Religione civile o
intransigenza: le due strategie
Silvio Ferrari, su espresso.it del 26
maggio 2005
Anche tra gli
uomini di Chiesa le visioni sono differenti. Due personalità
tra loro molto vicine, come papa Ratzinger e il suo vicario Camillo
Ruini, concordano sulla diagnosi ma si dividono in parte sulle
strategie di risposta. È quanto sostiene nel seguente articolo il professor Silvio Ferrari, docente di diritto
canonico e di relazioni tra Stato e Chiesa all’Università Statale
di Milano e all’Università di Lovanio, nonché direttore dei
“Quaderni di Diritto e Politica Ecclesiastica” editi da il Mulino
1. Le religioni nell’Europa post-moderna
torna su
Molti sociologi delle religioni concordano, quando tentano di definire
sinteticamente la religione degli europei, con la formula coniata da
Grace Davie: “credere senza appartenere” .
Con questa espressione la studiosa inglese intende dire che molti
europei continuano a credere in "un Dio" (nel senso più
ampio e generico di questo termine) ma, in larga misura, non si
identificano più con "il Dio" proposto da una religione
precisa, di cui pertanto non si sentono più membri.
In altre parole, la fede religiosa non scompare ma si trasforma. In
particolare si diffonde – come scrive un’altra sociologa della
religione, la francese Danièle Hervieu-Léger – “una credenza
‘molle’ o poco definita nell’esistenza di una ‘potenza’ o di
una ‘forza sovrannaturale’: si crede sempre, ma non si sa più
esattamente a cosa". Il sincretismo religioso, la religione
"fai da te" che oggi è divenuta tanto popolare costituisce
un'evidente manifestazione di questo indebolimento: non della credenza
ma dell'appartenenza religiosa.
A questo processo di mutazione delle credenze religiose si accompagna
una minor presa dei precetti religiosi sulle scelte che attengono alla
vita privata e quotidiana: se non si crede più nel Dio particolare
proposto da una religione ben definita, è difficile che le norme di
comportamento riconducibili a quella stessa religione siano percepite
come vincolanti.
Questa conclusione è confermata dai risultati delle indagini
sociologiche, concordanti nel segnalare il declino non soltanto della
pratica religiosa (battesimi, matrimoni religiosi, frequenza ad atti
di culto, ecc.) ma anche del rispetto delle indicazioni provenienti
dal magistero ecclesiastico in materia di vita sessuale, attività
lavorativa, impiego del tempo libero e via dicendo. Sembra quindi
difficile dissentire da René Remond quando sottolinea che il processo
di secolarizzazione della vita privata degli europei procede senza
soste o rallentamenti significativi.
Questa constatazione spiega però soltanto una parte delle tendenze in
atto nel formare il panorama religioso europeo.
La stessa Hervieu-Léger, nel commentare la chiave interpretativa
proposta da Grace Davie, nota che la formula “credere senza
appartenere” può agevolmente essere rovesciata nel suo opposto –
“appartenere senza credere” – senza per questo divenire meno
esatta. In Europa l'influsso del cristianesimo sopravvive in qualche
misura, e sia pure in forma sommersa, nel complesso di valori e
principi che orientano in profondità "lo stile della vita
politica, il contenuto del dibattito pubblico sui problemi sociali ed
etici, la definizione delle responsabilità dello stato e
dell’individuo, la nozione di cittadinanza, le concezioni della
natura e dell’ambiente [...], le regole concrete della ‘civilité’,
il rapporto con il denaro o le forme del consumo": tutto ciò
"non perchè le istituzioni religiose conservino una reale
capacità normativa (è noto che esse l’hanno perduta ovunque), ma
perché le strutture simboliche che esse hanno forgiato conservano, al
di là della scomparsa delle religioni ufficiali e
dell’indebolimento della osservanza religiosa, una notevole capacità
di impregnazione culturale". Queste osservazioni sembrano dar
ragione a quanti sottolineano il "molto cattolicesimo
implicito" che sopravvive nel mondo desacralizzato di oggi e la
persistenza di "concetti teologici secolarizzati" nella
moderna dottrina della politica e dello stato .
La secolarizzazione della vita privata non incide dunque sul
riconoscimento alla religione di un valore di civiltà. Anzi, il dato
più interessante di queste analisi sociologiche sta proprio nella
dimostrazione che questa valenza culturale ed identitaria della
religione è in crescita: molti europei mostrano un significativo
attaccamento ai simboli religiosi cristiani anche quando non osservano
più i precetti di questa religione e non si annoverano tra i suoi
fedeli.
In Italia, per esempio, la battaglia per mantenere o reintrodurre il
crocefisso nelle aule scolastiche è condotta sottolineandone il
significato di simbolo della storia e della cultura occidentale prima
e più ancora che quello di testimonianza di una religione specifica:
la valenza culturale ed identitaria del simbolo prevale sul suo
significato di fede. A partire da queste osservazioni si può
comprendere perchè José Casanova abbia potuto sostenere che la
religione va "de-privatizzandosi" in Europa come in altre
parti del mondo: se si abbandona l'area dei comportamenti privati e si
entra in quella delle scelte pubbliche fa capolino la "rivincita
di Dio" di cui ha scritto anni fa Gilles Kepel.
La prima conclusione a cui si può pervenire, quindi, sulla scia delle
analisi di Grace Davie e Danièle Hervieu-Léger, è che
nell’odierna Europa occidentale la laicizzazione delle istituzioni
pubbliche non va più di pari passo con la secolarizzazione della
scelte private. La scissione del binomio tra secolarizzazione della
vita privata e laicizzazione della vita pubblica – binomio che aveva
contraddistinto la maggior parte degli ultimi due secoli – sembra
essere il primo approdo della post-modernità.
2. Verso una rivincita delle identità religiose forti?
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Il paradigma della secolarizzazione, che è sotteso alle analisi di
Davie e Hervieu-Léger, è vivacemente contestato dai sostenitori
della teoria della economia religiosa.
Sviluppatasi negli Stati Uniti – quindi in un contesto
socio-religioso profondamente diverso da quello europeo, – questa
teoria respinge l'idea che le società moderne siano inevitabilmente
soggette a un processo di secolarizzazione che riduce progressivamente
il ruolo svolto dalla religione al loro interno. L'esperienza degli
Stati Uniti, caratterizzata dalla persistenza di una forte
partecipazione religiosa, suggerisce l'ipotesi che la domanda
religiosa resti sostanzialmente costante anche in società
caratterizzate da un elevato grado di modernità.
Il problema – per usare la terminologia delle scienze economiche
cara ai fautori di questa teoria – non sono dunque i consumatori
bensì i produttori. Sono le variazioni dell'offerta religiosa –
connesse alla struttura del mercato religioso, alle norme che ne
regolano l'accesso, alla diversificazione delle agenzie religiose e
dei prodotti che vengono offerti – a determinare il comportamento
religioso dei cittadini, influendo sul livello e la qualità della
loro partecipazione e, in ultima analisi, determinando il successo o
il declino di una religione.
Questa chiave interpretativa viene utilizzata per leggere le
trasformazioni dell'attuale panorama religioso, che non è
caratterizzato da un calo di interesse per la religione ma
semplicemente dalla perdita di egemonia delle Chiese tradizionali, non
più capaci di offrire prodotti religiosi attraenti. Scrive Roger
Finke, un sostenitore di questa teoria:
“Se, come si fa nelle analisi delle imprese commerciali, si presta
attenzione non tanto a quanti sono i soci ma a quanto ciascuno di essi
investe [...] si scopre che gruppi apparentemente minoritari, in base
al numero di aderenti, concentrano proporzionalmente molta più
energia di quanto riesca a fare una Chiesa tollerante e poco esigente.
Mentre questa riesce a malapena a riprodursi e a pagare i costi delle
sue strutture gigantesche attraverso la stentata partecipazione e
scarsa contribuzione dei suoi fedeli, quelle possono utilizzare il
surplus di energie nell'attività di proselitismo ed ulteriore
espansione”.
Si tratta quindi, per le grandi Chiese cristiane, di modificare il
profilo della propria offerta religiosa, caratterizzandolo in termini
più netti rispetto alle offerte provenienti da altre agenzie, tanto
religiose quanto secolari. Secondo Massimo Introvigne, esponente in
Italia di questa corrente, la teoria della economia religiosa “ha
dimostrato con dovizia di dati empirici [...] che, nelle società
contemporanee, vi è una domanda davvero scarsa per forme religiose
che si limitino ad applaudire il relativismo morale dominante anziché
contestarlo. Ovunque nel mondo le comunità religiose che propongono
un accostamento più rigoroso guadagnano membri, mentre quelle
lassiste ne perdono. Se è vero che la Chiesa nazionale svedese
benedice i matrimoni degli omosessuali, è anche vero che si è
ridotta a contare meno del 3 per cento degli svedesi fra i suoi fedeli
praticanti, in un paese dove viceversa crescono a ritmo impressionante
denominazioni pentecostali che sulla questione dell'omosessualità
hanno semmai posizioni più rigide rispetto alla Chiesa cattolica. I
teorici dell'economia religiosa hanno mostrato che la stessa dinamica
è all'opera anche all'interno della Chiesa cattolica, dove i gruppi
che propongono un accostamento più rigoroso alla morale e alla
teologia prosperano, mentre i gruppi lassisti e liberal perdono
membri”.
Il futuro apparterrà quindi ai gruppi religiosi dotati di una identità
forte, anche se questa più netta caratterizzazione – accentuando la
conflittualità religiosa e sociale – può implicare l'impossibilità
per il cristianesimo di presentarsi come la religione di tutti gli
europei e può condurre a perdere la rendita di posizione finora
goduta dalle Chiese cristiane nei rapporti con gli stati.
3. Religione civile o intransigenza: le due strategie
torna su
Dalle ricerche sociologiche sommariamente sintetizzate nei due punti
precedenti discendono indicazioni che disegnano, per le grandi
religioni europee, prospettive orientate in due direzioni diverse e
difficilmente compatibili.
Una prima strada – che sembra interpretare alcuni suggerimenti
impliciti nelle analisi di Grace Davie e Danièle Hervieu-Léger –
va nella direzione di trasformare il cristianesimo in una sorta di
religione civile dell'Europa, valorizzandone il carattere di custode
della memoria e della tradizione europea.
In questa prospettiva non è essenziale che le Chiese siano sempre più
vuote: se le grandi religioni cristiane sono capaci di riposizionarsi
sul terreno del patrimonio culturale europeo, esse possono divenire
ancora più minoritarie e, al tempo stesso, continuare a giocare un
ruolo pubblico rilevante come depositarie dell'identità europea e
fornitrici di simboli accettati dall'intera collettività.
Sta qui il significato profondo della domanda di inserire un richiamo
alle radici cristiane dell'Europa nella futura costituzione
dell'Unione. Il riconoscimento del ruolo giocato dal cristianesimo
nella formazione dell'Europa è una garanzia di sicurezza. Se il
futuro è incerto, il passato non può essere rimesso in discussione e
fornisce un solido fondamento alla richiesta di ritagliare una
posizione particolare per le Chiese cristiane all'interno
dell'ordinamento giuridico dell'Unione Europea: esse meritano
l'appoggio dei pubblici poteri non soltanto perché raccolgono
l'adesione della maggioranza dei cittadini europei – cosa che in
futuro potrebbe non essere più vera – ma perché costituiscono una
parte fondamentale della tradizione e dell'identità dell'Europa.
Diversa è la prospettiva se si accolgono le conclusioni a cui sono
giunti i teorici della economia religiosa e si imbocca la strada di
una riaffermazione intransigente dell'identità cristiana e della sua
alterità rispetto non soltanto alle altre religioni ma anche alla
società laica e liberale dell'Occidente.
Questa strada implica infatti un certo grado di
riconfessionalizzazione del cristianesimo: come ha sottolineato
Jean-Paul Willaime, le tendenze “a rendere il cattolicesimo più
cattolico, il protestantesimo più protestante e l’ortodossia più
ortodossa percorrono in realtà ciascuna Chiesa e perfino ciascun
fedele” e non sono appannaggio esclusivo dei gruppi integralisti o
fondamentalisti presenti in ciascuna di queste Chiese.
Queste tendenze colgono ed esprimono la forte domanda di identità
collettiva che percorre l'Europa intera, provocata dalla paura che
l'Occidente esca perdente da uno scontro di civiltà con il mondo
islamico, dal disorientamento innescato dai processi di
deterritorializzazione conseguenti alla globalizzazione, dal dubbio
che lo stato laico e liberale non sia in grado di governare la
transizione verso la società multi-culturale e multi-religiosa
determinata dai flussi migratori. Tutte le Chiese sentono l'esigenza
di sottolineare la propria differenza e rimarcare la propria identità.
La costruzione di un'immagine della Russia come paese ortodosso passa
attraverso la riaffermazione della nozione di territorio canonico
esclusivo, e la polemica contro il proselitismo della Chiesa cattolica
e delle “sette” straniere. La ricostruzione del nesso tra
religioni e identità nazionali si è compiuta nei paesi della ex
Jugoslavia mediante il coinvolgimento – voluto o subito, poco
importa – di cattolicesimo, ortodossia e islam nel conflitto che ha
opposto Croazia, Serbia e Bosnia. Su un piano diverso, le linee di
distinzione tra cattolicesimo ed altre religioni, che sembravano aver
perduto nettezza nel processo del dialogo interreligioso, sono state
di fatto rafforzate da documenti come la dichiarazione “Dominus
Jesus” della congregazione per la dottrina della fede.
4. La Chiesa cattolica tra Ratzinger e Ruini
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Le due linee interpretative indicate nel paragrafo precedente aiutano
anche a comprendere le differenti strategie ecclesiali seguite da due
protagonisti dell’ultimo conclave, Joseph Ratzinger e Camillo Ruini.
Papa Benedetto XVI, ex prefetto della congregazione per la dottrina
della fede, ed il suo vicario per la diocesi di Roma muovono dalla
stessa diagnosi: la cultura illuminista radicale che “taglia
coscientemente le proprie radici storiche privandosi delle forze
sorgive dalle quali essa stessa è scaturita” (così Ratzinger nella
sua conferenza del 1 aprile 2005 a Subiaco) è il vero nemico
dell’Europa e le impedisce, per il proprio intrinseco relativismo,
di individuare alcuni capisaldi etici condivisi che servano da guida
nel confronto con altre civiltà e nella gestione delle trasformazioni
interne al Vecchio Continente.
Per Ruini la speranza sta nel “risveglio dell’identità
cristiana”, di cui il cardinale coglie alcuni segni soprattutto in
Italia ma anche in altri paesi dell’Europa cattolica, protestante ed
ortodossa. Fare del cristianesimo la religione civile dell’Europa è
il progetto che si intravede dietro questa analisi del vicario di
Roma, sviluppata in una sua conferenza dell’11 febbraio 2005. “La
cosiddetta ‘religione civile’ americana, di carattere non
confessionale” ma con una chiara impronta cristiana, sembra il
modello “meglio in grado di garantire, nell’attuale società
libera e democratica i fondamenti morali della convivenza e in ultima
analisi una comune visione del mondo”, dice Ruini. E il
cristianesimo, conclude, ha ancor oggi la capacità di “alimentare,
in un’ottica non confessionale ma pienamente rispettosa della libertà
religiosa e della distinzione tra Chiesa e stato, una visione della
vita ed alcuni fondamentali valori etici che forniscano le basi
dell’identità delle nostre nazioni”.
Questo progetto, per essere realizzato, richiede però che si avverino
tre condizioni.
La prima consiste nella riconciliazione con gli ortodossi e nel
superamento di alcune incomprensioni che hanno reso più tesi i
rapporti con i protestanti. La religione civile degli europei non può
avere il volto del cattolicesimo soltanto, ed i rapporti della Chiesa
cattolica con le altre confessioni cristiane non hanno fatto segnare
grandi progressi, al di là delle apparenze, durante il pontificato di
Giovanni Paolo II. Ma il nuovo papa, che non proviene dalla Polonia,
dovrebbe incontrare meno resistenze a ristabilire con Mosca rapporti
di buon vicinato, che potrebbero essere ricostruiti a partire da una
comune visione dell’Europa: la riaffermazione dell’identità
cristiana del Vecchio Continente è stato il profilo del pontificato
di Giovanni Paolo II che ha riscosso maggiori consensi
nell’ortodossia russa.
Più difficile appare mantenere aperto il dialogo con la cultura di
ispirazione laica e secolare, attenuando le chiusure intransigenti e
le condanne senza appello. Le posizioni tendono ad allontanarsi ed il
diritto di famiglia, la morale sessuale, la bioetica sono gli esempi
più chiari di questa divaricazione. Il timore delle gerarchie
ecclesiastiche è che possa ripetersi in altri paesi cattolici ciò
che sta accadendo nella Spagna di Zapatero ed era già avvenuto, senza
troppo clamore, in Belgio: riconoscimento dei matrimoni omosessuali,
introduzione di un divorzio “veloce”, progressiva estensione delle
possibilità di eutanasia, libertà di ricerca sull’embrione e via
dicendo. Finora è prevalso in Vaticano un atteggiamento di netto
rifiuto, che non ha lasciato spazio a mediazioni anche quando esse
erano possibili (riaffermare il carattere eterosessuale del matrimonio
non significa necessariamente respingere ogni riconoscimento giuridico
delle unioni omosessuali), e non sembra che papa Ratzinger intenda
cambiare rotta: ma è difficile comprendere, se prevalgono queste
spinte a radicalizzare le differenze, in qual modo il cristianesimo
possa presentarsi come insieme di principi e valori condivisi dalla
maggioranza degli europei.
Infine resta il problema del rapporto tra Europa ed islam e della
possibilità di concepire il cristianesimo come religione civile di
un’Unione Europea di cui fosse membro la Turchia, “uno stato, o
forse meglio, […] un ambito culturale, che non ha radici
cristiane” (Ratzinger).
La questione è stata sinora diplomaticamente ignorata dal vicario di
Roma ma non dall’ex prefetto della congregazione per la dottrina
della fede, secondo il quale – quand’anche la Turchia accettasse i
principi di libertà e di democrazia che tutti i membri dell’Unione
debbono rispettare – rimarrebbe il problema dell’“intreccio di
radici” su cui “questa cultura della libertà e della democrazia
viene impiantata”. A giudizio di Ratzinger, solo ignorando tale
questione e dando partita vinta alla “cultura illuminista e laicista
dell’Europa” in base a cui “Dio non c’entra […] niente con
la vita pubblica e con le basi dello Stato”, si potrebbe ammettere
la Turchia tra i membri dell’Unione Europea.
Affiora qui una differenza importante tra le visioni dell’Europa
sottese alle analisi di Ruini e Ratzinger. Quest’ultimo non sembra
condividere le speranze di Ruini ed appare convinto che il destino dei
cristiani in Europa sia quello di essere minoranza: una minoranza
assediata da un “laicismo aggressivo […] che si presenta come
l’unica voce della razionalità”.
In questa prospettiva, per Ratzinger, la prima necessità è quella di
formare “uomini che tengano lo sguardo diritto verso Dio” perché
“soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far
ritorno presso gli uomini”. Parole che danno voce ai convincimenti
delle comunità e dei movimenti – da Comunione e Liberazione all’Opus
Dei – che si battono per una riaffermazione forte della identità
cristiana e ritengono inutile imbarcarsi in una politica di estenuanti
compromessi con la società laica e liberale, attraversata da una
crisi che è giudicata irreversibile. Secondo costoro, è meglio
andare al confronto aperto e duro con le altre identità religiose e
non religiose in Europa facendosi forti del proprio intatto patrimonio
dottrinale,rimarcando la propria differenza e puntando sulla
possibilità che un cattolicesimo integrale riesca a interpretare il
bisogno di sicurezza e identità che percorre l’Europa intera. In
tal senso la posizione del nuovo pontefice appare più vicina a quelle
dei sostenitori di un cattolicesimo a forte intensità, anche se ciò
potrebbe significare in Europa (ma forse non altrove) una sua minore
diffusione.
Si tratta di due posizioni – quelle di Ratzinger e Ruini –
realmente inconciliabili? La storia sembra suggerire una risposta
negativa. Molte volte in passato la riaffermazione della proposta
cristiana in tutta la sua radicale integrità si è espressa in forme
che sono riuscite a rivitalizzare, senza traumi e fratture
irreparabili, società che apparivano altrettanto lontane dal
messaggio evangelico come quella odierna. Basta pensare alla storia
degli ordini religiosi: la Chiesa li ha sovente valorizzati per
trasformare dall’interno la società civile ma ha sempre evitato di
incoraggiare le pulsioni più radicali e “fondamentalistiche” che
dentro di essi si sono in più occasioni manifestate. È questa la
strategia che seguirà papa Ratzinger?
Di fronte a posizioni così nette e precise, le analisi che provengono
da altri settori del mondo ecclesiastico appaiono meno esplicite e
articolate. Alcuni, come il cardinale Walter Kasper in una conferenza
a Camaldoli del luglio 2002, hanno sottolineato che “la nuova realtà
in cui viviamo rappresenta per la Chiesa non solo un pericolo, ma
anche una sfida e un’opportunità”, aggiungendo che –
diversamente dal secolo XIX – “Chiesa e modernità, Chiesa e
scienza oggi non sono più avversarie, ma sono divenute alleate”.
Ma da queste premesse vengono tratte conseguenze modeste, circoscritte
all’opportunità di un approccio ecumenico ai problemi dell’Europa
e di una presentazione dell’ “assolutezza del Vangelo” non come
“rivendicazione autoritaria” ma come “forma di servizio”.
È mancata fino ad ora, insomma, la forza di declinare il tema
dell’identità cristiana in chiave non solo di resistenza ma anche
di progetto, ridefinendola in rapporto (e non solo in opposizione)
alla società europea contemporanea, secolarizzata e pluralista.
Un’analisi coraggiosa che individui nella laicità politica e
culturale la caratteristica che distingue l’Europa da altre regioni
del mondo, una riflessione sulle radici cristiane della laicità e
sulla sua capacità di agire come elemento di integrazione delle
diverse identità religiose e culturali presenti in Europa potrebbero
condurre a conclusioni capaci di aprire prospettive diverse da quelle
indicate da Ruini e da Ratzinger.
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