Da sei anni don Andrea
Santoro viveva da solo a Trabzon, che una volta chiamavamo Trebisonda,
città turca sul Mar Nero. Unico cristiano in un ambiente totalmente
musulmano: solo la domenica aveva con sé una decina di cattolici, che
per raggiungerlo dovevano percorrere decine e centinaia di chilometri.
Viveva da solo tra i musulmani come Charles de Foucauld all’interno
del Sahara e come Annalena Tonelli nel Somaliland e come loro è stato
ucciso in circostanze che forse non verranno mai chiarite. «Potrebbe
essere considerato un martire del dialogo interreligioso », dice il
vescovo Vincenzo Paglia che l’aveva avuto compagno di studi. Sessant’anni,
originario di Priverno in provincia di Latina, entrato in seminario a 11
anni dopo la morte del padre Gaetano, don Andrea aveva maturato
lungamente, negli anni, la «vocazione» a farsi «ponte» e finestra»
verso l’Islam.
Nel 1968, inquieto sulla
sua «vocazione», era andato in Terra Santa e vi era restato per quasi
un anno, decidendosi infine a chiedere al cardinale Poletti di essere
mandato «missionario» in Medio Oriente. Poletti gli rispose che anche
l’Italia era ormai «terra di missione» e gli affidò la parrocchia
di Gesù di Nazareth, in un quartiere della periferia romana ancora
senza chiesa.
Nel Duemila è tornato a bussare alla porta del cardinale
vicario Ruini, che infine l’ha autorizzato a partire per la Turchia.
Anche la Turchia per lui era una Terra Santa, «perché vi sono passati
gli apostoli e vi è scorso il sangue dei martiri ». Gli amici romani
che l’avevano aiutato a restaurare la chiesa dove è morto,
ultimamente l’avevano chiamato a tenere una conferenza il 22 gennaio
alla Sapienza. Lì don Andrea aveva «narrato» la sua idea di «fare da
finestra, cioè da luogo di comunicazione e di incontro tra mondi
lontani, tra Islam, Ebraismo e Chiese cristiane ».
Così, non a caso, aveva
fondato l’associazione «Finestra per il Medio Oriente» (www.finestramedioriente.it).
Apriva la sua chiesa ai visitatori musulmani due volte la settimana. Non
si spaventava se i ragazzi del quartiere entravano di corsa a sputare
sul pavimento e di corsa fuggivano e se la sera, quando scriveva agli
amici lontani, sobbalzava al botto di un sasso o di una bottiglia di
plastica piena d’acqua che qualche «bullo» lanciava contro la sua
porta. «È gente buona», diceva ai visitatori. E ancora: «Stare qui
è difficile ma è Vangelo. Dobbiamo essere come agnelli, seguendo l’insegnamento
di Gesù». In una lettera dell’anno scorso alla diocesi di Roma, che
si può leggere nel sito del Vicariato (www.vicariatusurbis.org), aveva
scritto: «Il lievito, come dice il Vangelo, ha una sua capacità
misteriosa di fermentare la pasta, se viene messo in contatto con essa.
Che la nostra vita sia la cera che si consuma in totale
disponibilità». Maddalena Santoro, la sorella più piccola, sceglie
parole semplici: «Mio fratello era un missionario nel vero senso della
parola. Per lui l'uomo era uno solo, gli uomini, cristiani o musulmani,
sono uguali».
Sulla via del dialogo, il
sacerdote aveva deciso un anno fa di aprire dalle 10 alle 11 di mattina
e poi dalle 15 alle 16 le porte della chiesa anche ai musulmani. «Era
per far vedere — spiega Maddalena — che le religioni sono uguali: i
cristiani pregano ad un'ora e i musulmani ad un'altra, così come alcuni
popoli parlano una lingua e altri un'altra. Ma l'incontro è possibile
». Era un prete così, don Andrea. S’era inventato pure il calendario
triconfessionale, con le festività più importanti per i cattolici, i
musulmani e gli ebrei. «Uno che quando diceva l’omelia, tu Gesù lo
vedevi...», racconta commossa Beatrice Naso, una sua ex parrocchiana
della chiesa di Gesù di Nazareth. Fu lui, nel 1988, a fondare dal nulla
questa chiesa. Prima i fedeli del Forte Tiburtino, periferia est della
capitale, si radunavano come carbonari in un modesto casotto
condominiale adibito anche a deposito della spazzatura. Lui lottò con
il Comune per otto anni, finché ottenne l’area per l’edificazione.
Poi nel 2000 fu parroco nella chiesa dei Santi Flaviano e Venanzio. «Ma
il suo sogno era sempre stato quello di fare il missionario », racconta
da Latina la cugina Stella Picozza. E arrivò Trebisonda. Dalla Turchia,
comunque, è sempre rimasto in contatto con i suoi parrocchiani di Roma.
Mandava loro e-mail come queste: «Coraggio, andate avanti, non abbiate
paura, fate come me». Ed ecco l’ultima: «Fate del vostro meglio,
accumulate il Bene, il capitale poi lo troverete in Cielo». Una fede
senza confini.
AsiaNews intervista il
Vicario Apostolico per l'Anatolia
torna su
Appare sempre più
probabile la matrice islamica dell’assassinio di don Andrea Santoro:
ne è convinto mons. Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia,
il quale, raggiunto telefonicamente da AsiaNews, dice che “non sembra
casuale” il fatto che l’assassinio sia avvenuto mentre l’intero
mondo islamico è squassato dalle proteste per le vignette su Maometto.
“Stamattina –
racconta – sono stato all’obitorio. Don Andrea è stato ucciso con
due colpi: dopo il primo ha fatto in tempo a gridare ad un ragazzo che
era in chiesa di nascondersi, il secondo colpo lo ha ucciso”.
Ci sono novità
sull’assassino?
Sembra proprio che non
fosse un ragazzo. Sia il giovane che era in chiesa che la volontaria
romana che aiutava in parrocchia parlano di un adulto. Don Andrea era
inginocchiato, chi ha sparato non è neppure dovuto entrare, si è
fermato sulla porta, a 4/5 metri di distanza. Ha preso la mira ed ha
sparato.
Si ha un’idea
della matrice dell’assassinio? Si è ipotizzato un collegamento con le
proteste per le vignette su Maometto o con una vendetta della criminalità
per l’azione che don Andrea stava facendo a favore delle prostitute.
Sarei portato ad
escludere la seconda ipotesi. Don Andrea era un moderato anche in questo
e non credo che la sua azione fosse ad uno stadio così avanzato da
provocare un’uccisione. Magari gesti intimidatori da parte della
criminalità.
Allora ritiene
possibile un collegamento con le proteste per le vignette su Maometto.
Il fatto che
l’assassinio sia capitato proprio ora non mi sembra casuale;
altrimenti sarebbe potuto accadere anche in un altro momento. D’altro
canto anche qui c’è un’atmosfera calda, anche se non voglio dire
surriscaldata. E anche qui ci sono islamisti fanatici.
torna su
Più che scontro,
vuoto di civiltà. Un martire per
cancellare le vignette
Luigi Geninazzi, su Avvenire del 7 febbraio 2006
Adesso cercheranno di
farlo passare per il gesto isolato di un folle o magari anche per un
delitto di racket, dunque un episodio di criminalità che avrebbe un
legame del tutto strumentale con il fondamentalismo, maschera grottesca
di un povero squilibrato o di un killer spietato. Purtroppo si fa fatica
a credere a una simile ipotesi. Temiamo piuttosto di dover vedere il
marchio dell'odio e del fanatismo nel barbaro assassinio di don Andrea
Santoro, compiuto al culmine di una giornata di proteste e di violenze
nel mondo islamico per le caricature di Maometto apparse su alcuni
giornali occidentali. Lo stesso giorno in cui il sacerdote cattolico di
Trebisonda veniva ucciso a sangue freddo, a Beirut una folla inferocita
metteva a ferro e fuoco il quartiere cristiano ed assaltava una chiesa.
Evidentemente c'è chi vorrebbe cancellare l'inchiostro irridente se non
blasfemo di alcune vignette addirittura con il sangue dei cristiani. Il
che è orribile, anche perché sfugge ad ogni logica. Quel che sta
avvenendo sotto i nostri occhi, per dirla con la famosa frase di
Talleyrand, «è peggio di un crimine, è un errore».
Che nesso esiste infatti
fra il giornale di Copenaghen che ha disegnato le caricature del Profeta
ed i libanesi del quartiere cristiano Ashrafieh che domenica scorsa si
recavano a messa? Chi mai può sospettare la minima complicità tra un
vignettista scandinavo, laico e ultra-secolarizzato, ed un sacerdote
cattolico? C'è una distanza abissale fra loro, non meno grande forse di
quella che esiste tra un cristiano ed un musulmano. Coloro che
teorizzano lo scontro di civiltà dovrebbero riflettere su questo
paradosso e chiedersi come mai la lotta tra il fondamentalismo islamico
e l'Occidente laico e secolarizzato faccia sempre più vittime tra i
cristiani, colpiti a morte sul fronte della libertà religiosa.
Le "anime
belle" della vecchia Europa scherzano sulla religione, rivendicano
il diritto a «fare la caricatura di Dio» e parlano di libertà
d'espressione. È in nome di questi principi di laicità che "la
satira su Maometto" è dilagata negli ultimi giorni su quotidiani
piccoli e grandi di mezza Europa. Una provocazione culturale, l'hanno
definita orgogliosamente. In realtà una provocazione assai poco
responsabile, che è servita solo a buttare olio sul fuoco della rabbia
islamica. E in quest'incendio che divampa da giorni gli oltranzisti
della laicità e del libero pensiero non si scottano neanche un dito,
mentre a bruciare sono le vite di quei cristiani che vivono in posti di
frontiera, divenuti ancora una volta segni di contraddizione.
Chi dà prova di
coraggio, chi testimonia il valore infinito della libertà? Il religioso
che, in spirito di dialogo, vive ogni giorno la propria fede in un Paese
musulmano o l'intellettuale che scherza su Maometto vantandosi di
appartenere ad una cultura superiore? Forse, più che ad uno scontro,
stiamo assistendo ad un vuoto di civiltà.
L'Occidente, se davvero
vuole reggere il durissimo confronto con l'islam, deve tornare alle sue
radici, deve riscoprire parole come sacrificio e martirio senza le quali
la libertà è solo una vuota pretesa. Don Andrea Santoro era andato in
Turchia per essere presente in una terra che ha visto le origini del
cristianesimo. Voleva bere a questa sorgente di civiltà, l'unica in
grado di vincere l'odio e il fanatismo.
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"La morte di un
cristiano chiama alla pace"
Meditazione di Andrea Riccardi
nella veglia di preghiera in Santa Maria in Trastevere, il 6 febbraio
2006, in ricordo di don Andrea Santoro, sacerdote romano, ucciso
barbaramente a Trebzon, in Turchia, al termine della celebrazione
liturgica
«Ecco,
io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i
serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi
dagli uomini; perché vi metteranno in mano ai tribunali e vi
flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti a
governatori e re per causa mia, per servire di testimonianza davanti a
loro e ai pagani. Ma quando vi metteranno nelle loro mani, non
preoccupatevi di come parlerete o di quello che dovrete dire; perché
in quel momento stesso vi sarà dato ciò che dovrete dire. Poiché
non siete voi che parlate, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla
in voi. Il fratello
darà il fratello a morte, e il padre il figlio; i figli insorgeranno
contro i genitori e li faranno morire. Sarete odiati da tutti a causa
del mio nome; ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato.
Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un'altra; perché
io vi dico in verità che non avrete finito di percorrere le città
d'Israele, prima che il Figlio dell'uomo sia venuto. Un discepolo non
è superiore al maestro, né un servo superiore al suo signore
(Matteo 10, 16-17; 21-24)
Cari fratelli e sorelle,
queste parole di Gesù sono rivolte ai discepoli. Ma noi spesso abbiamo
dimenticato che ci riguardano. Tuttavia una pecora, un servo del
Signore, un prete di Roma, Andrea Santoro, è stato ucciso come fosse in
mezzo ai lupi. Il funerale sarà celebrato Venerdì. Ricordo le parole
che Ghassan Tueni disse al funerale di suo figlio assassinato: "In
quest'occasione non invito alla vendetta e all'odio, ma, insieme a mio
figlio, voglio che anche l'odio sia seppellito per sempre". La
morte di un cristiano chiama alla pace.
Don Andrea è stato ucciso a Trebisonda, nella piccola chiesa di Santa
Maria, dove aveva celebrato l'Eucarestia della Domenica in quella
ridottissima comunità. Ci fu un tempo in cui lì c'era una grande
comunità cristiana. Chiese antiche, monasteri, liturgie in tante lingue
e riti, quando il canto degli armeni si intrecciava con quello dei
greci. Era l'inizio del secolo scorso. L'hanno cancellata massacri
terribili e spostamenti di popolazione in seguito alle vicende politiche
della prima guerra mondiale. La moderna città nasconde la storia di una
sofferenza antica e tanti morti cristiani in viaggi estenuanti, in
massacri, affogati in mare. Ma è storia di quasi un secolo fa.
Così è avvenuto in Turchia, un tempo terra anche di cristiani, perché
patria della predicazione cristiana, dell'apostolo Paolo, cittadino di
Tarso, e della sua evangelizzazione, delle Chiese dell'Apocalisse.
Alcuni cristiani, pochissimi, fantasmi di una storia, come quelli del
Tur Abdin siriaco (dove hanno resistito più di 1500 anni, ma ora non
sono più). Sembrano resti di un naufragio storico. Privi di futuro.
Storie antiche, su cui non si piange, anche se i nomi di quelle città
sono familiari all'amico della Bibbia. Eppure qualcuno torna. A che
fare? Andrea Santoro, sessant'anni, era partito attratto da una
vocazione per quella terra. Missionario? Ma non chiamato al
proselitismo, ma a dire con la presenza che Dio è amore: Dio ama tutti,
lui, i cristiani, i turchi, i musulmani, gli ebrei. Non è una missione
da poco.
Quella è una terra santa, benedetta dai piedi di coloro che hanno
annunciato l'Evangelo: quell'Oriente da cui è sorto il sole della
predicazione di Gesù, che ha illuminato il mondo. Non può restare
senza la missione d'amore la terra che ha dato Paolo e tanti. Andrea
Santoro, in una città turca del Mar Nero, lontano dal mondo romano,
quello ecclesiastico o quello della periferia dov'era stato parroco,
aveva scelto di vivere dal 2000 nella terra del tramonto del
cristianesimo. Con tenerezza per la gente, con una pietà tutta romana,
con simpatia, con tanta preghiera, aspettava l'aurora di un nuovo
giorno. Con pazienza, senza fretta…
Domenica è venuta la morte. Una morte che -dicono- è stata inflitta da
un giovane che ha gridato "Allah akbar" come grido di guerra.
Follia? Certo un atto che si inquadra nel clima infuocato del mondo
musulmano, almeno di una sua parte, dopo la scoperta delle vignette
satiriche su Maometto. No, in quell'ora Dio non era grande, ma umiliato
come nell'ora della passione: umiliato che si pronunciasse il nome
dell'Eterno mentre si spargeva il sangue dell'amico. Non spetta a noi
dire che questo non è islam; ma questa, certo, non è umanità.
Povero don Andrea: se ne è andato con i suoi sogni, con la sua bontà,
con i suoi messaggi agli amici romani, con il suo sito, finestra sul
Medio Oriente, con la sua passione per il cristianesimo orientale, per
le memorie di un grande passato, per le briciole del presente. Prete
buono, inquieto figlio del Concilio, compagno del nostro don Vincenzo,
aveva mostrato la santità di un'inquietudine fattasi missionaria:
esempio per i preti e i cristiani di Roma. A sessant'anni se ne è
andato. Come una pecora in mezzo ai lupi.
È un musulmano chi lo ha ucciso? "Il fratello darà a morte il
fratello". Questo è grave. Torna la storia di Caino con Abele.
Perché don Andrea era solo un fratello. Voleva essere un fratello dei
musulmani. Come fratel Carlo di Gesù, ucciso stupidamente nel deserto
del Sahara e beatificato da Benedetto XVI. L'assassino è sempre uno
stupido. Don Andrea è morto come un fratello in una città deserta di
cristiani, fratello tra uomini che amava. Fin quando i fratelli
uccideranno i fratelli? Fin quando, come in Libano, le loro chiese
saranno bruciate? "Chi sparge il sangue dell'uomo, dall'uomo il suo
sangue sarà sparso, perché da immagine di Dio egli ha fatto
l'uomo" -dice il Santo nel patto di Noé che ogni uomo è tenuto a
rispettare, qualunque sia la sua religione.
Non ci saranno mani vendicatrici: non perché siamo deboli, ma perché
sappiamo che "forte come la morte è l'amore". I sassi e i
coltelli possono strappare una presenza d'amore, come quella cristiana,
ma non impediranno di amare. Il sangue sparso è di chi è stato odiato
per il nome di Gesù, chiamato Belzebù. Forse uno solo l'ha odiato,
forse dieci o cento: non so. Ma la sua vita è Vangelo. Quel sangue
sparso rivela a noi tutti quanto è preziosa quella terra. Sembra una
terra che non dà frutti cristiani, inutile da coltivare, inutile
spenderci la vita… Così alla saggezza comune. Ma non a don Andrea
Santoro, prete della periferia di Roma, morto nella Turchia moderna, in
cui lui vedeva ancora le orme degli apostoli.
Non dobbiamo anche noi, cari fratelli, amare di più quelle terre, i
cristiani rimasti, i non cristiani viventi? Anche questo è amore: è un
amore che sembra sterile, quello del tramonto, come quello per gli
anziani. Ma senza questo tramonto -lo capiscono i martiri- non c'è
aurora. E' un tramonto dorato, prezioso come il sangue degli amici di
Dio, in cui misteriosamente è nascosta la resurrezione.
Voleva svegliare l'aurora
I preti sanno morire per amore
Andrea Riccardi
Parlare di don Andrea Santoro dopo questa morte non
è facile. Il suo martirio infatti getta certo nuova luce sulla sua
vita, ma ne rivela anche il mistero. Don Andrea non è un caduto nello
scontro di civiltà, né è l'eroe di una lotta, quasi fosse
l'avanguardia dell'aborrito Occidente. È morto da cristiano. Perché
là? Perché scegliere una vita povera e priva di mondani successi, in
una terra che doveva apparire già a lui ingrata? Aveva detto qualche
giorno fa a Roma: "Io mi sento prete per tutti, perché questi sono
i figli che Dio ama: musulmani, ebrei, cristiani…".
Era un prete di Roma. Anche i preti romani (talvolta rappresentati come
diplomatici o indolenti) sanno morire per amore. E il suo era un
ministero d'amore tra Eucarestia e simpatia per tutti gli umani figli di
Dio. "Noi siamo quelli della croce - aveva detto - non quelli della
spada. A noi il Signore ha detto: metti la spada nel fodero… E tutto
questo passa attraverso la croce. Se vuoi tenere la spada in mano, non
farai mai l'unità. La croce è farsi agnello". Voleva fare unità
e far comunicare quelli che erano tanto divisi.
A Trebisonda, dov'è stato ucciso, c'era fin all'inizio del Novecento
una grande comunità cristiana: chiese, monasteri, liturgie, dove il
canto degli armeni si intrecciava con quello dei greci. È un mondo
finito tra massacri e spostamenti di popolazione con la prima guerra
mondiale. Tanti cristiani morirono, assassinati, in viaggi estenuanti,
affogati in mare. La moderna città turca non ricorda questa storia
comune all'Anatolia, già terra di Paolo, delle Chiese dell'Apocalisse,
dunque di un cristianesimo vivo. Oggi in Turchia restano pochissimi
cristiani autoctoni, fantasmi di una storia smarrita. Sembra la terra
del tramonto senza fine del cristianesimo. Eppure qualcuno si sente
chiamato a tornare, come don Andrea.
L'amore lo chiamava in un deserto di vita cristiana. Terra inutile da
coltivare perché sterile di frutti cristiani? Lui amava quella terra:
vi vedeva l'aurora antica del cristianesimo, spaziava con il pensiero in
Medio Oriente, simpatizzava per gente estranea alla sua fede. Con
tenerezza per loro, con una pietà romana, con tanta preghiera e
pazienza, aspettava l'aurora di un nuovo giorno.
Domenica è venuta la morte. Una morte inflitta da un giovane che ha
gridato "Allah u akbar" come grido di guerra. No, in quell'ora
di morte, Dio più che grande, era umiliato dal sangue sparso da uno dei
suoi figli, mentre l'aggressore pronunciava il nome dell'Eterno.
L'assassino non ha cercato di guardare in volto la sua vittima, preso
dall'attuale clima infuocato del mondo musulmano, o almeno di una sua
parte, ma ha colpito alle spalle. "Il fratello darà a morte il
fratello". Perché don Andrea era un fratello anche per i
musulmani. Come Charles de Foucauld, ucciso stupidamente nel deserto del
Sahara (e beatificato di recente da Benedetto XVI). L'assassino è
sempre uno stupido.
Povero don Andrea: se n'è andato con i suoi sogni apostolici, con la
sua bontà, tutta romana, con il suo sito sul Medio Oriente, la sua
passione per il cristianesimo orientale, per quel grande passato e per
le briciole del presente.
La sua vita di prete esprime una nota forte che sorprende e interroga,
specie quando incliniamo verso la mediocrità nell'amore. Il suo sangue
chiede: fin quando i fratelli uccideranno i fratelli? Il colore
martiriale della sua morte allontana la vendetta e rifugge ogni
interpretazione politica: esige e implora che l'odio sia seppellito con
lui nella tomba.
Illusione? Noi la chiamiamo fede. C'è un valore misterioso di una vita
caduta a terra, anche se non è dato di conoscere i tempi del germoglio.
Per chi crede è il caso di riflettere in profondità su questa vita e
di ricordare il detto dei primi secoli cristiani: "Io vi do una
grande eredità che il mondo non ha".
torna su
Per non uccidere Don Andrea una seconda
volta
Bernardo Cervellera
La morte di don Andrea
Santoro, il sacerdote della diocesi di Roma ucciso alle spalle, mentre
pregava nella sua chiesa a Trebisonda, era quasi da prevedere. Come
era quasi sicura la violenza contro la chiesa di san Marone a Beirut e gli
attacchi alle chiese in Iraq. Tutte le volte che si crea tensione fra il
mondo islamico e il mondo occidentale, chi ne fa le spese sono sempre i
cristiani. Essi – sebbene appartengano a una comunità più antica
dell’Islam - sono sempre presentati come una longa manus
dell’occidente. In più, offrono una caratteristica importante per chi
voglia colpirli: sono indifesi, disarmati, perfino amorosi verso i loro
persecutori. Sono la vittima giusta. Era
perciò quasi prevedibile che nella tempesta islamica causata dalla
pubblicazione delle vignette su Maometto, qualche cristiano ne facesse le
spese.
Chi ha ucciso don Andrea?
Ankara ha già fatto arrestato un giovane. Ma dietro la mano assassina vi
è una connivenza più grande. C’è anzitutto quella dei governi che
soffiano sul fuoco dello scandalo islamico. Le violenze in Siria, Libano,
Iran, Iraq, Afghanistan è difficile pensare siano avvenute senza il
sostegno, il pagamento, la soddisfazione di Damasco e Teheran.
Il nostro timore adesso è
che Don Andrea rischia di essere ucciso una seconda volta, diluendo o
vanificando il senso del suo martirio.
Il primo passo l’ha fatto
il governo turco e tutti coloro che hanno voluto minimizzare la sua morte,
dicendo che è causata solo da un giovane squilibrato e che l’elemento
religioso non è importante.
Tant’è: proprio ieri il
giovane killer ha confessato di essere stato spinto all’odio dallo
scandalo in lui suscitato dalle vignette blasfeme su Maometto, pubblicate
nella stampa occidentale. Pur continuando a dire che la pista del
conflitto religioso non vale, Ankara ha messo guardie e vigilanza a tutte
le chiese e gli obiettivi religiosi del paese. Anche personalità del
governo italiano hanno dichiarato ai media che “la Turchia è un paese
molto secolarizzato e non bisogna vedere nell’uccisione del sacerdote un
gesto anti-cristiano”.
Un altro passo verso la
vanificazione è compiuto dal parlamento europeo che desideroso di
inglobare la Turchia nella comunità economica, fa richieste sulla libertà
di mercato, ma si dimentica di domandare piena libertà religiosa ad un
paese che - “molto secolarizzato” – non permette alle chiese
cristiane di avere seminari, scuole, possedere case o chiese, senza
garantire stabilità a persone e comunità che vivevano in Turchia molti
secoli prima dell’Islam.
Un passo ulteriore per
uccidere la testimonianza di don Andrea è fatto da coloro che lo
trasformano in un profeta del multiculturalismo e del dialogo a priori,
paurosi nell’affermare la chiara e bella identità cristiana di questo
sacerdote. Benedetto XVI, ha ricordato oggi nell’udienza, “l’anima
sacerdotale” di don Andrea, la sua “commovente testimonianza di amore a
Cristo e alla sua Chiesa”. A leggere infatti le riflessioni del sacerdote
ci si accorge che egli è andato in Turchia non spinto dal “dialogo”
slavato, o dalla voglia di fare del bene a poveri e derelitti, ma dal
desiderio di far rivivere la Chiesa, corpo di Cristo. È da questo che
nasce anche tutto il suo impegno verso i poveri e le prostitute, il suo
dialogo con l’Islam, ma anche con l’ebraismo. In un brano da lui
scritto, pervenuto ad AsiaNews, egli dice cos’è il dialogo:
“Europa e Medio Oriente (Turchia compresa…), Cristianesimo e Islam
devono parlare di se stessi, della propria storia passata e recente, del
modo di concepire l'uomo e di pensare la donna, della propria fede. Devono
confrontarsi sull'immagine che hanno di Dio, della religione, del singolo
individuo, della società, su come coniugano il potere di Dio e i poteri
dello Stato, i doveri dell'uomo davanti a Dio e i diritti che Dio, per
grazia, ha conferito alla coscienza umana”.
A leggere queste parole si
resta stupiti per la loro attualità. La mancanza di dialogo e i tentativi
di guerra fra oriente e occidente vengono proprio dalla mancanza degli
elementi dettati da don Andrea: da una parte, un’Europa dimentica di sé,
della propria tradizione religiosa, irrispettosa della propria storia e
superficiale nello sguardo alle altre religioni; dall’altra un Islam che
non sa parlare di sé, né guarda a sé, all’individuo, alla donna,
ai poteri di Dio e dello stato e continua a buttare sull’altro, sugli
altri, sui nemici, le colpe della propria arretratezza. E così diventa
strumento in mano al dittatore di turno.
Se l’occidente vuole
davvero sconfiggere il fondamentalismo, deve lavorare per esigere dai paesi
islamici piena libertà di agire e di parlare ai cristiani e alle altre
religioni. Lo stesso devono attuare i paesi dell’oriente, se vogliono
davvero testimoniare che l’Islam è una religione della pace e della
tolleranza. Don Andrea Santoro aveva offerto la sua carne perché “Cristo
abitasse in Turchia”, come ha detto una volta. Nella sua morte, Cristo ha
abitato in Turchia fino al sacrificio della croce. Per questo, come ha
detto ancora il papa, il martirio di don Andrea contribuirà “alla causa
del dialogo fra le religioni e della pace fra i popoli”.
Quel prete ci sta
scuotendo
torna su
Saverio Simonelli, su Avvenire 10 febbraio 2006
Accade a tutti di imbattersi
con la vita di qualcuno solo dopo la sua morte, quando a raccontarcela sono
le tracce che questi ha lasciato.
Ecco, quella di don Andrea Santoro è una vita che a molti lascia il
rimpianto di averne condiviso semplicemente il tratto conclusivo, e di fare
oggi esperienza di quella voce e di quel volto "solo" nelle
immagini che lo incastonano nel paesaggio più recente della sua traversata
terrena: il Mar Nero, le pendici innevate dell'Ararat, il variopinto
andirivieni di una città come Trebisonda, il cui nome è già scrigno di
storie lontane. Con che trepidazione infatti a Sat2000 si sono estratte
dagli archivi le cassette di un reportage datato 2004 sulle antiche Chiese
della Turchia, dove lui, il mite e schivo don Andrea, inevitabilmente
c'era. Fotogrammi fortunosi, anzi provvidenziali, che in questi giorni
hanno doverosamente fatto il giro delle televisioni, restituendoci
l'emozione di un incontro dal vivo, come non l'avevamo avuto. E che
scoperta, che privilegio, che emozione sentire lui che racconta, sereno e
lucido, mansueto e forte, a momenti quasi presago.
Ecco allora che la traccia
di quella vita comincia a dipanarsi, che il filo si fa sempre più spesso,
e miracolosamente, tenendolo tra le nostre mani ci accorgiamo che non di un
solo filo si tratta, ma di tanti e che ciascuno ci porta da qualche parte
ed è legato ad altre mani: ci raccontano della sua parrocchia romana, che
prima era un condominio - stanze fredde da riscaldare - e subito vediamo
l'opera di tanti amici che aiutano Don Andrea: e così nasce la chiesa, la
chiesa che però è un capannone, perché lui la vuole «la più umile
possibile». Ogni cosa della vita di quest'uomo si trasforma, ogni momento
ne genera un altro e i fili diventano rete, e la rete si allarga. Così nei
racconti degli amici c'è un pri mo viaggio in Terra Santa, ma quel viaggio
diventa subito una porta, un transito verso un mondo diverso che ne
calamita l'anima e lo porta a vivere in quell'Oriente, in quei Paesi
sedimentati di storia e arroventati dalle tensioni, dove però la Parola
era stata pronunciata per la prima volta.
E qui un altro aspetto di
quest'uomo: l'amore per la Chiesa delle origini si lega all'urgenza di un
annuncio da rinverdire, da rinnovare ma nelle forme disadorne, essenziali
che lì sono ammesse.
In Oriente don Andrea aveva
però trovato il «singolare privilegio di vivere della memoria biblica» e
quando guardava le falde dell'Ararat gli piaceva pensare a quell'arca
posatasi come una colomba a 5.000 metri sul livello del mare «che
testimoniano l'altezza della misericordia di Dio».
E infine, a Trebisonda, la
sua vita terrena si spezza senza che sia intaccato (come potrebbe, oramai?)
quell'intreccio di amore e condivisione che lui ha minuziosamente tessuto.
Tant'è che il pomeriggio di domenica, proprio prima di morire, pregava per
un incontro di dialogo interreligioso: ancora la parola che unisce, genera,
che crea qualcosa d'altro. Ancora una rete, appunto. Pur se piccola ai
nostri occhi. Ma per quelli di Dio?
Ora che abbiamo provato a
conoscerlo, don Andrea ci lascia nella memoria anzitutto un segno, un segno
che è un invito e una direzione. Fare spazio, lasciare posto alla realtà
che ci viene a visitare, accogliere nella vita le vite, moltiplicare le
esperienze in un reticolo che non si esaurisce mai. Chissà perché a
qualcuno è parso che dell'assassinio di don Andrea finora si sia fatta
"una gestione distratta, prevedibile, automatica". No, no. Prima
di giudicare, cercate di apprendere l'alfabeto semplice e nudo che questa
vita pretende da tutti, a partire da chi ne riceve l'eredità. Guai a
sgualcirla. La sua non è una delle tante vite anonime che acquistano un
attimo di notorietà e poi spariscono. La sua continua ad essere la vita di
un padre, un padre che ha generato come gli è stato insegnato a fare,
perché nelle tante cose che ci sono in cielo e in terra ha saputo vedere
il disegno di Dio. Senza pretendere di piegarlo, semplicemente lasciandogli
spazio, lasciandogli la propria vita.
Il dolore personale sul
volto di un popolo
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Andrea Riccardi
La cattedrale di Roma ha
accolto ieri, per l'ultimo saluto, il corpo di don Andrea Santoro. Tra
tanta gente, in mezzo ai suoi confratelli visibilmente scossi, nella chiesa
della sua ordinazione, la vita e la morte di don Andrea hanno espresso
pienamente il loro senso profondo. Che non fu quello di una battaglia
politica o ideologica, quasi una prova in più a disposizione di chi
sostiene che lo scontro frontale tra religioni e civiltà sia a questo
punto inevitabile. La sua vicenda in realtà non è nemmeno quella di un
mediatore culturale tra mondi tanto diversi, sorta di ponte ingenuo quanto
impalpabile. Andrea Santoro è stato un prete: prete di Roma, prete del
Concilio, uomo di preghiera, capace di grande prossimità con la gente,
come testimoniavano i tanti accorsi al suo funerale. Erano volti segnati da
un dolore personale e dalle lacrime: popolo che ha colto il mistero di una
vita gratuitamente donata per gli altri.
Da questo tessuto cristiano,
che spesso si ignora ma che è profondo, sgorgano le testimonianza più
belle, come quella dell'anziana madre del sacerdote. Maria Santoro, piegata
ma non vinta, ha avuto cuore di perdonare l'assassino, «essendo anche lui
un figlio dell'unico Dio che è amore».
Don Andrea ci ha riproposto
oggi l'antica parabola dei martiri, come ha detto il cardinale Ruini.
Dunque, parola di Vangelo. Seppur taluno potrebbe dire che la sua è stata
una missione muta e inutile in una terra tutta musulmana. Si è arrivati a
parlare di proselitismo forzoso e addirittura pagato; ma è noto come il
sacerdote fosse rispettoso non solo dell'islam, ma anche delle altre
comunità cristiane. A lui ben si attagliano le parole di Benedetto XVI
nella sua enciclica: «Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e
quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l'amore». Per
don Andrea, l'Anatolia era un deserto di vita cristiana, ma popolato da
donne e uomini (musulmani) da guardare negli occhi e da amare. Egli credeva
nel dialogo, ma soprattutto a quell'amore che si fa amicizia quotidiana con
le donne e gli uomini di una religione diversa con cui si vive.
«Il suo - ha giustamente
detto il cardinal vicario - era un coraggio cristiano, quel tipico coraggio
di cui i martiri hanno dato prova…». Ed aggiungeva: «Un coraggio, cioè
che ha la sua radice nell'unione con Gesù Cristo, nella forza che viene da
lui, in maniera tanto misteriosa quanto vera e concreta». L'esistenza di
Andrea Santoro non era sopraffatta dalle difficoltà o dal clima non sempre
sereno in cui operava; ma manifestava la forza di chi prende sul serio il
Vangelo, senza ridurlo. E prenderlo sul serio significava prima di tutto
viverlo, pagando personalmente: stare vicino ai suoi pochi cattolici, stare
in mezzo ai turchi, rischiare la vita in un ambiente che non teneva sotto
controllo. Tutt'altra immagine di un cristianesimo infiacchito o, al
contrario, nervosamente aggressivo. Viene da pensare all'apostolo Paolo, e
al suo: «Comportatevi da uomini, siate forti. Tutto si faccia tra voi
nella carità...» ( 1Cor 16,13-14).
Umanesimo e forza interiore
si connettono profondamente nella carità: è la via amoris, che richiede
il coraggio più grande. La forza "umile" del cristiano può
andare incontro a insuccessi, ma resta animata da una fiducia che non ha la
sua misura nel risultato immediato. André Jarlan, prete fidei donum come
don Andrea, ucciso in Cile nel 1984, aveva scritto: «Coloro che fanno
vivere sono quelli che offrono la loro vita, non quelli che la tolgono agli
altri. Per noi la resurrezione non è un mito: questo evento, che
celebriamo in ogni Eucarestia, ci conferma che vale la pena di dare la vita
per gli altri...».
«I popoli sono molti
ma l'umanità è una»
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L'ultima
"corrispondenza" da Trabzon di don Andrea Fontana è on line
sul sito "Finestra per il Medio Oriente", un giornalino dal
quale il sacerdote Fidei Donum ogni tre mesi pubblicava pensieri e
riflessioni sulla sua "missione" in Turchia.
«Avverto in me motivi
per amare gli uni e gli altri, motivi per tenerli serrati nello stesso
calice e radunati ai piedi della stessa croce - scriveva il sacerdote
nella lettera del novembre 2005 -. Ma avverto anche delle lontananze tra
loro, pur corrette, ma a volte solo camuffate, da dichiarazioni di
amicizia, di rispetto e di collaborazione, a volte invece davvero lenite
da sforzi sinceri fatti da più parti per capirsi, accettarsi, offrire
ognuno il proprio patrimonio e scoprire quello dell'altro. Altre volte
ho l'impressione che questi mondi non si parlino in profondità, ma
facciano come quelle coppie che parlano solo di spesa, di bollette, di
mobili da spostare e di salute dei figli e si illudono di comunicare e
invece diventano sempre più estranei».
Poi uno sguardo alla
situazione internazionale: «Europa e Medio Oriente, Turchia compresa,
anche se è un caso a sé, Cristianesimo e Islam devono parlare di se
stessi, della propria storia passata e recente, del modo di concepire
l'uomo e di pensare la donna, della propria fede - aggiungeva don Andrea
-. Devono confrontarsi sull'immagine che hanno di Dio, della religione,
del singolo individuo, della società, su come coniugano il potere di
Dio e i poteri dello stato, i doveri dell'uomo davanti a Dio e i diritti
che Dio, per grazia, ha conferito alla coscienza umana. Devono
confrontarsi su cosa intendono per vita, famiglia, futuro, progresso,
benessere, pace. Sul senso che danno al dolore e alla morte, su cosa
voglia dire che i popoli sono molti ma l'umanità è una, che la terra
è divisa in nazioni territoriali ma tutta intera è una casa comune».
Infine una riflessione
dettata dall'esperienza pastorale e missionaria, frutto di un lavoro
quotidiano di raccordo e conciliazione: «Credo che ognuno di noi dentro
di sé possa diminuire la lontananza tra questi mondi. È a partire
dallo sguardo di Cristo e dall'amore del Padre, che lo ha inviato a
tutti i suoi figli, che possiamo riscoprire vicini quanti sentiamo
lontani - proseguiva don Andrea -. In questa fase rileggo il passato
della missione, scruto il presente, rivado agli inizi della Chiesa a
Gerusalemme, ascoltiamo le Scritture, cerchiamo di capire meglio il
mondo da cui veniamo e il mondo dove siamo arrivati, cerchiamo di
rendere accogliente quanto più possibile, per ogni evenienza, la
chiesa, il monastero, la casa, i molteplici locali annessi».
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Il testamento spirituale di don Andrea
"Dialogate con le altre religioni"
Carissimi,
vi scrivo da Roma, dove sono arrivato da circa 3 settimane prima di
ripartire per la Turchia tra qualche giorno. Sono stati giorni molto
intensi dedicati a testimonianze, incontri, catechesi, conferenze,
momenti di preghiera. Il tutto finalizzato a favorire passaggi di
informazioni e conoscenze tra Medio Oriente, visto attraverso la mia
esperienza personale, e la realtà del nostro Occidente, come e nelle
finalità della "Finestra
per il Medio Oriente".
Ho trovato ovunque interesse e partecipazione e un sincero desiderio di
capire e di allacciare legami di comunione. Ho sentito quanto sia
importante e possibile a realizzarsi uno scambio di doni spirituali tra
questi due mondi. Il Medio Oriente, grande "terra santa" dove
Dio ha deciso di comunicarsi in modo speciale all'uomo, ha le sue
ricchezze e la sua capacità, grazie alla luce che Dio vi ha immesso da
sempre, di illuminare il nostro mondo occidentale.
Ma il Medio Oriente ha la sue oscurità, i suoi problemi spesso tragici
e i suoi "vuoti". Ha bisogno quindi a sua volta che quel
Vangelo che di lì è partito vi sia di nuovo riseminato e quella
presenza che Cristo vi realizzò vi sia di nuovo riproposta. È una
reciproca "rievangelizzazione" e arricchimento che i due mondi
si possono scambiare.
A Trabzon, nel frattempo, la minuscola comunità cristiana si è riunita
ogni domenica mattina per celebrare la liturgia della Parola e la chiesa
è stata aperta ai visitatori musulmani due volte la settimana sotto la
responsabilità di una persona di fiducia. Vi farò sapere come è
andata.
Vi saluto affidandovi queste riflessioni ed esortando me e voi a mettere
sempre in contatto la fede con il presente. Non una fede astratta e
generica ma una fede quasi come da quei primi "inizi" ci è
stata riversata in grembo di generazione in generazione. Il lievito,
come dice il Vangelo, ha una sua capacità misteriosa di fermentare la
pasta, se viene messo in contatto con essa. La pasta di ogni tempo, di
ogni luogo, di ogni generazione.
Inoltre Gesù diceva: «Io sono la luce del mondo, chi segue me non
cammina nelle tenebre». Se la sua luce è in noi, non solo illuminerà
ogni situazione, fosse pure la più tragica, ma noi pure, come sempre
Lui diceva, saremo luce. La luce fioca di una candela illumina una casa,
un lampadario fulminato lascia tutto al buio, che Lui brilli in noi con
la sua parola, con il suo Spirito, con la linfa dei suoi santi. Che la
nostra vita sia la cera che si consuma in totale disponibilità.
Con affetto. Don Andrea
v. anche:
Antiochia.
Testimonianza di una volontaria