Lefebvre, la modernità e la strana alleanza tra
atei e clerical-progressisti
Raffaele Iannuzzi
Premessa necessaria: parlare dei lefebvriani “rientrati” nella Chiesa non
significa affatto tematizzare direttamente ed unicamente la valenza della
Tradizione cattolica come tale, ma significa, piuttosto, criticare un certo
punto di vista sulla modernità.
Quale punto di vista? Quello reso dogma dal Concilio Vaticano II.
Con un “notabene”: il Vaticano II ha affrontato di petto una modernità pressoché
dissolta – avrebbe, almeno dovuto precisare: si tratta di affrontare una delle
tante possibili “modernità”, ma, così, sarebbe caduto il castello di carte
ideologicamente frapposto tra i teorici dello “spirito conciliare” e la realtà
-, un’idea di modernità consunta e finita, si badi, a detta dei grandi soloni
del Moderno, i più à la page di quel tempo, Foucault in testa: dunque, un
fantasma. Aperta parentesi: Foucault è quel filosofo che, durante la cosiddetta
“rivoluzione iraniana”, fatta da fondamentalisti e seguaci dell’Ayatollah
Khomeini, ha sostenuto questo nuovo modello giacobino-totalitario, in quanto
orfano della rivoluzione marxiano-occidentale mai realizzatasi: non so se rendo
l’idea del “tasso di modernità” di lorsignori! Chiusa parentesi. E a capo.
Dunque, l’operazione suddetta ha, di fatto, resuscitato questa putrescente
modernità – frutto di un perfetto distillato ideologico veteromarxista, da un
lato, e umanistico-atea, dall’altro, un sartrismo ammuffito, riveduto e poco
corretto -, riconsegnandole un’aura che aveva perso da più di un decennio,
almeno, forse più. Non è certamente casuale che la teologia della liberazione,
figlia bastarda del cosiddetto “spirito del Concilio” (amen!), sia stata un mix
reazionario di populismo terzomondista, anticipando Chavez, e marxismo
moraleggiante mal digerito, ovvero una sostanza assai poco fina ed interessante
e distante sideralmente dalla realtà. Per giunta, come sottolineato dal grande
Lucio Colletti e dal grande cattolico Del Noce, costruita di sana pianta nei
laboratori accademici delle università teologiche tedesche e, in parte,
olandesi. Dunque, il Vaticano II si è confrontato con un fantasma, ponendo,
questo è vero, un problema serio e grave, dal punto di vista mistico e
spirituale, ma di fronte ad interlocutori ingessati, finiti, dunque sbagliati.
Questo è il punto.
Ora, si dà il caso che il problema del Vaticano II consista proprio nella
Renovatio Ecclesiae, come correttamente intese il Card. Siri, che fondò appunto
un’importante rivista teologica e culturale, “Renovatio”.
La Renovatio Ecclesiae si fonda sull’idea della continuità della Tradizione
nella storia e, dunque, anche nella modernità; di conseguenza, il Vaticano II
non è stato l’unico Concilio della Chiesa, quasi che Trento non ci fosse mai
stato, ma è uno dei concili che la Chiesa ha celebrato, l’ultimo in ordine di
tempo e in grado di meritarsi il famoso “last, but not least”, nulla di più.
Nell’immaginario sociale, simbolico e collettivo, esso, invece, è diventato l’
“unico” Concilio, punto e basta. I cattolici si sono sentiti in dovere di
assoggettarsi allo “spirito conciliare” come al Verbo del Partito Unico, di
fatto si è trattato di una gigantesca e sicuramente ben riuscita operazione
ideologica. E, come tale, andrebbe trattata. Le ideologie, ricordiamolo, non
hanno storia, ciò vale anche quando la Chiesa ci mette lo zampino.
Siri ebbe intuizioni notevolissime e di grande impianto laico, cioè aperte al
popolo cristiano ed alla società (questo vuol dire, infatti, “laico”), ma vinse
il Minculpop clerical-progressista. E la storia, si sa, la scrivono i vincitori.
In ogni caso, richiamo un testo notevole dell’Arcivescovo di Genova, dedicato al
laicismo, diffuso (siamo nel 1960!) anche nel clero e, comunque, moltissimo
nella vita quotidiana, tra la gente comune. Gli ideologi si occupano delle
“classi sociali”, i Vescovi delle persone. Così fece, allora, Siri e la sua
lezione di metodo e teorico-pratica è ancora significativa. Ma così fece anche,
attenzione, anche l’allora Arcivescovo di Cracovia, in seguito divenuto Giovanni
Paolo II, con una sorta di manuale, scritto all’indomani del Vaticano II, per
istruire, appunto, ancora una volta, il popolo, il clero e i fedeli in genere.
Con questa visione del Concilio non siamo sulle barricate, ma nel solco della
ricerca di equilibrio, perduta da tempo nella modernità, tra la verità come
sostanziale portato di una storia comune e condivisa universalmente, e la
libertà di aderire ad essa da parte della persona. È un grande problema
epistemologico moderno e Andrea Riccardi lo pose a tema di un saggio fortunato
di alcuni anni fa, apprezzato da un Vescovo ortodosso e tosto come Maggiolini.
Dunque, con una visione di questa solidità, non esiste più una Chiesa
“pre-conciliare” ed una “post-conciliare”, ma esiste la Chiesa, l’unica Chiesa
nella continuità della Tradizione e della Verità di Cristo.
Il Card. Ratzinger del “Rapporto sulla fede” – anni Ottanta del secolo scorso –
affermò questa banale, ma non scontata verità e scoppiò un putiferio, sempre i
soliti clerical-progressisti, alla ricerca della coperta di Linus, lo “spirito
del Concilio”. Questa è una storia interna ad una certa idea di modernità e la
Tradizione cattolica è soltanto il pretesto per uno scontro ideologico in una
Chiesa ideologizzata fino al midollo. Questa è la verità. L’interlocutore
moderno oggi esiste meno di ieri, figuriamoci, ma la rabbia ideologica dei
clerical-progressisti è sempre al top, non mancano un’occasione per sparare
bordate che sbagliano il bersaglio. Perché, con questo straccio di modernità,
chiamata in mille forme, perfino “post” se stessa, ci sarebbe bisogno soltanto
di un balzo in avanti. Pena il suicidio della stessa modernità, dell’idea stessa
di una modernità veramente laica e direi anche libertaria (Dio volesse!). Il
fatto è che la modernità è tutt’altro che un relitto nichilistico e oggi è
ridotta a qualcosa di assolutamente penoso. Alla canna del gas, insieme, guarda
caso, alla sinistra, così apologeta di se stessa in quanto paladina della “vera”
modernità. Il partito radicale di massa: il clerical-progressismo è l’altra
faccia della luna, di fatto.
Allora, i lefebvriani richiamano questa continuità e provocano, di conseguenza,
la sfinità modernità ad essere se stessa, aperta all’alleanza fede-ragione e
tesa all’allargamento del concetto stesso di ragione (l’intera epistemologia
olistica moderna si è fatta carico di questa domanda).
L’ideologia clerical-progressista e quella laicista più rozza sono fatte per
intendersi: certi martiniani somigliano ai nipotini di Odifreddi, francamente,
tutti algidi, su questo non ci piove.
Una ragione fredda, senza passione, mira sempre a conquistare qualcosa e, per
conquistare qualcosa, di solito, si deve conquistare qualcuno, con le buone o
(più spesso, come ci insegna la storia), con le cattive. L’ultimo Colletti era
furiosamente contro questa stracca modernità e contro la Chiesa di Martini e di
Cacciari, oscillante tra il solidarismo astratto e l’ateismo, cioè un
cristianesimo senza Cristo, con un Dio biblico lassù o nel cuore dell’uomo, ma
sempre in attesa di qualcos’altro (il “dio debole”, infatti…). Perché un laicone
di razza come Colletti aveva capito tutto questo e i cattolici non gliela fanno?
Bella domanda. Certo è che, con tutti questi “dialoganti” in cerca di un Nemico,
i lefebvriani, bollati tout court come negazionisti perché un cretino lo è (e la
libertà?), finirà che qualcuno ci perderà le penne. Chi gioirà, come sempre,
saranno i meglio organizzati e, secondo Buttafuoco, i meglio in generale, gli
islamici, così pii da inginocchiarsi in massa di fronte al Duomo di Milano,
mentre bruciano le bandiere con l’accendino nascosto da qualche parte (magari
intima…). E sia, ce la siamo voluta? Chissà. Certo è che i lefebvriani sono
marginali, in questo caso, il vero casino sta nelle viscere della pseudo
modernità. Meditate, gente (di tutte le fedi e senza fede alcuna), meditate.
© Copyright L'Occidentale, 9 febbraio 2009