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«Perché la vita è sacra»
Se non si accetta il principio della sacralità della vita umana e del rispetto che le si deve viene a mancare la base di ogni umanesimo, inteso come visione dell'uomo e del suo vero significato. L'uomo è in primo luogo «qualcuno» da rispettare, che anzi è sacro, e infatti richiama il mistero. Come un alone che si riesce a intuire e a intravedere anche oggi, pur entro lo sviluppo delle scienze e della fenomenologia che ci descrivono accuratamente ciò che l'uomo fa e come vive. In realtà, è più appropriato parlare di «umanesimi», al plurale, poiché le visioni dell'uomo possono variare anche se mai può evaporare questo principio basilare: il rispetto sacro del suo «essere» nel mondo, dove egli ha una posizione peculiare, per la quale non può essere confuso con nessun altro. Se la vita umana perde la sua dignità e sacralità, allora si apre la strada a malvagità inaccettabili, che la storia nel suo svolgersi ci ha più volte mostrato: non abbiamo infatti alcun bisogno di andarle a ricercare nel mondo fantastico. Queste malvagità sono sotto gli occhi di tutti. In primis, ecco la possibilità di sopprimere la vita, ossia di uccidere. Si può farlo applicando la pena di morte, che molti Stati in una logica aberrante ancora prevedono nel proprio sistema giuridico quale punizione estrema per chi commette particolari reati. Si può uccidere in guerra, ad esempio in operazioni che si svolgano in centri abitati provocando vittime tra donne, vecchi e bambini che non possono far altro che subire la brutalità senza possibilità alcuna di difendersi, senza poter gridare il proprio diritto alla vita. Si uccide per omissione: per non aver prestato soccorso, per non aver dato a chi muore di fame un po' di quel cibo a noi largamente disponibile e che potrebbe salvare molte povere vite; ma si uccide anche quando si negano le cure necessarie per curare un disturbo o vincere una malattia. L'omissione diventa causa di morte altrui anche quando si ignora il proprio vicino che, se aiutato, forse non avrebbe preso la decisione di suicidarsi. In tal caso l'uccidere se stessi coincide con una colpa sociale, una forma di eliminazione per disinteresse: non ci importa nulla di te, puoi anche ucciderti. La negazione di questo principio primo non si circoscrive soltanto alla manifestazione estrema che è la morte, ma comprende anche la crudeltà di ogni distinzione tra uomo e uomo. Il principio della vita infatti non è rispettato quando si ritiene che qualcuno sia meno uomo di altri. Perseguendo una suddivisione della società per caste, si arriva a considerarne alcune fatte da «intoccabili», in quanto entrando a contatto con questi si diventerebbe impuri. Una gerarchia tra gli esseri umani, insomma, per cui si passerebbe dall'uomo completo a frazioni di uomo, a residui umani che fatalmente diventano cose. Proprio in questa cornice va letta la condizione di una parte dell'umanità costretta in stato di miseria, in una povertà che toglie ogni dignità poiché pone su un piano di dipendenza pressoché totale, costringendo a vivere d'elemosina e quindi a condurre un'esistenza circoscritta alle briciole altrui, legata all'arbitrio di chi quei miseri avanzi può dare o negare. La condizione che crea (e ha creato nel corso della storia) una distinzione sostanziale della donna dall'uomo - anche questa è a suo modo una divisione in caste - è prima di tutto una mancanza di rispetto della persona, che non può vivere nello stato subalterno di chi deve sopportare ogni angheria, ogni sopruso, ogni violenza. Sempre in questo àmbito si colloca il fenomeno razzista, in base al quale un'etnia andrebbe considerata superiore a un'altra, dotata quindi del «diritto» di esercitare su di essa una condizione di dominio, fino ad arrogarsi il potere di vita o di morte. Un abuso che durante il nazismo è stato esercitato nei confronti degli ebrei, ma anche degli zingari, considerati razze impure, e in anni più recenti ha colpito popolazioni ed etnie africane. È interessante notare, sebbene si tratti di mostruosità, che storicamente la «logica» seguita in questo processo di esclusione o di diminuzione dello status umano è passata proprio attraverso il decadimento dal livello di uomo a quello di «quasi uomo». Dunque a un «qualche cosa» di totalmente privo di ciò che invece
possiede l'uomo di oggi che vive nelle società dello sviluppo avvenuto e
dunque del benessere. Sarà bene dire subito con chiarezza che queste
«scale» di umanità sono del tutto arbitrarie, perché dettate da una
colpevole prevenzione o da interessi puramente economici, cioè dal
«guadagno» che sottomettere razze ritenute «inferiori» porta nelle
tasche di quelle che si giudicano «superiori». Mentre è stato ampiamente
provato come sia possibile recuperare situazioni di gap culturale.
Margareth Mead ha dimostrato, per esempio, che un gruppo di giovani
donne trasferito dalle foreste della Nuova Guinea a New York aveva
superato nello spazio di venticinque anni ogni elemento che le
differenziava, sul piano del sapere e dello stile di vita, dalle loro
coetanee di Manhattan, a riprova del fatto quindi che un divario simile
può essere eliminato in un tempo relativamente breve. L'essere uomo è una condizione che lo definisce senza possibilità di equivoci e che non può ammettere deroghe. Ciò non esclude che vi siano differenze e caratteristiche - peculiari e distintive - tra i gruppi umani come tra i singoli. Anzi, all'interno del medesimo «essere-uomo» c'è un'evoluzione costante e un suo continuo arricchimento. Diciamo, in altre parole, che non c'è un'unica modalità di essere, data una volta per tutte; ma questo non intacca né sminuisce il principio primo: le diversità infatti si pongono nell'ambito della stessa cifra umana, e godono dello stesso grado (massimo) di rispetto. La vita cioè è qualcosa di concreto, di noto, di spiegabile, nello stesso tempo ha qualcosa di ineffabile, sempre nuovo, e misterioso. So bene che questo alone di mistero dentro cui mi ostino a vedere l'uomo
potrebbe sembrare ad alcuni un residuo di mentalità vecchia e
inaccettabile. Eppure mi sento di richiamare tutti, compresi i
razionalisti più incalliti, alla considerazione che di fatto rimane
sempre qualche interrogativo che non trova risposta se non nelle fedi. È
fede anche l'affermazione per cui non sappiamo ora ma sapremo: per
taluni è addirittura la scienza a garantire, per altri è il sapere in
Dio, e dunque in una verità altra che nella sua completezza sfugge oggi
all'uomo, e tuttavia gli sarà un giorno svelata, se non qui nell'altra
vita. La prima questione riguarda la vita e il suo inizio nella storia del singolo uomo. Vi sono a questo proposito sostanzialmente due posizioni tra loro ben distinte: c'è quella di chi ritiene già presente la vita nell'incontro tra la cellula uovo e lo spermatozoo maschile, e l'altra di chi ne sposta l'inizio più avanti, a un più alto grado di divisione cellulare, oppure a quando, oltre alla divisione, si giunge alla vera e propria configurazione dell'uomo fetale. Confesso che mi pare impossibile negare che la vita sia già presente dentro l'unione tra le due cellule, e che anzi la disposizione alla vita sia già nelle due cellule prese singolarmente le quali, unendosi, formano un insieme vitale che - lasciato crescere - in nove mesi diventa un bambino. Negare che nell'incontro di quelle due cellule ci sia un bimbo in nuce mi sembra proprio un'affermazione incomprensibile, che forse è preoccupata più delle conseguenze che del fatto in sé, innegabile. E la differenza tra vita umana e persona? Anche qui le posizioni sono varie. A me pare che la persona non sia semplicemente un fatto biologico, ma una condizione in cui la biologia si unisce a un ambiente fisico, come anche psicologico, e conduce a un determinato sviluppo in cui si dispiegano le fondamentali caratteristiche umane. Ritengo cioè che si possa culturalmente parlare di persona quando viene raggiunta una qualche consapevolezza di essere, all'interno di un ambiente fisico e relazionale. Tutto questo sarebbe puntualmente chiaro se non si ponesse la questione della manipolazione della vita, e quindi di interventi capaci di impedire lo sviluppo di quelle cellule e poi dell'embrione, cosa che invece oggi avviene, ed ecco che suscita preoccupazioni anche lessicali. A tale proposito occorre evitare le strumentalizzazioni che sorgono quando si dà la precedenza al dato pragmatico, operativo, e si è disposti a mutare anche le proprie concezioni pur di avere moralmente il via. Una manipolazione del processo di pensiero pur di dare una copertura «scientifica» alle conseguenze. Insomma, si potrà anche discutere sul tipo di omicidio che si commette, ma non certo negare che eliminare quelle due cellule significa negare una vita, e una vita umana. Che se poi quelle cellule fossero in grado di guarire gravi malattie, l'impedir loro di diventare vita umana è del tutto analogo al fatto di usare gli organi di un uomo vivo per mantenerne in vita un altro. Non credo affatto che chiarire questi princìpi e richiamarsi a essi sia di ostacolo alla ricerca scientifica, che di per sé non va mai impedita, benché essa non si debba ritenere una sorta di zona eticamente «franca», dove tutto è possibile. Porre limiti al procedere scientifico non limita la scienza, semplicemente la mette di fronte a nuovi aspetti anche tecnici da risolvere, e questo fa parte della scienza e del suo procedere metodologico; anzi, la scienza è prima di tutto metodologia e i suoi grandi progressi sono stati realizzati sempre nel rispetto della vita. La vera scienza medica in particolare agisce in questa direzione, raccogliendo la sfida di rendere la vita umana sempre-più-vivibile, dunque qualitativamente sempre migliore. I grandi progressi delle scienze psicologiche e cognitive hanno messo in evidenza la ricchezza delle caratteristiche della persona e quindi le incredibili capacità che vi si legano, e che permettono di parlare appunto di qualità della vita. Hanno dimostrato che il risultato di una persona è determinato anche dall'ambiente e dunque dalle relazioni con cui viene a contatto a partire dall'infanzia. A me pare bellissimo che l'esito di una persona sia legato alle altre persone, e quindi a una sorta di scambio affettivo che si trasferisce dall'una all'altra, in un mutuo arricchimento. E si profila il caso anche di chi avendo bisogno dell'aiuto dell'altro per una data fragilità e lo ottiene, trasmette forza a sua volta in uno scambio che è positivo, per quanto contrassegnato dalla fragilità. Così la fragilità dell'uno aiuta l'altro, e di conseguenza crolla il mito della perfezione per aiutare l'imperfetto. Si arriva persino all'elogio della fragilità, poiché mette nelle condizioni di ricercare l'altro e di vincere il solipsismo. La persona è il centro della società e su di essa occorre fondarci per
trovare anche quel rispetto che è possibile solo se si sa intravedere
nell'altro un uomo o una donna capaci e pieni di qualità che ci attirano
e spingono a scoprirle. La necessità della relazione con l'altro
distoglie anche da un consumo di tecnologia televisiva o da relazioni
con macchinette che non hanno nulla della persona. Basta considerare, poi, il totale disinteresse delle società ricche per le popolazioni afflitte da una povertà endemica e devastante che stronca la vita di bambini e di anziani, e la mancanza di consapevolezza nei confronti delle possibilità d'intervento quando invece sarebbe sufficiente accettare una migliore distribuzione della ricchezza del pianeta. Basta constatare il livello raggiunto dalla violenza perpetrata dall'uomo nei confronti dell'uomo, legata a una carica di odio per l'altro, alla considerazione che il prossimo è fino a prova contraria un nemico, e quindi uno da non salutare, da ignorare, da evitare, semmai da combattere. Indubbiamente una parte della violenza è provocata dall'invidia, che porta a considerare l'altro alla stregua di un competitore che va raggiunto, superato, oppure negato. Un'invidia che usa ogni mezzo per colpire utilizzando persino nobili professioni, e nascondendo vigliaccamente la mano che ha scagliato il sasso. E ancora. Basta considerare che il valore della persona umana viene oggi misurato in base alla quantità di denaro che possiede, tanto da far dipendere il livello umano dalla ricchezza posseduta o talora solo esibita. Non contano la serietà, la coerenza, l'onestà, la dignità di chi non è ricco ma giusto e rispettoso delle leggi: il criterio di valutazione è il successo, oggi misurato con la capacità d'imporre la propria immagine usando in maniera preminente la televisione o le pagine dei giornali. C'è persino chi snobba la prima sapendo di poter contare sulle altre, poiché paga per avere spazio, quando non fa persino parte della proprietà. Ne sono un esempio quegli imprenditori che appaiono ogni giorno sulle pagine d'informazione economica mentre mai cercherebbero visibilità sul piccolo schermo, ritenuto troppo «popolare». Ma non è finita. Basta considerare la prostituzione dilagante in questa nostra società, un costume certamente antico ma che ha raggiunto un'intensità e una modalità di sfruttamento che avvilisce la persona umana. Basta aver presente lo scempio della politica consumato da persone che considerano il servizio alla collettività come un mezzo per l'affermazione dei propri interessi o del proprio delirio di onnipotenza, convinti di salvare il Paese mentre in realtà cercano di mettere in salvo se stessi: non la propria dignità, ma il narcisismo di ciascuno. Basta, insomma, verificare il rilievo che ha assunto la stupidità in questa società per mostrare che la persona umana è spesso ridotta a un oggetto che agisce, si muove, si mostra come se fosse una bellezza o un portento mentre sa solo di putredine e manca persino dei connotati minimi della persona: di chi, per l'appunto, è dotato di dignità rispettando l'altro e la sua vita come qualcosa di interessante e significativo di per sé, non già in base al conto bancario. Confesso che rimango allibito quando misuro questo principio primo e lo applico con la lampada di Diogene a talune cosiddette persone del mondo contemporaneo, al cospetto delle quali c'è da chiedersi se siano veramente persone o semplici, sciocchi manufatti. Poiché abbiamo sostenuto che i princìpi primi appartengono alla moralità
di una persona e di una società, la triste panoramica che ho appena
compiuto dà ragione dell'odierna mancanza di senso morale, anche se si
continuano a insediare commissioni etiche che sono testimonianza del
paradosso di una società amorale convinta di recuperare questa
dimensione semplicemente discutendo o creando presidenti e segretari di
simili organismi. Spesso si tratta, invece, di semplici escamotage per
difendere l'immoralità fingendo di essere morali. Su questa dimensione non si può imbrogliare: o si è rispettosi della
morale e di questo suo principio primo, oppure si è semplicemente
non-uomini privi di dignità. Si può essere indegni e allo stesso tempo
ricchi e di successo - gli esempi sono persino troppi - occupando
posizioni di potere che conferiscono al potere stesso una connotazione
amorale. | indietro | | inizio pagina | |
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