Il monastero sorge nel
luogo in cui, secondo la tradizione, Gesù avrebbe insegnato ai discepoli
a pregare. Nella contemplazione il silenzioso contributo alla pace
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«Anche
in questa situazione ci sono persone di buona volontà che nella
loro vita quotidiana annunciano la logica del perdono È la strada
per superare la tentazione più forte: quella della disperazione»
«Il pane quotidiano di cui c'è più bisogno si chiama speranza»
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Il silenzio della preghiera
a due passi dalla violenza. Probabilmente non c'è contrasto più
singolare per raccontare la situazione della Gerusalemme di oggi. Eppure,
forse, non c'è posto migliore di un chiostro per guardare davvero dentro
a questa Terra Santa senza pace. È il motivo per cui siamo saliti al
monastero delle carmelitane: non è l'unico convento di clausura della
Città Santa; ma c'è un fatto che lo rende particolarmente significativo:
sorge nel luogo in cui, secondo la tradizione, Gesù avrebbe insegnato ai
discepoli il Padre Nostro.
In qualche
modo, dunque, in questo angolo del Monte degli Ulivi un tempo
frequentatissimo, oggi semi-deserto, le quindici suore che qui vivono «custodiscono»
la preghiera che il Maestro ha lasciato ai suoi discepoli.
Due di loro mi aspettano in parlatorio: suor Elsbeth , un'americana di
Seattle a Gerusalemme dal 1976, e suor St. John, palestinese di Betlemme.
Ha 81 anni, sessanta dei quali trascorsi in clausura: «Entrai nel Carmelo
il giorno del mio ventunesimo compleanno - ricorda -. Dovetti scappare di
casa, perché la mia famiglia era greco-ortodossa, non voleva. Scelsi il
monastero per dedicare la vita alla preghiera per l'unità dei cristiani.
Vedevo ogni giorno i greci e i latini litigare alla basilica della Natività.
Da allora quanti passi abbiamo fatto». Proprio in quegli anni, però,
iniziava drammaticamente ad aprirsi l'altra ferita. «Mi ricordo quando
gli arabi uccisero gli ebrei a Hebron - continua l'anziana monaca -. La
mia casa era proprio sulla strada: mi sono rimaste negli occhi le immagini
dei morti e dei feriti che passavano nel loro viaggio verso Gerusalemme. E
quello non fu che l'inizio». Già. Una spirale di orrori senza fine.
Alcuni si sono consumati proprio in fondo alla strada che parte proprio
dalla valle qui sotto e si snoda fino a Hebron, Nablus, Ramallah. Ecco
allora la domanda: come si prega nel cuore di un conflitto?
La risposta non può che partire da quella preghiera. Perché le
parole di Gesù che di solito recitiamo con tanta tranquillità, oggi,
qui, suonano inevitabilmente come una provocazione. Padre nostro,
ad esempio: in una terra come questa si può ancora dire un noi che
non sia contrapposto a un loro? «È il cuore del problema - ci
dice suor Elsbeth -. Come cristiani noi preghiamo un Padre universale,
crediamo che egli abbracci insieme tutta l'umanità. Così noi preghiamo
per tutti i figli di Dio. Vediamo ebrei e musulmani come fratelli e
sorelle, in quanto esseri umani. Guardiamo a questa città in cui ci sono
entrambi i popoli; in cui ci sono i credenti e i non credenti. Pregare il
Padre Nostro è riaffermare questo suo significato universale. È il
nostro contributo: far risuonare la preghiera di Gesù per la pace e la
giustizia».
Dire sia santificato il Tuo nome, quando a una manciata di
chilometri da qui qualcuno uccide se stesso e gli altri pretendendo di
agire nel nome di Colui che chiamiamo Padre. «Gli estremisti ci sono da
tutte le parti - continua suor Elsbeth -. Ma quando sento certe notizie
terribili mi verrebbe da chiedere a queste persone: chi è Dio per te? Lo
conosci davvero? Hai un rapporto personale con Lui o stai semplicemente
usando il suo nome?». «L'odio - fa eco suor St. John - è entrato
talmente in profondità nei cuori che non riescono più a riconoscere il
vero volto di Dio. Mi chiedo sempre come sia possibile che i figli di
Abramo, i discendenti di Isacco e di Ismaele, siano sempre uno contro
l'altro. E così quando, pregando il Padre Nostro, mi fermo sulle parole
"sia santificato il tuo nome", mi viene da dire: almeno fa' che
gli uomini di questa terra possano comprendere chi sei. Perché Dio non è
guerra, ma amore. Ma questa idea oggi sembra lontana. E così non ci può
essere la pace. Però sono sicura - aggiunge dopo un attimo di pausa -: la
pace verrà. Quando, non lo so. Di certo io sarò morta. Ma la pace verrà».
Assomiglia tanto al Regno che il Padre Nostro annuncia. Dove sono i
suoi segni nella Terra Santa di oggi? «Quando chiedo ai miei parenti di
Betlemme perché i musulmani prendono in mano le armi - ribatte la monaca
palestinese -, loro mi rispondono: ci stanno distruggendo. Qual è il
piano di Dio? È una domanda cui non sappiamo rispondere. Ma non è una
novità: se leggiamo la Bibbia è sempre stato così». «Certo, i segni
oggi sembrerebbero andare in tutt'altra direzione - continua suor Elsbeth
-. Nei Territori la vita è difficile: niente lavoro, niente cibo, niente
scuole. Ma anche dall'altra parte: c'è la paura degli attentati, si entra
al supermercato col cuore in gola. Se viviamo in una situazione in cui la
gente così spesso ha le lacrime agli occhi, come si fa a credere che il
Regno verrà?
La nostra
vita è invisibile. Eppure è chiamata a tener viva la fede anche per
coloro che stanno là fuori. Perché non è facile aver fede se ti manca
il cibo o sperimenti tutte le altre prove. Quando preghiamo noi chiediamo
che in qualche modo, collettivamente, la pace entri nei loro cuori. Che
possano vedere che Dio è là, accanto a loro. Ma lo sappiamo, non è
affatto facile».
Come non è facile rimettere il debito quando un odio cieco ti ha
strappato via chi ti è più caro. «Di fronte a situazioni del genere
umanamente sperimenti l'impotenza - racconta la monaca americana -.
L'unica cosa che possiamo fare è mettere tutto nelle mani di Dio: la
nostra preghiera, i nostri piccoli gesti di prossimità. Prendere sulle
nostre spalle le sofferenze. Fare nostra la domanda angosciosa: chi può
risolvere questa situazione? Comprendendo che la santificazione della
nostra vita è santificazione di tutti. Anche in questa terra ci sono
persone di buona volontà che nella loro piccola testimonianza quotidiana
annunciano la logica del perdono. Sarà anche una goccia nell'oceano. Ma
è comunque qualcosa. Ed è importante».
È la strada per superare la tentazione più forte: quella della
disperazione. «È la molla che ha portato tanti musulmani a rinunciare
addirittura alla loro vita - commenta suor Elsbeth -. C'è troppa gente
che, realisticamente, non vede alcuna opportunità di futuro. E allora la
preghiera diventa: dona la speranza, Signore. È il pane quotidiano
di cui oggi hanno più bisogno». Non per chiudere gli occhi davanti alla
realtà, ma per guardare davvero in faccia il male. «La teologia
ce lo descrive come qualcosa che ci divide, ci separa - continua la
carmelitana -.
E mai come in
questo posto vediamo quanto sia vero. Il male è realmente qui. Ormai, in
questo Paese, sono le stesse circostanze a separare la gente. Anche
fisicamente. Non c'è più fiducia. Ma noi cristiani sappiamo che il male
è stato vinto. Crediamo che Dio è capace di trasformarlo in bene. Ogni
volta che diciamo il Padre Nostro lo riaffermiamo». Mi invitano a
recitarlo insieme, prima di salutarci. Forse è proprio nella Gerusalemme
spoglia e ferita di oggi che il Maestro ci insegna ancora a pregare.