Voleva aprire una finestra che
permettesse uno scambio di doni tra la
Chiesa cristiana occidentale e quella
orientale, riscoprire il flusso di linfa
che unisce la radice ebraica e il tronco
cristiano, incoraggiare un dialogo
sincero e rispettoso tra il patrimonio
cristiano e il patrimonio musulmano, una
testimonianza del proprio vivere e
sentire. È domenica. Ho appena terminato l’ora
di catechismo con i 12 bambini della
nostra parrocchia qui ad Antiochia, nel
sud della Turchia. P. Domenico mi blocca in giardino.
“Ha
appena telefonato il vescovo. Hanno
sparato a don Andrea neanche un’ora fa.
Morto sul colpo”. Don Andrea Santoro,
il parroco di Trabzon. Non ci posso
credere. Di lui mi ha sempre colpito la tenacia
e la serietà. Incontri rapidi, fugaci, i
nostri. Ma sempre intensi e con al centro
Dio, la sua Parola, il suo Verbo, Gesù
Cristo, senza mezzi termini.
Mi raccontano che già nel 1993 era
venuto in visita in Turchia e qui ad
Antiochia (nella foto) si era fermato una
ventina di giorni con un gruppo di
giovani della sua parrocchia romana: era
il suo primo pellegrinaggio in questa che
lui definiva la “grande terra santa
dove Dio ha deciso di comunicarsi in
maniera speciale all’uomo”. E proprio
nella città dove per la prima volta i
discepoli di Gesù furono chiamati
cristiani ci tenne a svolgere gli
esercizi spirituali.
Volle incontrarsi anche con l’abuna
ortodosso della città ed egli, quasi
segno promonitore, cogliendo in lui la
passione per i cristiani di questa terra
di Turchia, gli regalò un piccolo
frammento di ferro gelosamente custodito
nel basamento del tabernacolo dell’antica
chiesa greco-ortodossa di Antiochia.
Frammento che la tradizione vuole essere
stata una scheggia di uno dei chiodi di
Gesù. Era il 30 novembre, festa di sant’Andrea
e il sacerdote, onorato di tale prezioso
dono nel giorno del suo onomastico, lo
portò con sé di ritorno a Roma.
Fu come un chiodo che rimase nella sua
carne.
Da subito il fascino per questa terra
lo ammaliò, in essa riconobbe “le sue
ricchezze e la sua capacità – grazie
alla luce che Dio vi ha immesso da sempre
– di illuminare il nostro mondo
occidentale. Ma – diceva – il Medio
Oriente ha le sue oscurità, i suoi
problemi spesso tragici, i suoi vuoti. Ha
bisogno quindi a sua volta che quel
Vangelo che di lì è partito vi sia di
nuovo riseminato e quella presenza che
Cristo vi realizzò vi sia di nuovo
proposta”.
Da allora con insistenza aveva chiesto
di poter venire quaggiù come fidei donum.
E io lo conobbi ad Istanbul, alla fine
del 2001 mentre insieme ci cimentavamo
nello studio del turco.
Vent’anni più grande di me, lo
studio per lui fu veramente faticoso, ma
non mollava: era troppo importante per
lui l’uso della lingua locale per poter
comunicare direttamente con la gente ed
entrare in sintonia con loro. Diceva: “Il
turco è una lingua molto difficile e io
sono l’ultimo della classe. Non so come
andrà a finire, ma “essere l’ultimo”
è comunque utile: aiuta a sentirsi
davvero ultimi, con un’umiltà reale e
quotidiana”. Anche a distanza di tempo
ammetteva: “La lingua continua ad
essere un’esperienza di povertà: dover
sempre imparare, poter dire solo un’infinitesima
parte di quello che si vorrebbe dire,
riparare i malintesi dovuti proprio alla
lingua e subito risanarli, oltre che con
le dovute scuse, anche con squisiti
cioccolatini italiani”, confessava con
il suo sorriso ironico. E poi proseguiva:
“Nel preparare le mie omelie ho
scoperto che la povertà della lingua mi
spinge all’essenzialità, la sua
novità mi fa cogliere meglio la novità
del Vangelo, la diversità degli uditori
(quasi tutti ex musulmani) mi costringe
ad andare al cuore dell’annuncio e me
ne mostra le insospettabili ricchezze”.
Volle andare ad Urfa, nel sud est
della Turchia, ai confini con la Siria,
dove rimase tre anni come presenza orante
e silenziosa, in quella città – patria
di Abramo – dove non si conta neppure
un cristiano. Eppure anche lì era
riuscito a farsi benvolere da tutti,
persino dall’imam della moschea vicina.
E così motivava il senso della sua
presenza lì: “Urfa (con Harran, il
villaggio di Abramo a circa 45 chilometri
dalla città) è per me sempre l’eco
delle parole dette da Dio ad Abramo: “Lascia
la tua terra, la tua patria, la casa di
tuo padre verso una terra che ti
indicherò… io ti benedirò e tu sarai
una benedizione per tutti i popoli della
terra”. Urfa – ci diceva – è la
“partenza” di ogni giorno. Urfa è
Dio che con una intelligenza, un potere e
un amore più grande del nostro ha i suoi
disegni su di noi e ci chiede
disponibilità. Urfa è la potenza di una
benedizione, di una gioia e di una
fecondità senza fine, di cui Dio si
rende garante. Urfa rimane la radice e la
bussola del nostro muoverci in Turchia e
in Medio Oriente”.
Continuerà a portarsi nel cuore
questa città, anche quando gli sarà
chiesto di spostarsi al nord, sul mar
Nero, a Trabzon, per essere parroco della
chiesa di santa Maria (fondata da tempi
antichi dai cappuccini), rimasta “sprovvista”
di un prete da più di tre anni.
Duecentomila abitanti, molte
moschee,
una chiesa, una piccola comunità
cattolica di circa 15 persone, una più
folta comunità ortodossa sparsa per la
città, un’emigrazione femminile dall’Est
dell’Europa, preda spesso della
prostituzione e dello sfruttamento, un
fiume di giovani musulmani che visitano
la chiesa. “Qui c’è un mondo caro a
Dio”, scriveva don Andrea appena
approdato a Trabzon, sulla sua “Finestra
per il Medio Oriente” lettera di
collegamento (che poi è diventata anche
un sito) da lui fondata “per
raccogliere da questa terra le grandi
ricchezze che Dio vi ha deposto e per
spedire da lì a qui le ricchezze che Dio
ha fatto maturare nei secoli. Un vero e
proprio scambio di doni umani,
spirituali, culturali e religiosi che
possono arricchire entrambi e contrastare
quello scambio di odio, di minacce e di
guerra che troppo spesso è all’orizzonte”.
Questo il suo obiettivo da sempre: “Aprire
una finestra che permettesse uno scambio
di doni tra la Chiesa cristiana
occidentale e quella orientale,
riscoprire il flusso di linfa che unisce
la radice ebraica e il tronco cristiano,
incoraggiare un dialogo sincero e
rispettoso tra il patrimonio cristiano e
il patrimonio musulmano, una
testimonianza del proprio vivere e
sentire. Attraverso anzitutto la
preghiera, l'approfondimento delle Sacre
Scritture, l'Eucaristia, la fraternità,
l'amicizia fatta di ascolto, di
accoglienza, di dialogo, di semplicità,
la testimonianza sincera del proprio
credere e del proprio vivere”.
Ormai la distanza geografica tra noi
si era fatta notevole – più di mille
chilometri tra l’estremo nord dove si
trovava lui e l’estremo sud della
Turchia dove mi trovo io – eppure,
appena poteva, continuava a partecipare
ai ritiri mensili organizzati dal
Vicariato dell’Anatolia per noi,
sparuto gruppetto di religiosi, religiose
e laici impegnati, sparpagliati in tutta
l’Anatolia, a servizio della Chiesa
locale.
Il Natale di due anni fa cominciò a
confidarci la sua preoccupazione per le
prostitute e il suo desiderio di fare
qualcosa per loro a Trabzon. “La prima
volta che passai davanti ad un locale
dove conosciamo bene le ragazze (quasi
tutte cristiane dell’Armenia) ci
invitarono ad entrare e a prendere un
tè. Con me c’era suor Maria con la
croce al collo. Dico che è una monaca.
Si parla dei loro figli, dei monasteri
che ci sono da loro, della vita difficile
nella loro terra… una di loro è
pediatra. Qualche giorno dopo, sempre
pregando, passeggiamo nella via
principale dello stesso quartiere. Una
signora che invitava i suoi clienti da un
vicolo laterale vede la croce al collo di
suor Maria e sbracciandosi ci viene
incontro. Bacia la croce e la mano della
suora, si fa il segno della croce e l’abbraccia,
chiedendole se ha bisogno di qualcosa. Il
protettore si avvicina un po’
infastidito, gli dico che la donna è
cristiana e che anche noi lo siamo. I
locali sono pieni di donne, spesso
giovanissime. Che fare? Lo chiedo ogni
giorno al Signore: che ci apra una porta,
chiami qualcuna di esse a cambiare vita e
ad aiutare le altre, tocchi il cuore di
qualche protettore, mandi qualcun altro a
collaborare con noi”.
Ho saputo dal vescovo che tempo
addietro don Andrea è stato persino in
Georgia per prendere contatti con la
Chiesa locale in aiuto a queste donne.
Una pista d’indagini sul suo omicidio
sospetta che il delitto sia legato alla
mafia implicata nel traffico di
prostitute cristiane provenienti da paesi
dell'ex Unione Sovietica.
Un’altra pista, invece, punta sulla
provocazione politico-religiosa,
sostenendo che l’intento degli
istigatori del delitto è stato quello di
provocare un conflitto tra la religione
islamica e quella cristiana, conflitto
attualmente immotivato e inesistente in
Turchia, ma esasperato un po’ in tutti
gli Stati islamici in seguito alle
vignette blasfeme pubblicate in Danimarca
Eppure, penso, una persona più
innocua e mansueta di don Andrea, dove
trovarla?
Ricordo ancora chiaramente le sue
parole l’ultima volta – due mesi fa -
che l’ho visto ad Iskenderun, nella
sede del Vicariato Apostolico dell’Anatolia.
Durante il nostro ritiro mensile si
parlava di Croce e lui non esitava a
dire: “Spesso mi chiedo perché sono
qui e allora mi viene in mente la frase
di Giovanni Battista: “E il Verbo si
fece carne e venne ad abitare in mezzo a
noi”. Sono qui per abitare in mezzo a
questa gente e permettere a Gesù di
farlo prestandogli la mia carne. In Medio
Oriente Satana si accanisce per
distruggere, con la memoria delle
origini, la fedeltà ad esse. Il Medio
Oriente deve essere riabitato come fu
abitato ieri da Gesù: con lunghi
silenzi, con umiltà e semplicità di
vita, con opere di fede, con miracoli di
carità, con la limpidezza inerme della
testimonianza, con il dono consapevole
della vita". Poi fece una lunga
pausa. Si tolse gli occhiali a mezza luna
tenuti sulla punta del naso, lasciandoli
penzolare al collo e con ancor più
serietà e pacatezza continuò parlando
quasi tra sé: “Mi convinco alla fine
che non si hanno due vie: c’è solo
quella che porta alla luce passando per
il buio, che porta alla vita facendo
assaporare l’amaro della morte. Si
diventa capaci di salvezza solo offrendo
la propria carne. Il male del mondo va
portato e il dolore va condiviso,
assorbendolo nella propria carne fino in
fondo come ha fatto Gesù”. Scese il
silenzio nella sala.
Non una parola di più, non una di
meno. Poi guardò l’orologio. Si alzò
di fretta, si scusò e prendendo la sua
piccola valigia uscì di corsa dalla
stanza. Non voleva rischiare di perdere l’aereo
per tornare il più in fretta possibile
nella “sua Trabzon”.
Era inginocchiato a pregare in chiesa
quando ieri un proiettile l’ha colpito
al cuore.
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[Fonte: AsiaNews 6 febbraio 2006]