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Ratzinger
celebra presso FSSP, Wigratzbad aprile 1990
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Sia Benedetto il Signore e il Santo Padre, Benedetto XVI, per
aver fatto riemergere dal lungo oblìo la santa e divina Liturgia nel Rito Romano
detto Tridentino, o Gregoriano. Sono due anni che, grazie al
Motu proprio Summorum
Pontificum, in alcune chiese aumentano anime di ogni età che,
conoscendolo e partecipandovi, rendono a Dio il culto perfetto. Naturalmente
l’interesse e la partecipazione vengono favorite dalla presenza di un gruppo
stabile e quindi della celebrazione. È sintomatico il fatto che questo interesse
sia stato determinato, anche al di là dei gruppi preesistenti, proprio
dall’opportunità di conoscere e partecipare all’Antico Rito (‘antico’ sta qui,
latinamente, per ‘originario’, ‘dei primordi’, ossia Rito Perenne), per alcuni
ritrovato con gioia per altri scoperto come si scopre un tesoro, grazie alla sua
liberalizzazione piena.
L’attuale situazione fa registrare in molte diocesi l’assenza di
celebrazioni, non per mancanza di gruppi stabili e di sacerdoti che celebrino il
Rito di sempre, ma per la totale chiusura di vescovi, parroci o superiori di
Ordini religiosi che negano l’uso dell’Altare a fedeli bramosi di adorare al
massimo possibile e pastori disponibili, quand’anche essi per primi suscitatori
di tali santissimi fuochi. Tutto ciò, oltre a falsare, nel consuntivo da trarre,
l’effettiva richiesta dei fedeli, rende inoperante il fluire della grazia che
consentirebbe anche a molte altre persone di avvicinarsi con gioia e frutti
spirituali al Rito stesso, in virtù di una maggiore presenza (possibile nelle
risorse, ma non nella loro negata operatività) di celebrazioni anche nella Forma
cosiddetta Straordinaria. Infatti, lasciare – come viene suggerito – la
promozione della stessa all’iniziativa di singoli che sistematicamente trovano
ostacoli insormontabili negli assoluti divieti frapposti, di fatto significa
permettere sì una cosa santa, ma non promuoverla poi in nessun modo.
Rappresentiamo quindi la sentita necessità che venga paternamente
disposta, accanto al Rito cosiddetto Ordinario, ossia al Novus Ordo Missæ
imposto da Papa Paolo VI, una celebrazione domenicale in Vetus Ordo
almeno in ogni diocesi, nella località che risulti più ricettiva, mentre, a Roma
Caput Mundi, che ne vengano estese le celebrazioni domenicali presso le
quattro Basiliche e quella di S. Croce in Gerusalemme; il che risponderebbe,
oltre che al vivo desiderio di molti fedeli, ai quali non mancherebbero di
aggiungersene altri, come le esperienze in atto dimostrano, alla necessità
intrinseca, ontologica, sostanziale del Rito Gregoriano, di essere esso Fiamma
viva e perenne in atto, e non solo a parole, per quanto possano essere
auguste. La presenza della Parrocchia personale di S. Trinità dei Pellegrini è
una benedizione, ma essa – pur ben frequentata – non è facilmente raggiungibile
da tanti, giovani e anziani, che popolano una città estesa e dal traffico
intenso come Roma.
Inoltre, poiché non è possibile amare ciò che non si conosce, e
anche per consentire una frequentazione sempre più consapevole e partecipata, è
necessario promuovere il Rito Gregoriano anche attraverso iniziative mirate,
quali Conferenze e momenti formativi a cura dei gruppi stessi e dei loro
Sacerdoti o presso le stesse strutture in cui avvengono le celebrazioni, che
attualmente risentono di una presenza spesso strettamente limitata al momento
della celebrazione stessa, senza nessun altro 'spazio' di incontro e/o di
formazione o anche presso altre strutture individuabili nella Diocesi: Seminari,
Facoltà Teologiche, Corsi per catechisti, ecc. Altrimenti come si può pensare di
eliminare, sia pure gradualmente, il presente iato generazionale, che non è
soltanto un fatto culturale o Liturgico, ma anche Catechetico?
Per questo occorre parlare dell’Antico Rito: c’è infatti una
mistagogia propedeutica a quella celebrativa; il che certamente renderebbe
possibile anche rimuovere molti pesanti (e solo attuali) pregiudizi.
C’è inoltre un falso problema: quello del latino visto come
ostacolo. Il discorso appare pretestuoso, intanto perché alcuni giovani ancora
lo studiano, mentre è indubbio che chi non ha dimestichezza con i testi delle
sublimi intraducibili parti della veneranda Vetus Latina, l’acquista – e
abbastanza rapidamente – strada facendo: con la frequentazione; anche perché i
messali danno la duplice versione latino/italiano a fianco. Del resto potrebbero
supplire alla carenza attuale i momenti ‘formativi’ cui si è accennato sopra.
Inoltre basterebbe spiegare che nel Missale Romanum il titolo “Infra
Actionem” è sovrapposto al Communicantes del Canone: “tra l’azione”.
Il Canone quindi è una preghiera attuata più che recitata.
L’azione cui si riferisce è ovviamente il sacrificio, e poiché la santa Messa è
la attualizzazione hinc et nunc del sacrificio della Croce, in questo
senso la comprensione delle parole e della lingua che il sacerdote usa è
secondaria: si può partecipare all’offerta del sacrificio benissimo senza
sentire o capire le parole. Basta sapere che cosa sta facendo il sacerdote
all’altare. Crea sgomento quindi sentire persone, anche suore, affermare a
esempio: “A quella Messa non ho capito niente”. Viene da chiedersi: sanno cosa è
la Messa? Un esempio banale ma calzante: chi assiste a una partita di calcio non
ha bisogno di parole per partecipare... Qualche volta le parole diventano un
ostacolo più che un aiuto.
I nostri genitori sapevano che quando il sacerdote si inchina
sopra l’ostia e sopra il calice alla Consacrazione, recita le parole del Signore
– e non altro – e il miracolo si compie. Non pensavano che fosse necessario
udire le parole, che d’altra parte sono divine e basta sussurrarle perché
abbiano effetto. È un cedimento alla moderna mentalità positivista credere che
una cosa esista o abbia efficacia solo quando la si vede, la si ode, ecc. Il
sacerdote recita il Canone silenziosamente, sia per rispetto a Dio, perché anche
se agisce “in persona Christi” è sempre indegno di tanto onore e potere,
sia per lasciare spazio alla fede dei presenti, che in questo modo non sono
distratti né dal tono della voce, né dalla lingua, né da qualsiasi altro difetto
umano, e possano essere immersi nell’Adorazione, unico atteggiamento possibile e
aperto alla miracolosa trasformazione transustanziante operata dalla grazia in
un momento così alto e davvero “terribile”.
In genere le difficoltà sembrano accamparle i liturgisti che
aborrono il latino per partito preso. Piuttosto, perché non reintrodurlo nei
Seminari e nelle Facoltà pontificie, in quelle cioè in cui ancora non ci fosse?
Velle est posse.
È molto sofferta, da parte di noi tutti, la realtà di trovarci
rinchiusi in un ghetto, senza spirargli di comunicazione, mentre nella Chiesa,
sia come Corpo mistico di Cristo che come Popolo di Dio (di Cristo Dio),
dovrebbe trovarsi la pienezza della comunione perché essa è icona della ss.
Trinità, 'Luogo' di comunione e comunicazioni infinite vive e vitalizzanti, come
dovrebbero essere le nostre comunità, piccole o grandi che siano. Crediamo che
sia la qualità e non il numero a fare la differenza, qualità che poi è la
Presenza Reale nella Liturgia e nella Vita del Signore nato morto risorto e
asceso al cielo, nonché del suo Spirito ‘inviato’ alla Chiesa nella Pentecoste,
per noi e per la nostra salvezza e per quella dei molti che lo accolgono « A
quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli
che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da
volere di uomo, ma da Dio sono stati generati » (Gv, Prologo 12-13).
Ci coglie, doloroso, un interrogativo: come mai, nella
Chiesa, vengono ‘mandati’ a evangelizzare gruppi di ogni genere, mentre quelli
legati al Vetus Ordo vengono soffocati persino sul nascere?
12 ottobre 2009
(Maria Guarini)