L’autocoscienza
cristiana e il popolo ebraico è il tema su cui siamo chiamati a
riflettere insieme in questo Forum. Per avviare correttamente la
riflessione mi sembra opportuno fare alcune osservazioni preliminari.
La
prima è che la prospettiva in cui ci muoviamo è quella di cristiani che
si interrogano sul loro rapporto col popolo ebraico: in tal senso la
finalità precipua del nostro incontro è quella di una revisione di vita
all’interno delle Chiese cristiane. In quanto tali, esse riconoscono l’importanza
fondamentale del raduno escatologico d’Israele, per il quale Gesù ha
speso la Sua vita, e fanno propria la meditazione di Paolo sul “mistero”
per cui questo raduno è dilazionato nel tempo (cf. Rom 9-11). Al tempo
stesso, come rappresentanti delle Chiese che sono in Europa, riconosciamo
in partenza l’enorme apporto che l’ebraismo ha dato alla formazione
della coscienza europea e in generale dell’ethos dell’Occidente, sia
mediante paradigmi di fondo, come il senso di una storia orientata all’éschaton
e la relazione al Dio unico e personale, sia attraverso innumerevoli
pensatori e protagonisti, quali - per fare solo nomi significativi del
nostro secolo - Martin Buber, Franz Rosenzweig, Emmanuel Lévinas e tanti
altri.
Una seconda osservazione riguarda l’idea stessa di “riconciliazione”,
in quanto riferita ai rapporti fra l’autocoscienza cristiana e il popolo
ebraico. Secondo Paolo la vera e piena riconciliazione fra i due popoli
appartiene al tempo della fine: Essa coinciderà con qualcosa paragonabile
a una “risurrezione dai morti” (Rom 11,15). Questo significa che nel
tempo intermedio fra il primo e l’ultimo avvento del Signore Gesù ciò
che è possibile e doveroso cercare è un cammino verso la
riconciliazione, più che una riconciliazione compiuta, riconoscendo che
questa apparterrà al tempo, che il Dio della promessa riserva per tutti
noi.
Questa chiarificazione libera subito da attese azzardate. salvi
restando gli itinerari individuali possibili, che rispondono ai disegni
particolari dell’Eterno su ciascuno, Israele e la Chiesa dovranno
camminare inconfusi, anche se inseparabili, fino all’integrazione finale
operata dal Signore, in quello “shalom” escatologico, che è l’oggetto
della speranza messianica di entrambi i popoli. L’idea di una
riconciliazione in cammino, piuttosto che compiuta, supera definitivamente
ogni ipotesi di sostituzione, secondo cui la Chiesa avrebbe semplicemente
preso il posto d’Israele nel piano divino della salvezza: è lo stesso
Paolo che mette in guardia dal vanificare quello che egli chiama il “mistero”
(Rom 11,25), in base al quale Israele - nella misura in cui mantiene la
fede dei Padri - resta il testimone dell’elezione e delle promesse di
Dio e richiama alla Chiesa la “radice santa” (cf. Rom 11,16 e 18) su
cui essa è innestata e dalla quale non è mai lecito prescindere.
Nell’unità
dell’economia della salvezza c’è Israele, il popolo dell’alleanza
mai revocata anche se non ancora pienamente compiuta, e c’è la Chiesa,
il popolo stabilito nell’alleanza posta dal sangue di Cristo: unico è
il disegno salvifico, ma diverse le alleanze, da quella con Noè, a quella
con Abramo e i patriarchi, dall’alleanza mosaica a quella stabilita
nella morte e resurrezione del Signore Gesù. Unica è la struttura
fondamentale della relazione attuata mediante la rivelazione, per la quale
l’Eterno si è destinato nell’amore al suo popolo e questo è chiamato
a destinarsi a Lui nella fede, ma diverse sono le tappe e le forme dell’economia.
Non ci sarà allora autentico cammino di riconciliazione fra la Chiesa e
Israele senza il riconoscimento del valore irrinunciabile della “radice
santa”, e perciò senza un effettivo, forte amore dei cristiani nei
confronti della promessa fatta ai Padri, dei testi in cui essa si esprime
e del popolo che ne è stato e ne è testimone nella storia a prezzo anche
della vita. Ma non sarà nemmeno autentico un cammino di riconciliazione
che escludesse per i cristiani la confessione di Gesù come Signore e
Cristo, resa dimostrando con la parola e con la vita che è lui la pietra
di scandalo posta in Sion, ma che “chi crede in lui non sarà deluso”
(Rm 9,33).
In altre parole, i due popoli devono camminare uniti verso la
stessa meta, ma la Chiesa, riconoscendo Israele come la radice che la
precede e la fonda, non potrà fare a meno di guardare allo stesso Israele
e al futuro della promessa attraverso la rivelazione del Signore Gesù.
Questa idea è espressa dall’immagine patristica, tratta dalla
Scrittura, degli esploratori inviati da Mosè nel paese di Canaan, che “giunsero
fino alla valle di Escol, dove tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva,
che portarono in due con la stanga” (Num 13.23) per mostrarlo al popolo
e accendere il desiderio della conquista. Nel legno da cui pende il
grappolo i Padri hanno riconosciuto la Croce da cui pende Cristo: “Figura
Christi pendentis in ligno” (Evagrio, altercatio inter Theophilum et
Simonem: PL 20,1175). Nei due portatori dell’asta hanno visto invece la
Chiesa e Israele, che guardano entrambi verso la stessa meta, uniti dalla
stessa speranza.
La differenza sta nel fatto che mentre Israele precede e
vede perciò davanti a sé l’aperto orizzonte, la Chiesa, che segue,
guarda sì allo stesso orizzonte, ma lo fa attraverso il grappolo appeso e
il legno dell’asta, oltre che attraverso chi la precede, attraverso
cioè il Signore Crocefisso ed il popolo e i testi dell’alleanza mai
revocata. “Subvectantes phalanguam, duorum populorum figuram ostendebant,
unum priorem, scilicet vestrum, terga Christum dantem, aliud posteriorem,
recemum respicientem, scilicet noster populus intelligitur” (ib.).
Camminare all’unisono, anche se nella diversità, è dunque il compito
da assolvere la vista della riconciliazione finale: il che richiede alla
Chiesa di coniugare la confessione del Signore Gesù all’amore verso
Israele, nella consapevolezza di una dualità ed anche di una scissione
che devono essere vissute nel profondo rispetto reciproco, nella
comune testimonianza del Dio unico e nella comune attesa del compimento
delle Sue promesse, quando ci sarà riservato il dono dello “shalom”
finale.
Questa concezione è così espressa dal Sussidio per una corretta
presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella catechesi della Chiesa cattolica: “Sottolineando la dimensione escatologica del cristianesimo,
si giungerà ad una maggiore consapevolezza del fatto che quando il popolo
di Dio dell’Antica e della Nuova Alleanza considera l’avvenire, esso
tende - anche se partendo da due punti di vista diversi - verso fini
analoghi: la venuta o il ritorno del Messia. E ci renderà conto più
chiaramente che la persona del Messia, sulla quale il popolo di Dio è
diviso, costituisce per questo popolo anche un punto di convergenza” (II,10).
In termini in parte analoghi è nell’escatologia messianica che l’ebreo
Gershon Scholem riconosce il punto di incontro e di differenziazione fra
Israele e la Chiesa: “Ciò che l’ebraismo ha posto irrevocabilmente al
termine della storia, come il momento in cui culmineranno gli eventi
esterni, è divenuto nel cristianesimo il centro della storia, la quale si
trova allora promossa al titolo particolare di “storia della salvezza””
(Concetti fondamentali dell’ebraismo, Genova, 1986, 107s).
Sappiamo,
tuttavia, che non sempre la relazione fra ebraismo e cristianesimo è
stata pensata così: la storia passata è anzi colma di pregiudizi e di
incomprensioni dei cristiani nei confronti del popolo ebraico. Ecco perché per avanzare nel cammino della riconciliazione occorre la “teshuwah”,
parola ebraica che significa “ritorno”, “conversione”.
Essa si
pone a differenti livelli: in primo luogo occorre individuare e
riconoscere con precisione le colpe commesse contro il popolo ebraico e i
loro effettivi responsabili. Ciò non va fatto solo in rapporto alla Shoah,
ma anche più in generale in relazione a quell’”insegnamento del
disprezzo”, che è stato alla base di tanto antisemitismo e di tante
sofferenze del popolo eletto. Tuttavia, bisogna riconoscere che un’ammissione
di colpa troppo generale rischia di svuotare di senso la “teshuwah”,
scaricando le responsabilità su colpevoli tanto numerosi, quanto
generici.
A nulla varrebbe dichiararsi tutti in colpa se questa
confessione non esprimesse una consapevolezza precisa ed una conseguente
assunzione di responsabilità. Occorre allora piuttosto confessare le
colpe effettivamente commesse, chiedendo a tutti quella larghezza di cuore
che ci renda capaci di chiedere perdono anche a nome di quanti sono stati
effettivamente colpevoli negli eventi della Shoah, consumatasi nell’Europa
cristiana.
Questa larghezza di cuore dovrebbe estendersi ad abbracciare
tutti gli olocausti di cui la famiglia umana si è resa responsabile,
anche nel nostro secolo. In altre parole, la ferma condanna dell’antisemitismo
deve portare i cristiani a riconoscerne le radici nel proprio passato e -
lì dove necessaria - nel proprio presente per purificarsene, ma deve
coniugarsi anche a una più profonda sensibilità nei confronti di tutte
le forme di violazione dei diritti umani, per vivere un’effettiva
solidarietà verso i vinti e gli oppressi. Questo atteggiamento di
autentica “teshuwah” è richiesto peraltro anche al popolo ebraico
attuale, che proprio così può mostrare l’eccellenza della sua elezione
e la singolarità della misericordia del Signore di cui ha fatto
esperienza.
Al tempo stesso, la “teshuwah” non potrà confondere l’amore
a Israele e il riconoscimento del suo significato di testimone del Dio
unico anche nell’oggi con un indiscriminato sostegno alla linea politica
che di volta in volta potranno avere i governanti dello Stato d’Israele.
Anzi, la “teshuwah” - proprio a partire dall’obbedienza alla Parola
del Signore - potrà a volte richiedere un atteggiamento critico nei
confronti di scelte che non siano rispettose dei diritti di tutti, specie
dei più deboli.
Ho così accennato al complesso di questioni che sono
alla base della nostra riflessione comune: le riassumo per sollecitare
più precisamente il contributo dei nostri testimoni e dei nostri esperti.
Quale valore ha per i cristiani l’esistenza del popolo ebraico fino ai
nostri giorni? come definire e riconoscere con onestà la responsabilità
dei cristiani nei confronti dell'antisemitismo? come coniugare l'amore
alla "santa radice", che è Israele, alla novità rappresentata
dal Signore Gesù? in che senso la fede ebraica fa parte costitutivamente
dell'identità cristiana? come una più profonda conoscenza della
tradizione ebraica vivente può favorire una migliore comprensione della
rivelazione e della fede cristiana? come si può perseguire un vero
cammino di riconciliazione fra cristiani ed ebrei, nell'attesa dello
"shalom" finale, da entrambi sperato? In questa prospettiva di
veracità e crescita comune davanti a Dio, mi pare importante che i
cristiani rivolgano domande anche all'interlocutore ebraico, incoraggiati
peraltro a farlo da alcune voci particolarmente incisive provenienti dallo
stesso Israele odierno, che sperimenta la condizione del tutto nuova dopo
duemila anni di essere maggioranza forte in un paese libero: che cosa è
possibile ed è giusto chiedere ai nostri fratelli maggiori, gli Ebrei, perché questo cammino sia più facile e spedito per tutti? in che senso e
in quali forme la "teshuwah" può riguardare anche loro, ad
esempio nei confronti della minoranza araba, islamica e cristiana,
presente in Israele?
Nel desiderio che il cammino di riconciliazione
avanzi su queste premesse, le Chiese d'Europa potrebbero compiere qualche
gesto significativo, che serva da richiamo costante all'importanza
decisiva del rapporto di riconoscenza e d'amore con la loro comune
"radice" ebraica: sin da ora segnalo due gesti, che sono già
proposti nella comunità cattolica italiana e che potrebbero essere
assunti da tutte le comunità cristiane del nostro continente.
Il primo è
l'appello ai cristiani a non nominare il tetragramma, sia per rispetto ai
fratelli ebrei, sia per una coerente ed integrale accettazione della
rivelazione, che nella proibizione di pronunciare il Nome santo veicola il
rispetto e l'adorazione verso la trascendenza divina. La fede dell'ebreo
Gesù, che non ha mai pronunciato il Nome, dovrebbe essere esemplare e
normativa per i suoi discepoli.
Il secondo gesto potrebbe essere l'invito
a tutte le Chiese d'Europa a celebrare unite una "giornata
dell'ebraismo", tesa a favorire la conoscenza del mondo ebraico da
parte dei cristiani e il dialogo con l'Israele presente. La scelta fatta
dalla Chiesa cattolica in Italia di porre questa giornata al 17 gennaio,
vigilia della settimana di preghiere per l'unità dei cristiani, esprime
bene l'autonomia e il collegamento fra la causa ecumenica e l'amore a
Israele, "radice santa", nella diversità delle forme, che sono
appunto conoscenza e dialogo da una parte, preghiera comune dall'altra.