stemmadistatousa.jpg (78796 byte) Washington al disopra del diritto internazionale
Gli Stati Uniti d’America, “Stato canaglia”
Di Noam Chomsky http://www.zmag.org/chomsky/index.cfm
professore al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, negli Stati Uniti.

Nel mese di giugno [2000, n.d.T.], il dipartimento di Stato, a Washington, ha eliminato l’espressione Stato canaglia (1) dal suo linguaggio diplomatico, in favore della categoria più generica di State of concern (Stato fonte d’inquietudine), al fine di avere una flessibilità di manovra maggiore nelle relazioni con gli Stati così designati. Riservata a sette Paesi ben precisi (Corea del Nord, Cuba, Iraq, Iran, Libia, Siria e Sudan), l’espressione rogue State, che si può tradurre come Stato canaglia, Stato fuorilegge o anche Stato paria, designava Paesi che, secondo Washington, sostenevano il terrorismo e, di conseguenza, erano sottoposti unilateralmente a sanzioni.

Il concetto di «Stato canaglia» o Stato fuorilegge ha giocato fino a questi ultimi tempi un ruolo primordiale nell’analisi e nella strategia politica americane. La crisi irachena, che dura da dieci anni esatti (l’invasione del Kuwait ad opera dell’Iraq risale al 1° agosto 1990), ne fornisce l’esempio più noto (2). Washington e Londra decretarono allora che l’Iraq era uno « Stato canaglia » che costituiva una minaccia per i suoi vicini e per gli altri Paesi, una « nazione fuorilegge » governata da una reincarnazione di Hitler che doveva essere tenuta sotto controllo dai guardiani dell’ordine internazionale: gli Stati Uniti e i loro vassalli britannici.

La caratteristica più interessante di questo dibattito sugli « Stati canaglia » è proprio il fatto che esso non ha mai avuto luogo, dato che le discussioni venivano evitate perché avrebbero dovuto comunque far emergere l’evidente dovere per gli Stati Uniti e il Regno Unito di agire in conformità alle leggi e ai trattati internazionali che hanno firmato.

Il quadro giuridico di riferimento è la Carta delle Nazioni Unite, che è il fondamento del diritto internazionale, e - per gli Stati Uniti - la Costituzione americana. La Carta sancisce che, « una volta constatata l’esigenza di una minaccia contro la pace, di una rottura della pace o di un atto di aggressione, il Consiglio di sicurezza può decidere quali misure che non implichino l’impiego delle forze armate debbano essere prese. Se tali misure si rivelano inadeguate, il Consiglio può intraprendere ogni azione che giudichi necessaria al mantenimento o alla restaurazione della pace e della sicurezza internazionali ».

L’unica eccezione ammessa figura nell’articolo 51 : « Nessuna disposizione della presente Carta attenta al diritto naturale di esercitare la legittima difesa, individuale o collettiva, nel caso in cui un membro delle Nazioni Unite sia l’oggetto di un’aggressione armata, finché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionali ».

Esistono quindi dei modi di procedere legittimi per far fronte alle numerose minacce che pesano sulla pace mondiale, e nessuno Stato ha l’autorità di agire a suo piacimento per mezzo di misure unilaterali. Gli Stati Uniti e il Regno Unito non costituiscono un’eccezione a questa regola, anche qualora non avessero la coscienza sporca, ciò che è ben lontano dall’essere la verità. Né gli « Stati canaglia », per esempio l’Iraq di Saddam Hussein, né gli Stati Uniti accettano queste restrizioni. Così, all’epoca di un primo confronto contro l’Iraq, Madeleine Albright, l’attuale segretario di Stato, e allora ambasciatrice presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), non ha provato alcun imbarazzo nel dichiarare al Consiglio di sicurezza : « Agiremo multilateralmente quando potremo, unilateralmente quando lo riterremo necessario », poiché «consideriamo questa regione del Medio Oriente di importanza vitale per gli interessi nazionali degli Stati Uniti».


« Quando, dove e come decidono »


La Albright ha ribadito questa posizione nel febbraio 1998, proprio nel periodo in cui Kofi Annan, segretario generale dell’ONU, intraprendeva una missione diplomatica a Baghdad : « Gli auguriamo buona fortuna e, al suo ritorno, vedremo se quanto ci riferirà sarà compatibile coi nostri interessi nazionali ». Quando Annan annunciò che era stato raggiunto un accordo con Saddam Hussein, il presidente William Clinton, da parte sua, dichiarò che qualora l’Iraq non vi si fosse conformato - e Washington sarebbe stata il solo giudice in materia - « tutti capiranno che gli Stati Uniti e, c’è da sperarlo, tutti i nostri alleati, avranno il diritto unilaterale di replicare quando, dove e come essi decideranno ». Il Consiglio di sicurezza dell’ONU approvò all’unanimità l’accordo firmato da Annan e respinse la pretesa di Londra e di Washington di essere autorizzate a fare uso della forza quando non fosse previsto. Nel caso in cui l’Iraq si fosse mostrato inadempiente, si sarebbe comunque esposto « alle più gravi conseguenze », indicava - in maniera un po’ vaga - la risoluzione del Consiglio, che decise di rimanere riunito in permanenza. In base ai termini della Carta delle Nazioni Unite, spettava proprio al Consiglio di Sicurezza - e solo ad esso - gestire la situazione (3).

Washington fece una lettura tutta sua di questo testo, che pure non presentava alcuna ambiguità. Secondo l’ambasciatore americano presso le Nazioni Unite, l’accordo concluso « non impediva l’uso della forza », e gli Stati Uniti mantenevano il diritto legale di attaccare Baghdad cuando fosse loro sembrato opportuno. Richardson precisò: « I nostri bombardamenti possono essere di tre tipi : chirurgici, di precisione o a tappeto. I bombardamenti chirurgici non saranno sufficienti. Prevediamo l’uso di bombardamenti di precisione ». Clinton dichiarò dal canto suo che la risoluzione del Consiglio gli « conferiva autorità per agire » - militarmente, precisò il suo addetto stampa - in caso di non rispetto degli impegno presi da parte dell’Iraq. All’interno del Congresso vi erano degli eletti che consideravano questa posizione ufficiale ancora troppo rispettosa del diritto nazionale e internazionale. Così, il repubblicano Trent Lott, leader della maggioranza al Senato, accusò il governo Clinton di aver « ceduto » la propria politica estera « ad altri », vale a dire al Consiglio di Sicurezza. Il suo collega democratico John Kerry, pur essendo stato un tempo una « colomba », aggiunse che l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti sarebbe stata « legittima » qualora Saddam Hussein si fosse « ostinato a violare le risoluzioni dell’ONU ».

Il disprezzo del primato del diritto è profondamente radicato nella cultura intellettuale e nella prassi americane. Basti ricordare, tra gli altri esempi, la reazione di Washington al fermo della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia nel 1986. Si ricorderà che gli Stati Uniti furono condannati per « uso illegale della forza » contro il Nicaragua sandinista e costretti a porre fine alle loro attività clandestine a favore degli antisandinisti del Contra e a versare delle riparazioni al governo legittimo di Managua (4).

Questa decisione della più alta autorità giudiziaria internazionale sollevò un uragano di proteste negli Stati Uniti. La Corte fu accusata di essersi « screditata », e il suo fermo non venne considerato degno di essere pubblicato. Ovviamente non ne fu tenuto conto, al contrario : il Congresso, a maggioranza democratica, versò nuovi fondi per i terroristi del Contra. In una dichiarazione dell’aprile del 1986, il segretario di Stato George Schultz aveva ben formulato la teoria americana in materia : « La parola negoziazione è un eufemismo per capitolazione se l’ombra della grande potenza non è proiettata sul tavolo da gioco », spiegò fustigando in blocco tutti coloro che preconizzavano « dei mezzi utopici, legalisti, come la mediazione di terzi, l’ONU o la Corte dell’Aia, ignorando il ruolo della grande potenza nell’equazione ».

L’ostentato disprezzo dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite è particolarmente indicativo. Se ne ha avuto un esempio lampante dopo gli accordi del 1954 che posero fine alla prima guerra d’Indocina condotta dalla Francia : essi furono considerati « un disastro » da Washington, che tentò immediatamente di sabotarli : il Consiglio Nazionale di Sicurezza decise segretamente che « in caso di ribellioni o di sovversioni comuniste locali che non consistano di attacchi armati » gli Stati Uniti avrebbero optato per l’uso della forza, se necessario anche contro la Cina qualora essa fosse identificata come « la fonte della sovversione ». Lo stesso documento prevedeva la rimilitarizzazione del Giappone e la trasformazione della Tailandia in un « punto focale di operazioni clandestine e di guerra psicologica nell’Asia del Sud-Est (5) », in modo particolare in Indocina, vale a dire in Vietnam. Successivamente il governo americano fornì la sua definizione del concetto di aggressione includendovi « la lotta politica o la sovversione » - sottinteso : esclusa quella da esso stesso portata avanti. Si trattava di ciò che Adlai Stevenson, democratico, definiva una « aggressione interna », giustificando la politica del presidente John Kennedy che si apprestava a condurre un attacco massiccio nel Sud della penisola, e infine alla lunga guerra del Vietnam (6).

Per giustificare di fronte al Consiglio di Sicurezza l’invasione di Panama da parte delle truppe americane nel dicembre 1989, l’ambasciatore Thomas Pickering invocò l’articolo 51 dell’ONU : si trattava, secondo lui, di impedire che il territorio di quel Paese fosse « utilizzato come base per il traffico di droga diretto verso gli Stati Uniti ». Nessun opinionista « illuminato » trovò qualcosa da ridire contro questa interpretazione.

Nel mese di giugno 1993, il presidente Clinton raccolse un grande successo presso il Congresso e sulla stampa dopo aver ordinato un attacco missilistico contro l’Iraq, che provocò numerose vittime civili. I commentatori furono colpiti particolarmente dal riferimento al famoso articolo 51 fatto dalla Albright : i bombardamenti costituivano, disse, « un atto di legittima difesa contro un attacco armato », nella fattispecie un presunto tentato omicidio del vecchio presidente George Bush due mesi prima ! Alcuni responsabili dell’amministrazione, esprimendosi anonimamente, informarono i giornalisti che « il giudizio di colpevolezza dell’Iraq era fondato su prove e analisi fattuali più che su informazioni certe », il che non impedì alla stampa di lodare unanimemente l’utilizzazione del famoso articolo 51. Alla Camera dei Comuni del Regno Unito, anche il segretario agli esteri, Douglas Hurd, difese questo « esercizio giustificato e misurato del diritto alla legittima difesa ».

Un tale bilancio tende a dar ragione a quanti, in tutto il mondo, si preoccupano dell’esistenza di « Stati canaglia » determinati a fare uso della forza in nome di un « interesse nazionale » definito solamente dai giochi di politica interna e - ciò che è ancora più inquietante - dell’esistenza di « Stati canaglia » che si ergono a giudici e giustizieri su scala planetaria (vedi l’articolo di Eduardo Galeano, pag. 12).

Che cos’è, dunque, uno « Stato canaglia » ? L’idea che sottende a questa formulazione è che, anche se la guerra fredda (1947-1989) è finita, gli Stati Uniti conservano la responsabilità di proteggere il mondo. Ma da chi ? La « cospirazione monolitica e spietata » di John F. Kennedy e l’« impero del Male » caro a Ronald Reagan hanno fatto il loro tempo. Occorre trovare nuovi nemici (7).

Sul fronte interno, la paura della criminalità - in particolare della droga - è stata stimolata da « una serie di fattori che hanno poco o nulla a che vedere con la criminalità propriamente detta ». Questa è la conclusione della Commissione Nazionale di giustizia contro la criminalità, che cita tanto il comportamento dei media quanto « il modo in cui lo Stato e l’industria privata instillano la paura nei cittadini sfruttando le tensioni razziali latenti a fini politici ».

E sottolinea il partito preso di matrice razzista della polizia e della magistratura, che ghettizzano le comunità di colore e creano un « abisso razziale » che fa correre al Paese « il rischio di una catastrofe sociale ». Alcuni criminologi hanno parlato a questo proposito di « Gulag americano », di « nuovo apartheid » : per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, vi è una popolazione carcerale di circa due milioni (!) di detenuti a maggioranza afroamericana. Il tasso di incarcerazione dei Neri è di sette volte superiore a quello dei Bianchi, e quello degli arresti ha dimensioni esorbitanti che colpiscono i Neri in proporzioni che non hanno alcuna relazione effettiva con le cifre reali dell’uso o del traffico di stupefacenti (8).

All’estero, vengono presentati come pericoli il « terrorismo internazionale », i « narcotrafficanti ispanici » e, il più grande di tutti, gli « Stati canaglia ». Uno studio segreto del 1995 reso pubblico recentemente grazie alla legge sulla libertà d’informazione, forniva una bozza delle grandi linee di approccio strategico all’alba del nuovo millennio. Diretto dallo Strategic Command, che ha la responsabilità sull’arsenale nucleare strategico, e intitolato Essentials of Post-Cold War Deterrence (« Principi di base di deterrenza nel dopo-guerra fredda »), questo studio mostra, secondo l’agenzia Associated Press, « in che modo gli Stati Uniti hanno cambiato la loro strategia di dissuasione rimpiazzando l’Unione Sovietica con i dati cosiddetti “canaglia” o “fuorilegge” : Irak, Iran, Libia, Siria, Sudan, Cuba e Corea del Nord ». Esso raccomanda che gli Stati Uniti sfruttino il loro potenziale nucleare per dare un immagine « irrazionale » e « vendicativa » di sé qualora i loro interessi vitali fossero minacciati : « È controproducente mostrarci persone ragionevoli, razionali e piene di sangue freddo », e, peggio ancora, rispettose di cose così infantili e risibili come il diritto e i trattati internazionali. « Il fatto che certi elementi » del governo federale « possano apparire potenzialmente folli, impossibili da controllare, può contribuire a creare o a rinforzare i timori e le apprensioni negli animi dei nostri avversari ».

Questo rapporto resuscitava la « teoria del folle » di Richard Nixon : i nemici degli Stati Uniti devono comprendere di essere di fronte a degli svitati dal comportamento imprevedibile che dispongono di un enorme potenziale di distruzione. La paura li spingerà così a piegarsi alle volontà americane. Questo concetto era stato elaborato in Israele negli anni Cinquanta dal governo laburista, i cui dirigenti « incoraggiavano atti di follia », come ha scritto l’ex-primo ministro Moshe Sharett nel suo diario privato, ed era paradossalmente rivolto in parte proprio contro gli Stati Uniti, giudicati insufficientemente affidabili all’epoca. Ripresa a sua volta dall’unica superpotenza attuale, che si considera al di sopra di ogni legge e subisce ben poche pressioni da parte delle proprie élites, questa teoria costituisce - lo si ammetterà - un serio problema per il resto del mondo.

Sin dagli inizi del governo Reagan, nel 1980, la Libia fu designata lo « Stato canaglia » per eccellenza. Vulnerabile e senza mezzi di difesa, questo Paese è in effetti un perfetto punching-ball. Nel 1986, ad esempio, il bombardamento di Tripoli da parte dell’aviazione americana è stato il primo nella Storia ad essere programmato per essere trasmesso in diretta televisiva in prima serata in modo che gli scribacchini del « Grande Comunicatore » Reagan potessero, sulla scia di quell’evento, mobilizzare l’opinione in favore degli attacchi terroristici condotti da Washington contro il Nicaragua. Il pretesto ? Il « superterrorista » Gheddafi aveva « inviato 400 milioni di dollari e un intero arsenale di armi a Managua per portare la guerra nel cuore degli Stati Uniti », i quali esercitavano il loro diritto di legittima difesa contro l’aggressione armata di uno « Stato canaglia » come il Nicaragua sandinista.

Nel 1989, subito dopo la caduta del muro di Berlino, che mise fine alla minaccia sovietica, il governo di George Bush sottopose al Congresso la sua richiesta annuale di un gigantesco budget per il Pentagono : « Nella nuova era che si prospetta, l’impiego delle nostre forze probabilmente non riguarderà più l’Unione Sovietica, ma piuttosto, senza dubbio, il terzo mondo, nei confronti del quale si riveleranno certamente necessarie nuove capacità e nuovi modi di procedere ». Egli aggiunse che gli Stati Uniti avrebbero dovuto addestrare un numero considerevole di forze d’assalto, in particolare quelle destinate al Vicino Oriente, dove « le minacce ai nostri interessi », che esigono degli interventi militari diretti, « non possono essere attribuite al Cremlino », contrariamente, sia detto en passant, a una sequela infinita di controverità diffuse dalla propaganda americana per quarant’anni, oggi morte e sepolte.

All’epoca, le minacce contro gli interessi americani non potevano essere attribuite nemmeno all’Iraq. Saddam Hussein, che combatteva allora la guerra contro l’Iran dell’imam Khomeiny, era un amico molto corteggiato da Washington e un partner commerciale. Ma il suo statuto sarebbe cambiato radicalmente alcuni mesi più tardi, nel luglio 1990, allorquando interpretò, a torto, l’acquiescenza americana a una ridefinizione dei confini con il Kuwait operata con la forza come un assegno in bianco per invadere tutto il Paese (9), vale a dire per non dare altro che quel che gli Stati Uniti avevano fatto in quel di Panama nel dicembre 1989.

I parallelismi storici non sono però del tutto esatti. Mentre Washington si ritirò parzialmente da Panama dopo avevi insediato un governo fantoccio, un’ondata di proteste si abbatté su tutto l’emisfero, Panama compresa. Un’ondata di proteste che fece letteralmente il giro del mondo, obbligando Washington a porre il suo veto a due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e a pronunciarsi contro una risoluzione dell’Assemblea Generale che condannava « la violazione flagrante del diritto internazionale e dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale degli Stati » ed esigeva il ritiro da Panama « del corpo di spedizione americano ».

Questi avvenimenti alimentarono la riflessione di analisti politici come Ronald Steel, il quale si interrogava sull’ « enigma » cui gli Stati Uniti si stavano confrontando : « Come nazione più potente del globo, vedono la loro libertà di impiegare la forza sottoposta a più costrizioni di quante non ne abbiano altri paesi ». A questo « enigma » si deve il successo temporaneo di Saddam Hussein in Kuwait, nell’agosto del 1990, in contrasto con l’incapacità di Washington di imporre la sua volontà a Panama.

Prima dell’Iraq, la lista degli « Stati canaglia » era stata occupata dall’Iran e dalla Libia; nessun’altro Stato vi aveva mai figurato. L’Indonesia è un buon esempio di Stato che da nemico divenne amico allorquando il generale Suharto prese il potere nel 1965 dopo un bagno di sangue molto applaudito in Occidente (10). Suharto divenne rapidamente « un tipo come piace a noi » (« our kind of guy ») - per riprendere una formula del governo Clinton - commettendo omicidi e atrocità senza fine contro il suo stesso popolo. Nei soli anni 80, si contano 10.000 indonesiani uccisi dalle forze dell’ordine, secondo la testimonianza personale del dittatore, che spiegava candidamente che « ne lasciamo trascinare i cadaveri per compiere una sorta di terapia dello choc (11) ».

Nel mese di dicembre del 1975, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva ingiunto all’Indonesia di ritirare « immediatamente » le sue truppe, che avevano invaso Timor Est, ex-colonia portoghese, e aveva chiesto a « tutti gli Stati di rispettare l’integrità territoriale di Timor Est, così come il diritto inalienabile all’autodeterminazione dei suoi abitanti ». Gli Stati Uniti risposero a questa decisione dell’ONU aumentando segretamente le loro forniture di armi agli aggressori.

Nelle sue Memorie, Daniel Patrick Moynihan, all’epoca ambasciatore presso l’ONU, si dice fiero di aver reso le Nazioni Unite, nei confronti dell’Indonesia, « totalmente impotenti, in qualsiasi ambito prendessero delle misure ». E fece ciò su istruzione del Dipartimento di Stato, « che aveva espresso il desiderio che la situazione evolvesse nel senso in cui si è poi sviluppata, e operato perché le cose andassero così ». Nel pieno disprezzo di ogni interpretazione degli accordi internazionali, Washington accetterà tranquillamente il furto di petrolio timoriano (con la partecipazione di una compagnia americana), compiendo una palese trasgressione della legalità internazionale.

L’analogia tra la situazione di Timor Est e quella del Kuwait è molto grande, ma vi sono anche delle differenze. Per citare solo la più evidente, le atrocità commesse dal regime indonesiano nell’isola di Timor con la benedizione americana superano di gran lunga quelle attribuite all’Iraq da parte dei suoi vicini (12). Ciò non ha tuttavia fatto sì che l’Indonesia apparisse nel palmarès degli « Stati canaglia » compilato da Washington.

Un concetto molto flessibile

Non sono i crimini di Saddam Hussein contro il suo stesso popolo - in maniera particolare l’utilizzo di armi chimiche, perfettamente noto ai servizi d’informazione americani, contro i civili - ad aver trasformato il dittatore nel “mostro di Baghdad”. Prima dell’invasione del Kuwait, gli Stati Uniti gli avevano mostrato un sostegno così forte da gettare un colpo di spugna su un attacco aereo iracheno contro la nave da guerra USS Stark (che fece 37 vittime tra i marinai americani), privilegio di cui solo Israele aveva sino ad allora beneficiato (all’epoca del suo attacco, “per errore”, all’USS Liberty, nel giugno 1964, che fece 34 morti). Essi avevano coordinato con Saddam Hussein la campagna diplomatica, militare ed economica che aveva condotto, nel 1989, alla capitolazione dell’Iran “di fronte a Baghdad e a Washington”, come scrive lo storico Dilip Hiro; essi avevano persino chiesto a Saddam Hussein quei piccoli servizi che normalmente vengono resi da uno Stato vassallo: ad esempio, farsi carico dell’addestramento di centinaia di mercenari libici reclutati dagli americani per rovesciare il colonnello Gheddafi, come ha rivelato un ex-consigliere di Reagan, Howard Teicher (13).

Se Saddam Hussein è scivolato nel gruppo degli “Stati canaglia” è perché ha morso il freno e si è mostrato disobbediente, esattamente come un altro criminale di peso notevolmente minore, il generale panamense Manuel Noriega, i cui crimini maggiori furono commessi quando era al servizio - remunerato - di Washington. Cuba è stata classificata all’interno di questa categoria per la sua presunta implicazione col “terrorismo internazionale”, ma non è avvenuta la stessa cosa per gli Stati Uniti che per circa quarant’anni hanno moltiplicato gli attacchi terroristi contro l’isola caraibica e gli attentati contro Fidel Castro. Anche il Sudan è stato classificato come “Stato canaglia”, ma non gli Stati Uniti che vi hanno bombardato, nell’agosto del 1998, una presunta fabbrica di armi chimiche, che le autorità di Khartoum hanno successivamente dimostrato trattarsi di una industria farmaceutica (14).

Si può così notare che il concetto di “Stato canaglia”, oggi ufficialmente abbandonato, è stato particolarmente flessibile. In fondo, i criteri erano perfettamente chiari: uno “Stato canaglia” non era semplicemente uno Stato criminale, era uno Stato che non si piegava agli ordini dei potenti, in particolare degli Stati Uniti, essi stessi chiaramente al riparo da questa categorizzazione infamante.
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NOTE

(1) L’espressione “Stato canaglia” “ha perso la sua ragion d’essere”, ha dichiarato il porta-parola del Dipartimento di Stato, Richard Boucher, poiché molti di quei Paesi hanno cambiato atteggiamento. Ma questo cambiamento di terminologia non ha alcun effetto sulle sanzioni contro gli Stati cui tale espressione si rivolgeva. Cfr. Le Monde, 21 giugno 2000.

(2) Cfr. Alain Gresh, Muette agonie en Irak, Le Monde diplomatique, luglio 1999.

(3) Cfr. Eric Rouleau, Scénario contrarié dans le Golfe, Le Monde diplomatique, marzo 1998.

(4) Sull’attitudine degli Stati Uniti nei confronti dei sandinisti allora al potere a Managua, cfr. Ignacio Ramonet, La longue guerre occulte contre le Nicaragua, Le Monde diplomatique, febbraio 1987. (<http://www.monde-diplomatique.fr/imprimer/1930/552b24c78d>) 

(5) National Security Council 5 4292, Washington.

(6) Si noterà che Robert McNamara, segretario di Stato americano alla difesa dal 1961 al 1968, ha recentemente stimato che gli stessi Stati Uniti, per la loro tendenza crescente ad agire in modo unilaterale e “senza rispetto per le preoccupazioni altrui”, erano divenuti uno “Stato canaglia”. Cfr. Flora Lewis, Some Learn Power’s Hard Lessons Better Than Others, The International Herald Tribune, 26 giugno 2000.

(7) Cfr. Philip Bowring, Rogue States Are Overrated, International Herald Tribune, 6 giugno 2000.

(8) Cfr. The Real War on Crime: the Report of the National Criminal Justice Commission (diretto da Steven Donziger), HarperCollins, New York, 1996.

(9) Cfr. Pierre Salinger e Eric Laurent, Guerre du Golfe, le dossier secret, Olivier Orban, Parigi, 1990.

(10) Cfr. Timor-Oriental, l’horreur et l’amnésie, Le Monde diplomatique, ottobre 1999.

(11) Citato da Charles Glass, Prospect, Londra, 1998.

(12) Cfr. Roland-Pierre Paringaux, Lourdes séquelles au Timor-Oriental, Le Monde diplomatique, maggio 2000.

(13) The New York Times, 26 maggio 1993.

(14) Cfr. Alain Gresh, Guerres saintes, Le Monde diplomatique, settembre 1998.

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Articolo apparso sul numero di agosto 2000 di "Le Monde Diplomatique".
Traduzione dal francese di Antonio Marcantonio.