«Rapporto sulla
Tradizione»
Domenico Savino su Effedieffe 22 febbraio 2008
«Rapporto sulla
Tradizione» è il titolo dell’ultima fatica di Alessandro Gnocchi e Mario
Palmaro,
per i tipi delle Edizioni Cantagalli.
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Immagine di inciviltà |
Un lavoro dal costo abbordabilissimo, di sole 92 pagine,
ma eccellente, da leggere tutto d’un fiato, in una sera sola, al posto
di uno qualsiasi degli sterili talk-show televisivi o degli
interminabili approfondimenti calcistici di campionato e Champion’s
league.
Si tratta di una bella intervista con monsignor Bernard Fellay, dal 1994
Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale San Pio X e successore
di monsignor Lefebvre.
Un lavoro importante, direi necessario, che fa chiarezza una volta per
tutte su quello che davvero è la Fraternità Sacerdotale San Pio X,
l’opera provvidenziale di monsignor Lefebvre, la sua eredità più
preziosa, il lascito offerto da questo eroico vescovo alla Chiesa, una
Chiesa che egli «amò sino alla fine», nonostante il «martirio bianco»
cui fu sottoposto: solo oggi, infatti, mentre la Sposa del Signore si
dibatte in mezzo ad una crisi senza precedenti, l’intuizione profetica
del «vescovo ribelle» appare in tutta la sua lungimiranza come quella di
chi riuscì in quella notte oscura degli anni del Concilio e del
post-Concilio a squarciare le tenebre, per mantenere nell’ora della
prova la retta direzione di marcia.
Leggendo infatti questo breve lavoro, appare chiaro (anche a chi oggi,
giovane, non ha vissuto l’esperienza tremenda di allora) che è lui,
monsignor Marcèl Lefebvre, il vero rinnovatore di quegli anni, colui che
capì, mentre la Lumen Gentium pure proclamava che l’Eucaristia era fonte
e culmine della vita cristiana, che solo il sacerdozio vero avrebbe
potuto mantenere incontaminata quella Fonte.
Mentre la Chiesa si affannava intorno all’importanza del ruolo dei laici
e alla rilevanza del ministero episcopale dell’episcopato, inteso però
oramai ereticamente in contrapposizione col ministero petrino, proprio
il vescovo Lefebvre in tragica solitudine rammentò che - come ricorda
monsignor Fellay nel libro di Gnocchi e Palmaro - «il cuore della
Chiesa, la pompa che porta la grazia a tutto il Corpo Mistico, è il
sacrificio del Calvario che si celebra nella Messa».
Ciò che egli intuì con terribile lucidità fu che se non si fosse salvato
il sacerdozio, la Chiesa - casomai fosse stato possibile - sarebbe stata
perduta e con essa smarrito per sempre il Dogma: la nascita della
Fraternità Sacerdotale San Pio X è tutta in questa incrollabile
concezione di Fede.
In una memorabile conferenza, tenuta nell’aprile del 1972
al ritiro della Asociaciòn de Sacerdotes y Religiosos de S. Antonio
Maria Claret di Barcellona, Lefebvre profetizzò: «La definizione del
sacerdozio data da San Paolo e dal Concilio di Trento è radicalmente
modificata: il sacerdote non è più colui che sale all’altare per offrire
a Dio un sacrificio di lode per la remissione dei peccati. La gerarchia
dei fini è stata invertita. Il sacerdozio ha un fine primario, quello di
offrire il sacerdozio ed un fine secondario, quello di evangelizzare.
L’evangelizzazione prevale ora sul sacrificio e sui sacramenti. E’ fine
a se stessa. Questo grave errore comporta conseguenze tragiche. Infatti
l’evangelizzazione, venendo meno il suo fine, sarà completamente
disorientata e cercherà motivi che piacciono al mondo, come la falsa
giustizia sociale e la falsa libertà, che assumono nuovi nomi: sviluppo,
progresso, edificazione del mondo».
In relazione a ciò che sarebbe successivamente accaduto, mai analisi fu
più lucida, mai profezia più veritiera.
La prima straordinaria sorpresa del libro di Gnocchi e Palmaro è questa:
altro che «reazionario»!
Il vescovo Lefebvre fu il vero rinnovatore di quella sciagurata stagione
ecclesiale, l’unico che davvero volle di nuovo la Chiesa fondata sul
Sacrificio di Cristo, dal cui Sangue essa fu ed è continuamente
generata.
Così mentre altri rincorrevano l’aggiornamento conciliare e il
rinnovamento ecclesiale, egli perseguì essenzialmente il rinnovamento
sacerdotale: o i sacerdoti tornavano ad essere davvero tali, o per la
Chiesa - casomai ciò fosse stato possibile e non lo è - sarebbe stata la
fine: «Allo scopo di corrompere la verità che ci è stata sempre
fedelmente trasmessa - aveva inutilmente ammonito - si ricorre a due
mezzi potenti: un nuovo Catechismo e la cosiddetta ricerca teologica
ammessa nell’insegnamento universitario. Così i fedeli e in particolare
la gioventù, non conosceranno più la verità del cattolicesimo: presto
sorgerà una generazione di chierici detentori di una scienza teologica e
filosofica totalmente falsa ed errata».
La custodia della Fede cattolica fino al punto di una «obbediente
ribellione» rendono paradossale la situazione di questi fratelli nella
Fede, che credono integralmente il dogma cattolico, amministrano e
praticano sacramenti validi, trasmettono la Fede tal quale i nostri
genitori l’hanno ricevuta, ma sono scomunicati, giudicati scismatici e
ribelli, mentre i sacerdoti pur celebrando Messe ed amministrando
sacramenti validi vengono giudicati illegittimi.
Si aggiunga che la scomunica latae sententiae, conseguente alla
consacrazione senza autorizzazione di quattro vescovi il 30 giugno 1988
[che non da tutti è ritenuta operante (1)],
fu - per ironia della sorte - la prima comminata dopo il Concilio
Vaticano II.
Il paradosso aumenta se la loro situazione viene
raffrontata con gruppi e movimenti ecclesiali i cui vescovi e sacerdoti
apertamente rinnegano il dogma, celebrano pseudo-messe, amministrano
simulacri di sacramenti, sono ribelli all’autorità ed alla Tradizione,
insegnano proposizioni ereticali, ma sono giudicati ministri legittimi,
pur trascinando nella loro perdizione anche i fedeli.
Anche questo, monsignor Lefebvre l’aveva predetto: «Va detto che il
colpo magistrale di Satana è stato di riuscire a far disubbedire, per
ubbidienza, a tutta la Tradizione».
Il libro-intervista di Gnocchi e Palmaro è decisamente interessante
perché non si limita, se non marginalmente alla rievocazione di quegli
eventi, ma analizza in concreto il percorso che potrebbe portare i
cosiddetti «lefebvriani» a ristabilire quella che con linguaggio della
diplomazia curiale viene chiamato il ristabilimento della «piena
comunione ecclesiale».
Già, perché, pur essendo scomunicati, essi non solo sono stati
esplicitamente menzionati dal Papa nel
Motu Proprio che
ha liberalizzato
la celebrazione della Santa Messa con il Vetus Ordo, ma si
scopre che molti sacerdoti diocesani e persino dei vescovi intrattengono
con loro rapporti, mentre essi tutto desiderano tranne che ritagliarsi
una fetta «di potere» all’interno della Chiesa.
Insomma leggendo il libro si scopre che i «lefebvriani» non sono un
problema da risolvere, una ciste da riassorbire o un male da curare: di
se stessi amano dire che non si considerano affatto - e con ragione! -
la causa della febbre della Chiesa, ma solo il termometro. Se la Chiesa
guarirà dai suoi mali, il termometro potrà essere riposto.
Al cardinale Castrillon Hoyos durante un colloquio del 2005, monsignor
Fellay disse: «Per favore dimenticatevi per un istante della Fraternità.
Pensate alla Chiesa, pensate al problema interno alla Chiesa e vedrete
che la Fraternità cesserà di essere un problema». Contrariamente a ciò
che si potrebbe ritenere, i «lefebvriani» sono molto realisti. Monsignor
Fallay riconosce che nel Concilio si è concentrata una serie tremenda di
problemi dottrinali che affliggevano il mondo cattolico, ma che una
ritrattazione aperta del Concilio genererebbe un colpo tremendo per
un’autorità ritenuta infallibile, come la Chiesa. Dunque, pur senza
accettare alcun errore dottrinale, la strada non può essere quella di
una critica aperta al Concilio, semmai di una esatta definizione dello
stesso, a partire da ciò che i padri conciliari per primi affermarono:
che cioè il Concilio non aveva valore dogmatico.
Le «strane idee» penetrate nella Chiesa dopo il Vaticano II - fa capire
monsignor Fellay - non minerebbero il dogma dell’infallibilità della
Chiesa stessa, non attenendo a quella sfera: essendosi trattato di un
puro concilio pastorale, se non di un «Conciliabolo», la Chiesa potrebbe
in questo ambito avere errato, senza contraddire se stessa. Dunque,
senza enfatizzarlo, per risolvere i problemi causati dal Concilio, si
tratta semplicemente di «superarlo».
Le ultime prese di posizione del Papa lasciano intendere
a mio avviso un percorso parzialmente coincidente.
Sfumare progressivamente l’enfasi intorno all’ «evento Concilio»,
riaffermare progressivamente le verità di Fede a partire dalla sfera
morale, che è quella maggiormente compromessa dai processi di
secolarizzazione, fare in modo che il corpo ecclesiale espella
gradualmente le tossine accumulate in questi anni, rivitalizzare la
dimensione sacrificale dell’Eucaristia, riaffermare il Dogma: si dice
che egli auspichi sinceramente il «rientro» dei «lefebvriani» e ciò
forse anche per ragioni simboliche: questo fatto renderebbe
inequivocabile, anche per il risalto mediatico che avrebbe, l’inversione
di tendenza dopo anni di deriva post-conciliare.
Pur nella disponibilità manifestata anche da parte «lefebvriana», il
percorso però è certamente in salita.
Monsignor Fellay nel corso dell’intervista non sembra intenzionato a
concedere nulla al compromesso. Il ripristino della «piena comunione»,
non è una trattativa umana, ma un’azione di Grazia: l’incontro non può
che avvenire sulla Verità, che è Cristo.
È un po’ il percorso del
Motu Proprio: per
anni i lefebvriani hanno sostenuto che la Messa tridentina non poteva
essere abolita.
Ora il Papa ha confermato che questo era vero.
Riguardo alla rimozione della scomunica il percorso, seppure più
problematico, potrebbe seguire lo stesso svolgimento.
Avendo la Fraternità già chiesto comunque la revoca del decreto di
scomunica, la Chiesa, riconosciuta l’ortodossia delle posizioni
dogmatiche degli appartenenti alla Fraternità, potrebbe accedere in
qualche modo e con qualche formula diplomatica all’idea che essi abbiano
disobbedito (nelle consacrazioni episcopali non autorizzate da Roma) per
stato di necessità.
Anche monsignor Fellay argutamente (e pur riconoscendo che si tratta
comunque di un argomento debole) richiama con una simpatica battuta la
consolidata prassi del dialogo, tanto cara alla Chiesa postconciliare:
«Dopo il Concilio, per facilitare il dialogo, Papa Paolo VI tolse la
scomunica agli ortodossi. Non penso che anche noi si debba prima
scomunicare il Vaticano e poi arrivare ad una reciproca rimozione delle
scomuniche».
In ogni caso, acclarato che eretici non sono, i seguaci
di monsignor Lefebvre, ci tengono a precisare di non essere neppure
scismatici.
Ma c’è di più.
Non sono neppure «lefebvriani».
Raccontano Gnocchi e Palmaro che don Marco Nely, secondo Assistente
Generale della Fraternità, a una signora che gli diceva di apprezzare le
sue argomentazioni, pur non essendo lefebvriana, rispose: «Neanch’io
sono ‘lefebvriano’, sono cattolico».
(1) Così recita il canone 1382 del
Codex Iuris Canonici: «Il vescovo che senza mandato pontificio
consacra qualcuno vescovo e chi da esso ricevette la consacrazione,
incorrono nella scomunica late sententiae riservata alla Sede
Apostolica».
È dubbio se davvero monsignor Lefebvre potesse essere scomunicato.
L’obiezione poggia sul nuovo Codex Iuris Canonici. Secondo il
precedente Diritto Canonico, se qualcuno compiva un atto illegale,
veniva considerato colpevole fino a prova contraria. Il nuovo Codice,
invece, prevede che se qualcuno commette un atto illegale che ritiene
soggettivamente necessario (combinato disposto del canone 1323, co. 1,
numero 4 e 7, e canone 1324, co. 1, numero 8), non necessariamente
incorre in una sanzione. Lefebvre sostenne sempre di aver ordinato i
vescovi in stato di necessità.
Canone 1323 - Non è passibile di alcuna pena chi, quando violò la legge
o il precetto:
(…omissis…)
4° agì costretto da timore grave, anche se solo relativamente tale, o
per necessità o per grave incomodo, a meno che tuttavia l’atto non fosse
intrinsecamente cattivo o tornasse a danno delle anime;
(…omissis…)
7° senza sua colpa credette esserci alcuna delle circostanze di cui ai
numeri 4 o 5.
Canone 1324 - § 1. L’autore della violazione non è esentato dalla pena
stabilita dalla legge o dal precetto, ma la pena deve essere mitigata o
sostituita con una penitenza, se il delitto fu commesso:
(…omissis…)
8° da chi per un errore, di cui sia colpevole, credette esservi alcuna
delle circostanze di cui al canone 1323, numeri 4 o 5;
Riconoscendosi l’esistenza dello stato di necessità, la scomunica «latae
sententiae» non sarebbe operante. Lefebvre, per essere scomunicato
avrebbe dovuto esserlo con la formula «ferendae sententiae», cioè per
deliberata decisione del Papa, cosa che non è avvenuta.
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