Nel mese di giugno [2000, n.d.T.], il dipartimento di Stato, a Washington, ha
eliminato l’espressione Stato canaglia (1) dal suo linguaggio diplomatico, in
favore della categoria più generica di State of concern (Stato fonte d’inquietudine), al fine di avere una
flessibilità di manovra maggiore nelle relazioni con gli Stati così designati. Riservata a sette Paesi ben precisi (Corea
del Nord, Cuba, Iraq, Iran, Libia, Siria e Sudan), l’espressione rogue State, che si può tradurre come Stato
canaglia, Stato fuorilegge o anche Stato paria, designava Paesi che, secondo Washington, sostenevano il
terrorismo e, di conseguenza, erano sottoposti unilateralmente a sanzioni. La caratteristica più interessante di questo dibattito sugli « Stati
canaglia » è proprio il fatto che esso non ha mai avuto luogo, dato che le discussioni venivano evitate perché avrebbero
dovuto comunque far emergere l’evidente dovere per gli Stati Uniti e il Regno Unito di agire in conformità alle leggi e
ai trattati internazionali che hanno firmato.
Washington fece una lettura tutta sua di questo testo, che pure non
presentava alcuna ambiguità. Secondo l’ambasciatore americano presso le Nazioni Unite, l’accordo concluso « non
impediva l’uso della forza », e gli Stati Uniti mantenevano il diritto legale di attaccare Baghdad cuando fosse loro
sembrato opportuno. Richardson precisò: « I nostri bombardamenti possono essere di tre tipi : chirurgici, di precisione
o a tappeto. I bombardamenti chirurgici non saranno sufficienti. Prevediamo l’uso di bombardamenti di precisione ».
Clinton dichiarò dal canto suo che la risoluzione del Consiglio gli « conferiva autorità per agire » -
militarmente, precisò il suo addetto stampa - in caso di non rispetto degli impegno presi da parte dell’Iraq. All’interno
del Congresso vi erano degli eletti che consideravano questa posizione ufficiale ancora troppo rispettosa del diritto
nazionale e internazionale. Così, il repubblicano Trent Lott, leader della maggioranza al Senato, accusò il governo
Clinton di aver « ceduto » la propria politica estera « ad altri », vale a dire al Consiglio di Sicurezza.
Il suo collega democratico John Kerry, pur essendo stato un tempo una « colomba », aggiunse che l’invasione dell’Iraq
da parte degli Stati Uniti sarebbe stata « legittima » qualora Saddam Hussein si fosse « ostinato a violare le
risoluzioni dell’ONU ». Questa decisione della più alta autorità giudiziaria internazionale
sollevò un uragano di proteste negli Stati Uniti. La Corte fu accusata di essersi « screditata », e il suo fermo
non venne considerato degno di essere pubblicato. Ovviamente non ne fu tenuto conto, al contrario : il Congresso, a
maggioranza democratica, versò nuovi fondi per i terroristi del Contra. In una dichiarazione dell’aprile del 1986, il
segretario di Stato George Schultz aveva ben formulato la teoria americana in materia : « La parola negoziazione è un
eufemismo per capitolazione se l’ombra della grande potenza non è proiettata sul tavolo da gioco », spiegò
fustigando in blocco tutti coloro che preconizzavano « dei mezzi utopici, legalisti, come la mediazione di terzi, l’ONU
o la Corte dell’Aia, ignorando il ruolo della grande potenza nell’equazione ». Che cos’è, dunque, uno « Stato canaglia » ? L’idea che sottende a questa formulazione è che, anche se la guerra fredda (1947-1989) è finita, gli Stati Uniti conservano la responsabilità di proteggere il mondo. Ma da chi ? La « cospirazione monolitica e spietata » di John F. Kennedy e l’« impero del Male » caro a Ronald Reagan hanno fatto il loro tempo. Occorre trovare nuovi nemici (7). Sul fronte interno, la paura della criminalità - in particolare della droga
- è stata stimolata da « una serie di fattori che hanno poco o nulla a che vedere con la criminalità propriamente
detta ». Questa è la conclusione della Commissione Nazionale di giustizia contro la criminalità, che cita tanto il
comportamento dei media quanto « il modo in cui lo Stato e l’industria privata instillano la paura nei cittadini
sfruttando le tensioni razziali latenti a fini politici ». Questo rapporto resuscitava la « teoria del folle » di Richard Nixon : i nemici degli Stati Uniti devono comprendere di essere di fronte a degli svitati dal comportamento imprevedibile che dispongono di un enorme potenziale di distruzione. La paura li spingerà così a piegarsi alle volontà americane. Questo concetto era stato elaborato in Israele negli anni Cinquanta dal governo laburista, i cui dirigenti « incoraggiavano atti di follia », come ha scritto l’ex-primo ministro Moshe Sharett nel suo diario privato, ed era paradossalmente rivolto in parte proprio contro gli Stati Uniti, giudicati insufficientemente affidabili all’epoca. Ripresa a sua volta dall’unica superpotenza attuale, che si considera al di sopra di ogni legge e subisce ben poche pressioni da parte delle proprie élites, questa teoria costituisce - lo si ammetterà - un serio problema per il resto del mondo. Sin dagli inizi del governo Reagan, nel 1980, la Libia fu designata lo « Stato canaglia » per eccellenza. Vulnerabile e senza mezzi di difesa, questo Paese è in effetti un perfetto punching-ball. Nel 1986, ad esempio, il bombardamento di Tripoli da parte dell’aviazione americana è stato il primo nella Storia ad essere programmato per essere trasmesso in diretta televisiva in prima serata in modo che gli scribacchini del « Grande Comunicatore » Reagan potessero, sulla scia di quell’evento, mobilizzare l’opinione in favore degli attacchi terroristici condotti da Washington contro il Nicaragua. Il pretesto ? Il « superterrorista » Gheddafi aveva « inviato 400 milioni di dollari e un intero arsenale di armi a Managua per portare la guerra nel cuore degli Stati Uniti », i quali esercitavano il loro diritto di legittima difesa contro l’aggressione armata di uno « Stato canaglia » come il Nicaragua sandinista. Nel 1989, subito dopo la caduta del muro di Berlino, che mise fine alla minaccia sovietica, il governo di George Bush sottopose al Congresso la sua richiesta annuale di un gigantesco budget per il Pentagono : « Nella nuova era che si prospetta, l’impiego delle nostre forze probabilmente non riguarderà più l’Unione Sovietica, ma piuttosto, senza dubbio, il terzo mondo, nei confronti del quale si riveleranno certamente necessarie nuove capacità e nuovi modi di procedere ». Egli aggiunse che gli Stati Uniti avrebbero dovuto addestrare un numero considerevole di forze d’assalto, in particolare quelle destinate al Vicino Oriente, dove « le minacce ai nostri interessi », che esigono degli interventi militari diretti, « non possono essere attribuite al Cremlino », contrariamente, sia detto en passant, a una sequela infinita di controverità diffuse dalla propaganda americana per quarant’anni, oggi morte e sepolte. All’epoca, le minacce contro gli interessi americani non potevano essere attribuite nemmeno all’Iraq. Saddam Hussein, che combatteva allora la guerra contro l’Iran dell’imam Khomeiny, era un amico molto corteggiato da Washington e un partner commerciale. Ma il suo statuto sarebbe cambiato radicalmente alcuni mesi più tardi, nel luglio 1990, allorquando interpretò, a torto, l’acquiescenza americana a una ridefinizione dei confini con il Kuwait operata con la forza come un assegno in bianco per invadere tutto il Paese (9), vale a dire per non dare altro che quel che gli Stati Uniti avevano fatto in quel di Panama nel dicembre 1989. I parallelismi storici non sono però del tutto esatti. Mentre Washington si ritirò parzialmente da Panama dopo avevi insediato un governo fantoccio, un’ondata di proteste si abbatté su tutto l’emisfero, Panama compresa. Un’ondata di proteste che fece letteralmente il giro del mondo, obbligando Washington a porre il suo veto a due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e a pronunciarsi contro una risoluzione dell’Assemblea Generale che condannava « la violazione flagrante del diritto internazionale e dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale degli Stati » ed esigeva il ritiro da Panama « del corpo di spedizione americano ». Questi avvenimenti alimentarono la riflessione di analisti politici come Ronald Steel, il quale si interrogava sull’ « enigma » cui gli Stati Uniti si stavano confrontando : « Come nazione più potente del globo, vedono la loro libertà di impiegare la forza sottoposta a più costrizioni di quante non ne abbiano altri paesi ». A questo « enigma » si deve il successo temporaneo di Saddam Hussein in Kuwait, nell’agosto del 1990, in contrasto con l’incapacità di Washington di imporre la sua volontà a Panama. Prima dell’Iraq, la lista degli « Stati canaglia » era stata occupata dall’Iran e dalla Libia; nessun’altro Stato vi aveva mai figurato. L’Indonesia è un buon esempio di Stato che da nemico divenne amico allorquando il generale Suharto prese il potere nel 1965 dopo un bagno di sangue molto applaudito in Occidente (10). Suharto divenne rapidamente « un tipo come piace a noi » (« our kind of guy ») - per riprendere una formula del governo Clinton - commettendo omicidi e atrocità senza fine contro il suo stesso popolo. Nei soli anni 80, si contano 10.000 indonesiani uccisi dalle forze dell’ordine, secondo la testimonianza personale del dittatore, che spiegava candidamente che « ne lasciamo trascinare i cadaveri per compiere una sorta di terapia dello choc (11) ». Nel mese di dicembre del 1975, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva ingiunto all’Indonesia di ritirare « immediatamente » le sue truppe, che avevano invaso Timor Est, ex-colonia portoghese, e aveva chiesto a « tutti gli Stati di rispettare l’integrità territoriale di Timor Est, così come il diritto inalienabile all’autodeterminazione dei suoi abitanti ». Gli Stati Uniti risposero a questa decisione dell’ONU aumentando segretamente le loro forniture di armi agli aggressori. Nelle sue Memorie, Daniel Patrick Moynihan, all’epoca ambasciatore presso l’ONU, si dice fiero di aver reso le Nazioni Unite, nei confronti dell’Indonesia, « totalmente impotenti, in qualsiasi ambito prendessero delle misure ». E fece ciò su istruzione del Dipartimento di Stato, « che aveva espresso il desiderio che la situazione evolvesse nel senso in cui si è poi sviluppata, e operato perché le cose andassero così ». Nel pieno disprezzo di ogni interpretazione degli accordi internazionali, Washington accetterà tranquillamente il furto di petrolio timoriano (con la partecipazione di una compagnia americana), compiendo una palese trasgressione della legalità internazionale. L’analogia tra la situazione di Timor Est e quella del Kuwait è molto grande, ma vi sono anche delle differenze. Per citare solo la più evidente, le atrocità commesse dal regime indonesiano nell’isola di Timor con la benedizione americana superano di gran lunga quelle attribuite all’Iraq da parte dei suoi vicini (12). Ciò non ha tuttavia fatto sì che l’Indonesia apparisse nel palmarès degli « Stati canaglia » compilato da Washington. Un concetto molto flessibile Non sono i crimini di Saddam Hussein contro il suo stesso popolo - in maniera particolare l’utilizzo di armi chimiche, perfettamente noto ai servizi d’informazione americani, contro i civili - ad aver trasformato il dittatore nel “mostro di Baghdad”. Prima dell’invasione del Kuwait, gli Stati Uniti gli avevano mostrato un sostegno così forte da gettare un colpo di spugna su un attacco aereo iracheno contro la nave da guerra USS Stark (che fece 37 vittime tra i marinai americani), privilegio di cui solo Israele aveva sino ad allora beneficiato (all’epoca del suo attacco, “per errore”, all’USS Liberty, nel giugno 1964, che fece 34 morti). Essi avevano coordinato con Saddam Hussein la campagna diplomatica, militare ed economica che aveva condotto, nel 1989, alla capitolazione dell’Iran “di fronte a Baghdad e a Washington”, come scrive lo storico Dilip Hiro; essi avevano persino chiesto a Saddam Hussein quei piccoli servizi che normalmente vengono resi da uno Stato vassallo: ad esempio, farsi carico dell’addestramento di centinaia di mercenari libici reclutati dagli americani per rovesciare il colonnello Gheddafi, come ha rivelato un ex-consigliere di Reagan, Howard Teicher (13). Se Saddam Hussein è scivolato nel gruppo degli “Stati canaglia” è perché ha morso il freno e si è mostrato disobbediente, esattamente come un altro criminale di peso notevolmente minore, il generale panamense Manuel Noriega, i cui crimini maggiori furono commessi quando era al servizio - remunerato - di Washington. Cuba è stata classificata all’interno di questa categoria per la sua presunta implicazione col “terrorismo internazionale”, ma non è avvenuta la stessa cosa per gli Stati Uniti che per circa quarant’anni hanno moltiplicato gli attacchi terroristi contro l’isola caraibica e gli attentati contro Fidel Castro. Anche il Sudan è stato classificato come “Stato canaglia”, ma non gli Stati Uniti che vi hanno bombardato, nell’agosto del 1998, una presunta fabbrica di armi chimiche, che le autorità di Khartoum hanno successivamente dimostrato trattarsi di una industria farmaceutica (14). Si può così notare che il concetto di “Stato canaglia”, oggi
ufficialmente abbandonato, è stato particolarmente flessibile. In fondo, i criteri erano perfettamente chiari: uno “Stato
canaglia” non era semplicemente uno Stato criminale, era uno Stato che non si piegava agli ordini dei potenti, in
particolare degli Stati Uniti, essi stessi chiaramente al riparo da questa categorizzazione infamante. NOTE (1) L’espressione “Stato canaglia” “ha perso la sua ragion d’essere”, ha dichiarato il porta-parola del Dipartimento di Stato, Richard Boucher, poiché molti di quei Paesi hanno cambiato atteggiamento. Ma questo cambiamento di terminologia non ha alcun effetto sulle sanzioni contro gli Stati cui tale espressione si rivolgeva. Cfr. Le Monde, 21 giugno 2000. (2) Cfr. Alain Gresh, Muette agonie en Irak, Le Monde diplomatique, luglio 1999. (3) Cfr. Eric Rouleau, Scénario contrarié dans le Golfe, Le Monde diplomatique, marzo 1998. (4) Sull’attitudine degli Stati Uniti nei confronti dei sandinisti allora al potere a Managua, cfr. Ignacio Ramonet, La longue guerre occulte contre le Nicaragua, Le Monde diplomatique, febbraio 1987. (<http://www.monde-diplomatique.fr/imprimer/1930/552b24c78d>) (5) National Security Council 5 4292, Washington. (6) Si noterà che Robert McNamara, segretario di Stato americano alla difesa dal 1961 al 1968, ha recentemente stimato che gli stessi Stati Uniti, per la loro tendenza crescente ad agire in modo unilaterale e “senza rispetto per le preoccupazioni altrui”, erano divenuti uno “Stato canaglia”. Cfr. Flora Lewis, Some Learn Power’s Hard Lessons Better Than Others, The International Herald Tribune, 26 giugno 2000. (7) Cfr. Philip Bowring, Rogue States Are Overrated, International Herald Tribune, 6 giugno 2000. (8) Cfr. The Real War on Crime: the Report of the National Criminal Justice Commission (diretto da Steven Donziger), HarperCollins, New York, 1996. (9) Cfr. Pierre Salinger e Eric Laurent, Guerre du Golfe, le dossier secret, Olivier Orban, Parigi, 1990. (10) Cfr. Timor-Oriental, l’horreur et l’amnésie, Le Monde diplomatique, ottobre 1999. (11) Citato da Charles Glass, Prospect, Londra, 1998. (12) Cfr. Roland-Pierre Paringaux, Lourdes séquelles au Timor-Oriental, Le Monde diplomatique, maggio 2000. (13) The New York Times, 26 maggio 1993. (14) Cfr. Alain Gresh, Guerres saintes, Le Monde diplomatique, settembre 1998. ________________________ Traduzione dal francese di Antonio Marcantonio. |