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A proposito dell'articolo del cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, uscito su "L'Osservatore Romano" del 7 luglio scorso, pubblichiamo un intervento del Rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, e la replica del porporato.

La lingua del dialogo deve essere comune
di RICCARDO DI SEGNI

Nell'"Osservatore Romano" del 7 luglio, Sua Eminenza il Cardinale Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani, ha proposto alcune riflessioni sul significato della Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo che avrà luogo il 27 ottobre ad Assisi.

Le riflessioni del Cardinale coinvolgono il dialogo interreligioso e nell'ultima parte dell'articolo vi sono dei riferimenti ai rapporti con l'ebraismo. Su questi punti vorrei tornare, perché si tratta di aspetti essenziali e decisivi del problema del dialogo e delle sue regole. Il Cardinale scrive che la croce di Gesù "si erge sopra di noi come il permanente e universale Yom Kippur", e "pertanto la croce di Gesù non è di ostacolo al dialogo interreligioso; piuttosto, essa indica il cammino decisivo che soprattutto ebrei e cristiani [...] dovrebbero accogliere in una profonda riconciliazione interiore diventando così fermento di pace e di giustizia nel mondo". Ferma restando la condivisione degli obiettivi di pace e giustizia, temo che queste parole, benché ispirate da fraternità e da buona volontà, se non vengono spiegate meglio, possano denunciare i limiti di un certo modo di fare dialogo da parte cristiana. Per capire l'impatto che queste parole possano avere su un lettore ebreo, è necessaria qualche spiegazione. Yom Kippur, il giorno dell'espiazione di istituzione biblica, è una data fondamentale del calendario liturgico ebraico. È il giorno in cui è concessa la remissione dei peccati. Nel passaggio tra ebraismo e cristianesimo, quest'ultimo ha ripreso alcune ricorrenze dell'ebraismo (come la Pasqua), integrandone il significato con gli elementi della sua fede. Questo non è successo però per tutte le ricorrenze ebraiche autunnali, tra cui il Kippur; una possibile spiegazione di questa assenza è che la fede cristiana ha assorbito in sé il valore espiatorio del Kippur, che non le è più necessario; ed è quello che dice qui il Cardinale parlando della Croce; ma d'altra parte il fedele ebreo che continua a celebrare il Kippur afferma implicitamente che per lui la Croce non è necessaria. Ma allora che cosa c'è di problematico nelle parole del Cardinale, che in apparenza non fa che affermare i principi della sua fede? Se fosse solo così, non sarebbe criticabile; non si può certo chiedere, nella cornice del dialogo, che uno dei due interlocutori rinunci o nasconda o eviti di testimoniare la sua fede, per un malinteso senso di rispetto nei confronti dell'altro; il dialogo presuppone la differenza. Ma il punto è che bisogna vedere cosa ci si fa con la differenza. Mi pare di cogliere nelle parole del Cardinale, in tutto il suo articolo, prima di tutto la necessità di dimostrare alla propria comunità che la necessità e l'urgenza del dialogo sono radicate nei principi della fede; e fin qui è un impegno lodevole, anche perché può esistere una minoranza di cattolici che non condivide ancora queste idee. Ma ben diversa è la sua proposta all'interlocutore ebreo di farsi indicare "il cammino decisivo" da simboli che non condivide. Tanto più quando questi simboli vengono presentati come sostituzioni, con valore aggiunto, dei riti e dei simboli in cui crede l'interlocutore. Il credente cristiano può certamente pensare che la Croce rimpiazzi in modo permanente e universale il giorno del Kippur, ma se desidera dialogare sinceramente e rispettosamente con l'ebreo, per il quale il Kippur rimane parimenti nella sua valenza permanente e universale, non deve proporre all'ebreo le sue credenze e interpretazioni cristiane come indici del "cammino decisivo". Perché allora veramente si rischia di rientrare nella teologia della sostituzione e la Croce diventa ostacolo. Il dialogo ebraico-cristiano soffre inevitabilmente di questo rischio, perché l'idea della realizzazione delle promesse ebraiche è base della fede cristiana; quindi l'affermazione di questa fede contiene sempre un'implicita idea di integrazione, se non di superamento della fede ebraica. Questo anche quando si dichiara, con il Concilio e Nostra aetate, che le promesse al popolo ebraico sono irrevocabili. Ma la propria differenza non può essere proposta all'altro come il modello da seguire. In questo modo si supera un limite che nel rapporto ebraico-cristiano può sembrare sfumato ma che deve essere invalicabile. Perlomeno non è un modo di dialogare che possa interessare gli ebrei. Per usare un'espressione oggi molto comune, è come passare dall'et et all'aut aut. La lingua del dialogo deve essere comune e il progetto deve essere condiviso. Se i termini del discorso sono quelli di indicare agli ebrei il cammino della Croce, non si capisce il perché di un dialogo e il perché di Assisi.
(©L'Osservatore Romano 29 luglio 2011)


Ebrei e cattolici verso il prossimo incontro di Assisi

Sicuramente la Croce non è un ostacolo
di KURT KOCH

Posso capire che il Rabbino Capo Di Segni abbia reagito in maniera così sensibile al mio articolo sulla "Giornata di riflessione, dialogo e preghiera" ad Assisi. Difatti, vi si menzionava un tema che non solo è pesantemente connotato dal punto di vista storico ma costituisce anche oggi una difficile questione nel dialogo ebraico-cattolico. Pertanto, desidero offrire brevemente le seguenti riflessioni.

Il mio articolo si rivolgeva ai lettori cristiani, a cui volevo far presente il loro compito di riconciliarsi anche e precisamente con l'ebraismo, compito che deriva dall'essenza stessa della fede cristiana. È nella logica di questa fede la centralità fondamentale della croce di Gesù come fulcro della riconciliazione tra Dio e gli uomini. Ma è anche per l'amore nutrito nei confronti dell'ebraismo e per l'amicizia, degna di riconoscenza, che mi è stata testimoniata dal Rabbino Capo Di Segni, che ho voluto far riferimento alla croce, dato che questa è stata a lungo considerata come un grande ostacolo alla riconciliazione tra cristiani ed ebrei. Volevo infatti mostrare che, partendo precisamente dall'evento della croce, i cristiani hanno il dovere di riconciliarsi con gli ebrei. Per i cristiani la croce non può essere "un ostacolo al dialogo interreligioso". Se i rappresentanti di altre religioni e soprattutto gli ebrei, la vedono in tal modo, non sta a me giudicare; ciò si iscrive piuttosto nella libertà della convinzione religiosa di ognuno. Non ritengo assolutamente che gli ebrei debbano vedere la croce come noi cristiani per poter intraprendere insieme il cammino verso Assisi. Il fatto che Yom Kippur rappresenti una data fondamentale nel calendario liturgico ebraico e che rivesta un'importanza centrale per la fede ebraica è per me fuori discussione e lo rispetto. A me stava a cuore semplicemente il compito comune della riconciliazione e della pace, sapendo bene che per entrambe la motivazione è diversa negli ebrei e nei cristiani. Tutto ciò che esula da questo rispetto reciproco contraddirebbe lo spirito nel quale Papa Benedetto XVI rivolge il suo invito a partecipare alla Giornata di Assisi.

Alla luce di ciò, non si intende pertanto sostituire lo Yom Kippur ebraico con la croce di Cristo, anche se i cristiani vedono nella croce "il permanente e universale Yom Kippur". Ecco che viene qui toccato il punto fondamentale, molto delicato, del dialogo ebraico-cattolico, ovvero la questione di come si possano conciliare la convinzione, vincolante anche per i cristiani, che l'alleanza di Dio con il popolo d'Israele ha una validità permanente e la fede cristiana nella redenzione universale in Gesù Cristo, in modo tale che, da una parte, gli ebrei non abbiano l'impressione che la loro religione è vista dai cristiani come superata e, dall'altra, i cristiani non debbano rinunciare a nessun aspetto della loro fede. Senz'altro, tale questione fondamentale occuperà ancora a lungo il dialogo ebraico-cristiano; qui può essere menzionata solo brevemente. Tuttavia, essa non è sicuramente un ostacolo al fatto che cristiani ed ebrei, nel reciproco rispetto davanti alle rispettive convinzioni religiose, s'impegnino a promuovere la pace e la riconciliazione e s'incamminino insieme, così, verso Assisi.
(©L'Osservatore Romano 29 luglio 2011)


Nota di InternEtica

Il rischio che corre seriamente una certa ala post-conciliare della Chiesa, presente nelle esternazioni di molti vescovi (Zollitsch, ad esempio), è quella di considerare - del tutto impropriamente per usare un eufemismo - la Croce di Cristo solo come un grande atto di amore e solidarietà e non ciò che Essa è e compie: un atto di Amore, certamente, ma è un amore espiativo, oblativo, dono di sé fino alla fine, nel quale si fondono Giustizia e Misericordia insieme, da parte di Dio, e obbedienza e affidamento totali, da parte dell'uomo-Gesù per ogni uomo. In questo senso è il Kippur perenne; perché è il ripristino della Giustizia nel rovesciamento della disobbedienza originaria attraverso il duplice «Fiat», quello dell'Annunciazione ed il suo inscindibile rapporto col mistero del Getsemani, quando il Sovrano della Storia ha detto il «Fiat» della sofferenza e dell'unione con l'esistenza di tutti gli uomini, per liberare ogni uomo, ogni volta unico, dalla morte e farlo entrare in un'altra realtà di vita eterna.
E non si può ignorare che è proprio la Croce di Cristo la 'pietra di scandalo' sia per gli ebrei che per i non credenti. Stat Crux dum volvitur orbis.

Vedi anche:
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Maria Guarini, Visita di Benedetto XVI in Sinagoga: esternazioni e conseguenze
:: Mons. Brunero Gherardini - "Sugli ebrei, così serenamente"
:: G. Copertino - "Tra noi e loro la pietra angolare non il negazionismo"
:: F. Colafemmina - "Archivi e ipocrisie. L'antidefamation League e Pio XII"
:: Maria Guarini, Se non si esce dal sepolcro. Il Papa allo Yad Vashem
::
La preghiera per gli ebrei nella liturgia del Venerdì Santo

   
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