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Ecumenismo e primato petrino. La speranza unita a passi concreti
Mons. Bruno Forte su Korazim.org 15 dicembre 2006

L’incontro con il patriarca ecumenico Bartolomeo I a Istanbul e quello con l’arcivescovo di Atene, Christodoulos, in Vaticano: la speranza ecumenica si sta concretizzando in scelte operative. La conferma arriva da monsignor Bruno Forte, arcivescovo metropolita di Chieti-Vasto e teologo tra i più illustri ed apprezzati del panorama scientifico internazionale. Membro della Commissione teologica mista che sta affrontando i nodi irrisolti delle relazioni tra cattolici e ortodossi, mons. Forte spiega a Korazym.org le sfide attuali del dialogo ecumenico, dal primato petrino all’ecclesiologia eucaristica, senza nascondere le difficoltà nel mediare tra le diverse sensibilità su un modello di Chiesa-istituzione condivisa da tutti. Un modo per parlare anche di laicismo e integralismo, radici cristiane dell’Europa e temi come la libertà religiosa e la bioetica.

Eccellenza, la dichiarazione congiunta pronunciata dal patriarca Bartolomeo I e da papa Benedetto XVI ad Istanbul è un chiaro segno di una comune volontà di dialogo da parte delle Chiese ortodossa e cattolica perché si faccia tutto il possibile per ristabilire la piena comunione. Che peso avrà, concretamente, questo proposito e quali potrebbero essere le prime forme d'attuazione della ritrovata comunione?
“Innanzitutto è importante dire che sin dall’inizio del suo pontificato Benedetto XVI ha fortemente sottolineato la sua volontà di portare avanti l’impegno ecumenico e, anzi, di fare dei passi concreti in direzione dell’unità visibile dei cristiani: in questo spirito è stato possibile riprendere il dialogo della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, che è stata in parte anche rinnovata ed io sono stato nominato tra i membri cattolici che la compongono. Così, dopo diversi anni, abbiamo potuto iniziare nuovamente questo dialogo nel settembre scorso, a Belgrado: lì abbiamo avuto la possibilità di riprendere la riflessione comune tra i rappresentanti della Chiesa cattolica e i rappresentanti delle Chiese ortodosse nel loro insieme. Erano rappresentate tutte e sedici le autocefalie della Chiesa ortodossa. Il tema è stato quello della koinonia, della “comunione”, ed abbiamo fatto interessanti passi avanti nell’approfondimento di questa idea, giungendo a quel punto - che certamente è il più delicato, ma per alcuni aspetti più necessario – che è la riflessione sul ministero di unità del Vescovo di Roma, sul primato e sulla sua relazione con la struttura sinodale delle Chiese d’Oriente in modo particolare”.

Come sta procedendo la discussione su questo punto?
“Il drafting committee che sta redigendo il testo deve portare avanti la rielaborazione del testo-base, ma sarà in realtà la Plenaria di questa commissione, nell’ottobre prossimo, a riprendere e ad approfondire il dialogo. Dunque siamo già nel segno di passi concreti in atto: ecco perché la dichiarazione congiunta del papa con il patriarca Bartolomeo I ad Istanbu ha sia il valore di un auspicio e di una preghiera, di un impegno solenne davanti a Dio e alla storia, sia il valore di una testimonianza di un cammino in corso, che non manca di difficoltà, ma nel quale c’è una ferma volontà dei protagonisti -chiaramente espressa anche in questa dichiarazione - di andare avanti verso l’unità che Cristo vuole. Siamo, cioè, in un momento in cui la grande speranza ecumenica si sta congiungendo a delle scelte operative e a dei passi concreti che, quando e come Dio vorrà, potrebbero portarci realmente ad una unità che non sarà certamente massificante, ma che non sarà neanche naturalmente fatta di arcipelaghi. Un’unità vera, un’unità quale Cristo vuole e per la quale Lui prega, ha pregato e ci chiede di pregare".

All’ultima Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi, lei ha parlato di ecclesiologia eucaristica. In quella circostanza si riferiva alla sola Chiesa cattolica, ma pensa che la riflessione sul rapporto tra Chiesa ed Eucaristia possa essere estesa in prospettiva ecumenica e che la comune celebrazione dell’Eucaristia possa essere un primo approdo del dialogo?
“Certamente l’ecclesiologia eucaristica è un punto d’incontro tra Oriente e Occidente. In Oriente è stato dapprima Afanasiev, un teologo russo, che ha riscoperto il legame profondissimo fra Chiesa ed Eucaristia. Poi Ioannis Zizioulas, l’attuale metropolita di Pergamo, copresidente della Commissione mista cattolico-ortodossa per la parte ortodossa, è andato elaborando nei suoi scritti questa ecclesiologia eucaristica con una correzione rispetto alle tesi di Afanasiev, e cioè che questa ecclesiologia eucaristica non contrasta con una struttura in qualche modo istituzionale, visibile, della Chiesa, per il semplice motivo che l’Eucaristia è presieduta dal Vescovo o da chi è inviato in suo nome – il Presbitero – ed è dunque strettamente connessa alla struttura anche ministeriale della Chiesa: il ministero Ordinato e la successione Apostolica. Stando così le cose, l’ecclesiologia eucaristica è certamente un punto d’incontro fra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa, che reciprocamente riconoscono la validità del loro ministero inserito nella successione Apostolica. Il problema si pone diversamente per quelle comunità ecclesiali dove la genuina e integra natura del mistero eucaristico, a causa della mancanza della validità del sacerdozio ordinato, è andata perduta”.

Quali sono le tappe di questo cammino?
“Con gli ortodossi siamo di fronte ad una sfida comune di grande rilevanza: naturalmente bisogna capire insieme quale struttura della Chiesa questo primato dell’ecclesiologia eucaristica potrebbe comportare. Una struttura di Chiese dove è la Chiesa locale che ha un valore e un primato assoluto? Se così fosse, sarebbe difficile conciliare questo con una comunione universale di Chiese reale, non soltanto nominale; una comunione universale di Chiese rigidamente strutturata, dove le Chiese locali vengono viste solo come longa manus del centro? Questo sarebbe inaccettabile nella prospettiva ortodossa, ma in realtà anche in un’ecclesiologia eucaristica cattolica. E allora questa mediazione, che rispetti da una parte la tradizione cattolica nella sua verità, nel ruolo centrale e indispensabile – questo ormai credo lo riconoscano anche gli ortodossi – del ministero di Pietro e dall’altra parte la tradizione sinodale delle Chiese d’Oriente, è esattamente la sfida su cui si sta muovendo il lavoro della Commissione mista”.

Ad oggi, quali crede siano le effettive difficoltà e quali invece le aperture in vista una reale koinonia?
“Cominciamo dalle aperture: certamente è enormemente cresciuto nel villaggio globale il bisogno di un ministero universale di unità, qualcuno che parli a nome di tutti i cristiani come interlocutore credibile, affidabile, riconosciuto, e senza dubbio questo oggi è il papa. Basti solo pensare alle gigantesche figure degli ultimi papi, da Giovanni XXIII a Paolo VI fino a Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Dunque, questo bisogno c’è: lo riconoscono oggi gli stessi ortodossi, che peraltro hanno sempre sostenuto che il papa è primus inter pares, dove questa formula non è così debole come si pensa, perché si rifà al canone 34 dei cosiddetti Canoni degli Apostoli, che sono un testo molto importante per la legislazione canonica in Oriente. Qui il protos – cioè il “primo” – è definito contemporaneamente kephalé, “capo, testa”: dunque c’è uno spessore più forte di quello che si può pensare, e quindi certamente questo è il punto di convergenza.

Ma allora dove è il problema?
“La difficoltà è tutta nel modo di esercizio di questo primato: senza dubbio le Chiese ortodosse faticherebbero ad accettare un esercizio del primato che svuotasse di contenuto l’autorità dei sinodi e dei patriarchi. Essi hanno bisogno di vedere riconosciuta la struttura sinodale delle loro Chiese e quindi di concepire il primato del vescovo di Roma come un riferimento necessario ma ultimo della comunione, non immediato. È su questo che la riflessione dovrà andare avanti per capire se e fino a che punto siano possibili due diverse modalità d’esercizio, una per la Chiesa latina consacrata ormai da secoli d’esperienza e un’altra per le Chiese ortodosse ritornate in piena comunione con Roma, quando questo sarà”.

I risvolti politici e culturali di un papato riconosciuto da tutti?
“Enormi. In un mondo così frammentato, dove c’è tanto bisogno di valori etici e spirituali a cui riferire la vita e le scelte, una voce unica e riconosciuta da tutti i credenti in Cristo come espressione del comune sentire della fede potrebbe avere un'incidenza – quale è quella che oggi ha l'autorità del pontefice romano - sulla complessità delle situazioni umane e sul villaggio globale, e questo è un indizio importante. Credo sia qualcosa di cui il mondo ha bisogno e di cui i cristiani sono debitori al mondo: ecco perché oggi si parla di un “ecumenismo fondamentale”, cioè di un ecumenismo che ritorna ai fondamenti della fede, ma che sente anche il bisogno di rispondere a urgenze, a sfide, a domande che il villaggio globale che è il mondo di oggi, più che mai sta facendo ai cristiani. E queste sfide, questi bisogni, certamente si concentrano in un grosso bisogno di autorità morale, di unità nella testimonianza del senso della vita”.

Cosa pensa riguardo al secolarismo crescente nelle società occidentali? Ci sono figure importanti – ad esempio Enzo Bianchi – che tendono a ridimensionare il problema, individuando anzi in esso una preziosa occasione di rinnovamento per la Chiesa cattolica, ma sia in Baviera che in Turchia Benedetto XVI l’ha chiaramente indicato come il vero pericolo cui possono dare risposta una ritrovata unità dei cristiani e la riscoperta delle radici cristiane dell’Europa.
“Il dibattito non è di questo momento, è un dibattito antico. Si sa benissimo che una cosa è la secolarizzazione, una cosa è il secolarismo. Gogarten fu il primo, in ambito protestante, ad avviare questo tipo di distinzione che è bene tenere sempre presente. La secolarizzazione di per sé è un fenomeno storico-culturale che potremmo dire per certi aspetti “neutro”, se non addirittura favorito dal Cristianesimo stesso. Era la famosa tesi di Gogarten, cioè: chi ha reso il mondo indipendente da fantasmi sacrali e, ponendolo davanti ad un unico Dio amoroso e provvidente, ne ha fatto sentire al tempo stesso l’autonomia e la dignità? Il Cristianesimo, la tradizione biblica. Dunque, la secolarizzazione nasce, in un certo senso, all’interno stesso del mondo biblico, del mondo teologico, come affermazione dell’autonomia delle realtà mondane, ribadita fortemente nel Vaticano II, proprio nell’ordine di salvezza che Dio ha voluto per l’uomo. Il secolarismo è un’altra cosa: è quel processo in cui la secolarizzazione viene assunta non solo come processo di autonomia mondana, ma come ideologia di un’autonomia assoluta rispetto al divino. E’ chiaro che se noi usiamo in questo senso i termini, ha ragione perfettamente Benedetto XVI, cioè il secolarismo è una malattia, qualcosa che vuole sradicare l’uomo dalla sua vera patria, dalla sua vera origine, dal suo vero riferimento”.

Ma che dire di un punto di vista come quello di Enzo Bianchi?
“Probabilmente qui gioca la differenza che spesso gioca con altri interlocutori, tra il biblista da una parte, che ragiona in categoria della pericope - quindi più del frammento che non dell’insieme - e il teologo sistematico dall’altra, che vede l’insieme e usa le categorie così come il patrimonio filosofico e non solo teologico della modernità le ha espresse. Joseph Ratzinger è un teologo sistematico, Enzo Bianchi è piuttosto un biblista e un testimone di una tradizione spirituale. Questa differenza la si nota anche tra due giganti quali sono papa Benedetto e il cardinale Martini. Anche lì noi notiamo che su questi temi ci sono differenti accentuazioni: quella del cardinale Martini, che da una parte invoca il fatto che tutto è comunque relativo nella visione biblica; dall’altra, quella di papa Benedetto, che ci ricorda che il relativismo è in sé stesso una posizione teoreticamente contraddittoria, perché dire che tutto è relativo e che non c’è nessun assoluto, significa che almeno un assoluto c’è, cioè il fatto che tutto sia relativo. Qui vediamo chiaramente il gioco delle due parti: da una parte il biblista, legato alla pericope, dall’altra il teologo sistematico. Personalmente, la mia formazione è quella di teologo sistematico, quindi io riesco a cogliere con grande sintonia queste prospettive di papa Benedetto perché mi sembrano quelle di una lettura dei processi in atto. Naturalmente, l’ascolto di altre letture può essere fecondo, soprattutto se, una volta chiariti i termini, si coglie in profondo - come mi sembra - una non contraddizione nelle due interpretazioni”.

Il rispetto della libertà religiosa nel mondo è l'altro tema sul quale il papa ha richiamato l'attenzione nel corso del suo viaggio apostolico in Turchia. Il nemico sono ancora le ideologie, l’integralismo religioso o piuttosto il laicismo, se proprio la Turchia - da cui ci si aspettava un’intolleranza spiccatamente confessionale - ha stupito invece per l'indifferenza di un paese ormai “modernamente laico”?
“Non è che poi le due cose siano così lontane l’una dall’altra: una posizione di indifferenza e una posizione di rifiuto possono pescare nella medesima radice, che è quella del travaglio del cambiamento. La Turchia, per esempio, è un Paese che sta vivendo drammaticamente il processo della trasformazione. Pochi come Orhan Pamuk, il premio Nobel per la Letteratura, hanno saputo esprimere questo dramma della Turchia in maniera letterariamente potente. Faccio due esempi”.

Prego…
“Il mio nome è rosso”, uno dei capolavori di Pamuk, legge il conflitto tra tradizione e modernità nella Turchia - l’Impero Ottomano - del XVI secolo; lo stesso Pamuk legge in “Neve”, un altro dei suoi romanzi, lo stesso conflitto oggi, nella Turchia moderna, dove molti orfani dell’ideologia soprattutto marxista si sono dati ad una forma di integralismo religioso. Allora, ciò che accomuna indifferenza laicistica e rifiuto integralista è il disagio del cambiamento.

Ma quali effetti producono queste spinte?
“Il cambiamento da una parte fa sì che alcuni in un certo senso “lascino le redini”, si disinteressino o dicano di disinteressarsi, si mettano in posizioni che sono, alla fine, di difesa psicologica e di indifferenza rispetto ai grandi temi religiosi, e spinge altri, invece, ad arroccarsi in posizioni di difesa e di contrapposizione. Allora, il problema è abitare la transizione, e abitarla nel rispetto della dignità di quelli che ne sono i protagonisti, spesso con travagli di grande sofferenza, senza tuttavia perdere un orizzonte di senso e di speranza quale il credente non può non avere e non testimoniare.

In questo quadro, che valore ha avuto la presenza del papa?
“Credo che Benedetto XVI abbia colto esattamente questo aspetto, ed una delle ragioni del successo del suo viaggio in Turchia è che egli si è presentato a questo mondo con un’assoluta serenità di testimonianza. Non era il crociato: era il testimone religioso che ha pregato perfino nella moschea l’unico Dio. Questo ha sconvolto tutti gli schemi delle contrapposizioni, dicendo chiaramente no, in questo modo, ad ogni forma di integralismo e fondamentalismo. Al tempo stesso, egli ha mostrato come un uomo moderno, occidentale, estremamente preparato, culturalmente attrezzato come lui può rivolgersi a Dio con la semplicità del credente che totalmente gli si affida. E questo, in qualche modo, spiazza anche i laicisti che vedono nell’indifferenza religiosa l’unica possibile espressione di una ragione adulta. Tanto più la ragione è adulta, tanto più essa sa farsi umile e piccola davanti a Dio: questo ci ricorda papa Benedetto.

È possibile applicare le dinamiche che ha descritto all’Occidente cristiano?
“Certo, anche qui noi viviamo una transizione tra indifferentismo e radicalizzazione. E anche qui ciò che è sommamente necessario è una testimonianza di fede, di senso e di speranza, un cristianesimo mistico, che congiunge la mistica all’impegno storico e quindi solidale, un cristianesimo che di fronte alla folla delle solitudini, all’arcipelago dell’indifferenza, sa essere testimonianza di una koinonia, di una comunione fraterna, di una cattolicità”.

Restando in Occidente, un ultimo sguardo sull'Italia: in un suo articolo recentemente pubblicato dal Messaggero, lei ha salutato la visita del capo dello Stato a Benedetto XVI come un evento carico di simboli e ricco di punti di convergenza fra i due. Ed infatti in quell’occasione sembrò di poter leggere nelle parole del presidente Napolitano perfino un possibile impegno dell’Italia nel recupero dell’identità cristiana dell’Europa. Tuttavia, a distanza di appena una settimana, nell’elencare a Villa Madama la lista dei valori delineati nella possibile Costituzione per l’Europa lo stesso Presidente omette il riconoscimento delle radici cristiane: colpa di un’eccessiva timidezza del mondo politico italiano o i motivi sono più profondi?
“Credo che durante la visita dal papa, Napolitano abbia senza dubbio testimoniato un grandissimo rispetto per il potenziale spirituale ed etico che il Cattolicesimo rappresenta nella storia e nel presente del nostro Paese: non solo un rispetto, ma una valutazione della necessità e dell’importanza del suo contributo alla costruzione di una società più giusta e più umana per tutti. In questo senso si può vedere anche il suo riferimento, se si vuole, alla verità – che è peraltro una verità storica – del riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa. Naturalmente questo non significa che la transizione di cui prima parlavamo non giochi continuamente, ponendo nuove sfide: se per il credente convinto la bioetica, ad esempio, rappresenta un insieme di sfide assolutamente inedite, perché anche soltanto 20 anni fa i problemi che oggi ci poniamo in questo campo - non a caso intitolato con una parola per certi aspetti nuova come “bioetica” - erano assolutamente assenti, oggi sono problemi con cui bisogna confrontarsi, e su cui c’è dunque tutta una evoluzione di riflessione da portare avanti. Come possiamo pensare che questa identità cristiana, biblica e spirituale sia un’identità statica? È un’identità, ma un’identità che va a incontrare e raccogliere nuove sfide, ed ha bisogno di gettarvi luce e anche di ricevere luce”.


Nessun rischio di compromissione quindi…
“Assolutamente no: affrontare gli stessi problemi, affrontarli con coraggio, con umiltà, con ascolto reciproco non significa rinunciare alla Verità, che invece va sempre sommamente amata e cercata. Io credo che questa sia una distinzione molto importante: cioè ci sono delle questioni – per esempio alcune delle questioni della bioetica - sulle quali siamo tutti in ricerca, credenti e non credenti. Ci sono delle questioni su cui il credente ha il diritto e il dovere di una testimonianza irrinunciabile: la sacralità della vita dal primo all’ultimo istante della sua esistenza. Questo significa che non ci si può arroccare in posizioni di contrapposizione pura e semplice: occorre dialogare sui problemi comuni, vedere gli spazi possibili di un incontro per il bene e la crescita di tutti, non rinunciare mai però a testimoniare quella Verità su cui si gioca il senso della vita, non solo della vita di chi crede ma della vita di tutti. Questa è la grande sfida dell’ora presente, ed è a questa sfida che certamente il pontificato di Benedetto XVI si rivela particolarmente attrezzato proprio per lo spessore culturale del protagonista. Ma è l’intera comunità ecclesiale – e qui penso in modo particolare al nostro Paese, all'Italia - che deve essere all’altezza delle sfide culturali in atto, e in questa direzione va anche l’intuizione del cosiddetto “progetto culturale”.

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