Salutiamo con affetto e ci uniamo
cordialmente alla gioia di questi cinque
nostri Fratelli presbiteri che il Signore ha
chiamato ad essere successori degli
Apostoli: Mons. Gabriele Giordano Caccia,
Mons. Franco Coppola, Mons. Pietro Parolin,
Mons. Raffaello Martinelli e Mons. Giorgio
Corbellini. Sono grato a ciascuno di essi
per il fedele servizio che hanno reso alla
Chiesa lavorando in Segreteria di Stato o
nella Congregazione per la Dottrina della
Fede o nel Governatorato dello Stato della
Città del Vaticano, e sono certo che, con lo
stesso amore per Cristo e con il medesimo
zelo per le anime, svolgeranno nei nuovi
campi di azione pastorale il ministero che
oggi viene loro affidato con l’Ordinazione
episcopale.
Secondo la Tradizione apostolica, questo
Sacramento viene conferito mediante
l’imposizione delle mani e la preghiera.
L’imposizione delle mani si svolge in
silenzio. La parola umana ammutolisce.
L’anima si apre in silenzio per Dio, la cui
mano s’allunga verso l’uomo, lo prende per
sé e, al contempo, lo copre in modo da
proteggerlo, affinché in seguito egli sia
totalmente proprietà di Dio, gli appartenga
del tutto e introduca gli uomini nelle mani
di Dio. Ma, come secondo elemento
fondamentale dell’atto di consacrazione,
segue poi la preghiera.
L’Ordinazione episcopale è un evento di
preghiera. Nessun uomo può rendere un altro
sacerdote o vescovo. È il Signore stesso
che, attraverso la parola della preghiera e
il gesto dell’imposizione delle mani, assume
quell’uomo totalmente al suo servizio, lo
attira nel suo stesso Sacerdozio. Egli
stesso consacra gli eletti. Egli stesso,
l’unico Sommo Sacerdote, che ha offerto
l’unico sacrificio per tutti noi, gli
concede la partecipazione al suo Sacerdozio,
affinché la sua Parola e la sua opera siano
presenti in tutti i tempi.
Per questa connessione tra la preghiera e
l’agire di Cristo sull’uomo, la Chiesa nella
sua Liturgia ha sviluppato un segno
eloquente. Durante la preghiera di
Ordinazione si apre sul candidato l’Evangeliario,
il Libro della Parola di Dio. Il Vangelo
deve penetrare in lui, la Parola vivente di
Dio deve, per così dire, pervaderlo.
Il Vangelo, in fondo, non è solo parola –
Cristo stesso è il Vangelo. Con la Parola,
la stessa vita di Cristo deve pervadere
quell’uomo, così che egli diventi
interamente una cosa sola con Lui, che
Cristo viva in lui e dia alla sua vita forma
e contenuto. In questa maniera deve
realizzarsi in lui ciò che nelle letture
dell’odierna Liturgia appare come l’essenza
del ministero sacerdotale di Cristo.
Il consacrato deve essere colmato dello
Spirito di Dio e vivere a partire da Lui.
Deve portare ai poveri il lieto annunzio, la
vera libertà e la speranza che fa vivere
l’uomo e lo risana. Egli deve stabilire il
Sacerdozio di Cristo in mezzo agli uomini,
il Sacerdozio al modo di Melchisedek, cioè
il regno della giustizia e della pace. Come
i 72 discepoli mandati dal Signore, egli
deve essere uno che porta guarigione, che
aiuta a risanare la ferita interiore
dell’uomo, la sua lontananza da Dio.
Il primo ed essenziale bene di cui abbisogna
l’uomo è la vicinanza di Dio stesso. Il
regno di Dio, di cui si parla nel brano
evangelico di oggi, non è qualcosa "accanto"
a Dio, una qualche condizione del mondo: è
semplicemente la presenza di Dio stesso, che
è la forza veramente risanatrice.
Gesù ha riassunto tutti questi molteplici
aspetti del suo Sacerdozio nell’unica frase:
"Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi
servire, ma per servire e dare la propria
vita in riscatto per molti" (Mc 10, 45).
Servire e in ciò donare se stessi; essere
non per se stessi, ma per gli altri, da
parte di Dio e in vista di Dio: è questo il
nucleo più profondo della missione di Gesù
Cristo e, insieme, la vera essenza del suo
Sacerdozio.
Così, Egli ha reso il termine "servo" il suo
più alto titolo d’onore. Con ciò ha compiuto
un capovolgimento dei valori, ci ha donato
una nuova immagine di Dio e dell’uomo. Gesù
non viene come uno dei padroni di questo
mondo, ma Lui, che è il vero Padrone, viene
come servo. Il suo Sacerdozio non è dominio,
ma servizio: è questo il nuovo Sacerdozio di
Gesù Cristo al modo di Melchisedek.
San Paolo ha formulato l’essenza del
ministero apostolico e sacerdotale in
maniera molto chiara. Di fronte ai litigi,
che c’erano nella Chiesa di Corinto tra
correnti diverse che si riferivano ad
Apostoli diversi, egli domanda: Ma cosa è
mai un Apostolo? Cosa è mai Apollo? Che cosa
è Paolo? Sono servitori; ciascuno come il
Signore gli ha concesso (cfr 1 Cor 3, 5).
"Ognuno ci consideri come servi di Cristo e
amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò
che si richiede agli amministratori è che
ognuno risulti fedele" (1 Cor 4, 1s).
A Gerusalemme, nell’ultima settimana della
sua vita, Gesù stesso ha parlato in due
parabole di quei servi ai quali il Signore
affida i suoi beni nel tempo del mondo, e vi
ha rilevato tre caratteristiche del servire
nel modo giusto, nelle quali si concretizza
l’immagine del ministero sacerdotale.
Gettiamo infine ancora un breve sguardo su
queste caratteristiche, per contemplare, con
gli occhi di Gesù stesso, il compito che
voi, cari amici, siete chiamati ad assumere
in quest’ora.
La prima caratteristica, che il Signore
richiede dal servo, è la fedeltà.
Gli è stato affidato un grande bene, che non
gli appartiene. La Chiesa non è la Chiesa
nostra, ma la sua Chiesa, la Chiesa di Dio.
Il servo deve rendere conto di come ha
gestito il bene che gli è stato affidato.
Non leghiamo gli uomini a noi; non cerchiamo
potere, prestigio, stima per noi stessi.
Conduciamo gli uomini verso Gesù Cristo e
così verso il Dio vivente. Con ciò li
introduciamo nella verità e nella libertà,
che deriva dalla verità. La fedeltà è
altruismo, e proprio così è liberatrice per
il ministro stesso e per quanti gli sono
affidati. Sappiamo come le cose nella
società civile e, non di rado, anche nella
Chiesa soffrono per il fatto che molti di
coloro, ai quali è stata conferita una
responsabilità, lavorano per se stessi e non
per la comunità. Il Signore traccia con
poche linee un’immagine del servo malvagio,
il quale si mette a gozzovigliare e a
percuotere i dipendenti, tradendo così
l’essenza del suo incarico. In greco, la
parola che indica "fedeltà" coincide con
quella che indica "fede".
La fedeltà del servo di Gesù Cristo consiste
proprio anche nel fatto che egli non cerca
di adeguare la fede alle mode del tempo.
Solo Cristo ha parole di vita eterna, e
queste parole dobbiamo portare alla gente.
Esse sono il bene più prezioso che ci è
stato affidato. Una tale fedeltà non ha
niente di sterile e di statico; è creativa.
Il padrone rimprovera il servo, che aveva
nascosto sottoterra il bene consegnatogli
per evitare ogni rischio. Con questa
apparente fedeltà il servo ha in realtà
accantonato il bene del padrone, per potersi
dedicare esclusivamente ai propri affari.
Fedeltà non è paura, ma è ispirata
dall’amore e dal suo dinamismo. Il padrone
loda il servo, che ha fatto fruttificare i
suoi beni. La fede richiede di essere
trasmessa: non ci è stata consegnata
soltanto per noi stessi, per la personale
salvezza della nostra anima, ma per gli
altri, per questo mondo e per il nostro
tempo. Dobbiamo collocarla in questo mondo,
affinché diventi in esso una forza vivente;
per far aumentare in esso la presenza di
Dio.
La seconda caratteristica, che Gesù richiede
dal servo, è la prudenza.
Qui bisogna subito eliminare un malinteso.
La prudenza è una cosa diversa dall’astuzia.
Prudenza, secondo la tradizione filosofica
greca, è la prima delle virtù cardinali;
indica il primato della verità, che mediante
la "prudenza" diventa criterio del nostro
agire.
La prudenza esige la ragione umile,
disciplinata e vigilante, che non si lascia
abbagliare da pregiudizi; non giudica
secondo desideri e passioni, ma cerca la
verità – anche la verità scomoda. Prudenza
significa mettersi alla ricerca della verità
ed agire in modo ad essa conforme.
Il servo prudente è innanzitutto un uomo di
verità e un uomo dalla ragione sincera. Dio,
per mezzo di Gesù Cristo, ci ha spalancato
la finestra della verità che, di fronte alle
sole forze nostre, rimane spesso stretta e
soltanto in parte trasparente. Egli ci
mostra nella Sacra Scrittura e nella fede
della Chiesa la verità essenziale sull’uomo,
che imprime la direzione giusta al nostro
agire.
Così, la prima virtù cardinale del sacerdote
ministro di Gesù Cristo consiste nel
lasciarsi plasmare dalla verità che Cristo
ci mostra. In questa maniera diventiamo
uomini veramente ragionevoli, che giudicano
in base all’insieme e non a partire da
dettagli casuali.
Non ci lasciamo guidare dalla piccola
finestra della nostra personale astuzia, ma
dalla grande finestra, che Cristo ci ha
aperto sull’intera verità, guardiamo il
mondo e gli uomini e riconosciamo così che
cosa conta veramente nella vita.
La terza caratteristica di cui Gesù parla
nelle parabole del servo è la bontà: "Servo
buono e fedele … prendi parte alla gioia del
tuo padrone" (Mt 25, 21.23).
Ciò che s’intende con la caratteristica
della "bontà" può rendersi chiaro a noi, se
pensiamo all’incontro di Gesù con il giovane
ricco. Quest’uomo si era rivolto a Gesù
chiamandolo "Maestro buono" e ricevette la
risposta sorprendente: "Perché mi chiami
buono? Nessuno è buono se non Dio solo" (Mc
10, 17s).
Buono in senso pieno è solo Dio. Egli è il
Bene, il Buono per eccellenza, la Bontà in
persona. In una creatura – nell’uomo –
l’essere buono si basa pertanto
necessariamente su un profondo orientamento
interiore verso Dio. La bontà cresce con
l’unirsi interiormente al Dio vivente.
La bontà presuppone soprattutto una viva
comunione con Dio, una crescente unione
interiore con Lui. E di fatto: da chi altri
si potrebbe imparare la vera bontà se non da
Colui, che ci ha amato sino alla fine, sino
all’estremo (cfr Gv 13, 1)? Diventiamo servi
buoni mediante il nostro rapporto vivo con
Gesù Cristo. Solo se la nostra vita si
svolge nel dialogo con Lui, solo se il suo
essere, le sue caratteristiche penetrano in
noi e ci plasmano, possiamo diventare servi
veramente buoni.
Nel calendario della Chiesa si ricorda oggi
il Nome di Maria.
In Lei che era ed è totalmente unita al
Figlio, a Cristo, gli uomini nelle tenebre e
nelle sofferenze di questo mondo hanno
trovato il volto della Madre, che ci dà
coraggio per andare avanti. Nella tradizione
occidentale il nome "Maria" è stato tradotto
con "Stella del Mare". In ciò si esprime
proprio questa esperienza: quante volte la
storia in cui viviamo appare come un mare
buio che colpisce minacciosamente con le sue
onde la navicella della nostra vita.
Talvolta la notte sembra impenetrabile.
Spesso può crearsi l’impressione che solo il
male abbia potere e Dio sia infinitamente
lontano. Spesso intravvediamo solo da
lontano la grande Luce, Gesù Cristo che ha
vinto la morte e il male. Ma allora vediamo
molto vicina la luce che si accese, quando
Maria disse: "Ecco, sono la serva del
Signore". Vediamo la chiara luce della bontà
che emana da Lei. Nella bontà con cui Ella
ha accolto e sempre di nuovo viene incontro
alle grandi e alle piccole aspirazioni di
molti uomini, riconosciamo in maniera molto
umana la bontà di Dio stesso. Con la sua
bontà porta sempre nuovamente Gesù Cristo, e
così la grande Luce di Dio, nel mondo. Egli
ci ha dato la sua Madre come Madre nostra,
affinché impariamo da Lei a pronunciare il
"sì" che ci fa diventare buoni.
Cari amici, in questa ora preghiamo per voi
la Madre del Signore, perché vi conduca
sempre verso il suo Figlio, fonte di ogni
bontà. E preghiamo perché diventiate servi
fedeli, prudenti e buoni e così possiate un
giorno sentire dal Signore della storia la
parola: Servo buono e fedele, prendi parte
alla gioia del tuo padrone. Amen.