiene di avere ormai preso congedo da Dio” e “il
fondamentalismo di chi concepisce Dio come un’entità lontana, a cui si deve
soltanto ubbidire”, sono “presenti e riconosciuti” nella nostra cultura
“elementi religiosi” di matrice cattolica. Due, però, i rischi da evitare:
trasformare l’identità cristiana nell’”espressione di una parte”, riducendo le
parrocchie a piccole “oasi di senso” autoreferenziali e “poco incisive nel
tessuto sociale”, e favorire “un uso strumentale, ideologico” del
cristianesimo.
Mons. Semeraro (Albano) Serve un "Esame di
coscienza" sullo "stallo della pastorale
Il “primo annuncio” viene percepito “ancora in maniera teorica, non come
compito imminente o incombente, tale da provocare una vera conversione
pastorale”. A parlare è mons. Marcello Semeraro, vescovo di Albano Laziale e
membro della Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e
la catechesi, intervenuto oggi a Roma al seminario organizzato dalla Cei su
questo tema. Il presule ha chiesto “un esame di coscienza”, a partire dai
vescovi per poi coinvolgere i sacerdoti e tutti coloro che a vario titolo sono
impegnati nella pastorale, che parta dal chiedersi “cos’è che non funziona”
nella “situazione attuale di stallo” del primo annuncio e si traduca poi nel
“coraggio di guardare in chiave missionaria alla nostra realtà parrocchiale”.
“Non possiamo accontentarci del numero dei nostri battezzati”, ha osservato
Semeraro, mettendo in guardia dalla “sensazione di essere potenti perché
magari appariamo attraverso i media. Non siamo – ha aggiunto - quella
maggioranza potente di cui gli altri parlano, e anche il ‘peso politico’ della
Chiesa viene spesso enfatizzato o da noi ritenuto tale”. “Se non siamo più
maggioranza – ha concluso il vescovo – dobbiamo chiederci se siamo in grado di
diventare minoranza profetica nel Paese”.