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Fisichella sul Corriere: «Torniamo all’essenziale»
di Gian Guido Vecchi

01/07/2010 - Nel giorno della nomina alla guida del Pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione, il rettore della Lateranense racconta «di una sfida che va raccolta come nei primi tempi della Chiesa» (Corriere della Sera, 1 luglio 2010)
 
Monsignor Rino Fisichella.
«Mi viene in mente una frase di Dostoevskij che dice più che mai la questione cruciale della fede oggi: “Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del Figlio di Dio, Gesù Cristo?”». L’arcivescovo Rino Fisichella sa di non avere davanti a sé un compito facile, «ma è una sfida che va raccolta come nei primi tempi della Chiesa e negli altri momenti di crisi nel corso della storia». Nel giorno in cui diventa ufficiale la scelta del Papa di affidargli una novità decisiva del suo pontificato, il Consiglio per la «nuova evangelizzazione» dell’Occidente, monsignor Fisichella è tempestato di congratulazioni, compresi i messaggi dei presidenti di Senato e Camera, Renato Schifani e Gianfranco Fini, e le telefonate di parlamentari di tutti gli schieramenti. Dopo il pellegrinaggio con deputati e senatori a Mosca e San Pietroburgo, a settembre, lascerà tuttavia anche l’incarico di «cappellano» della Camera, come già quelli di rettore della Lateranense e di presidente della Pontificia Accademia per la Vita, «per forza, non potrò dedicarmi ad altro...».

Eccellenza, Benedetto XVI ha parlato di «eclissi del senso di Dio» nella società, dei «tempi piuttosto difficili» che la Chiesa sta attraversando. La secolarizzazione, gli scandali. Che cosa può fare, la Chiesa?
È chiaro che stiamo vivendo un momento difficile. Però la cosa bella è che la crisi fa diventare di nuovo progettuali.

E qual è, il progetto?
Tornare all’essenziale: mettere al centro l’annuncio di Gesù. Vede, l’eclissi diffusa del senso di Dio ha portato anche noi uomini di Chiesa a smarrirci in un labirinto che in alcuni ha fatto perdere di vista l’obiettivo principale: dobbiamo recuperare la missione della Chiesa, che è appunto l’evangelizzazione.

Il Papa ripete che il «pericolo più grave» per la Chiesa proviene dal male al suo interno. Si tratta di questo?
Certo, ci sono i casi di pedofilia e, più in generale, i casi di distrazione dagli obiettivi essenziali che portano ad impelagarci in tante situazioni estranee: se la Chiesa dimentica il suo scopo, la sua natura, se dimentica di annunciare la salvezza e dare speranza all’uomo di oggi, allora è inevitabile che diventi uno dei tanti gruppi presenti nella società. E finisca per perdersi in quel labirinto che la allontana dalla sua missione.

Si espone al male?
Si espone al rischio di essere un gruppo come tanti. Di diventare un gruppo sociale. Ma noi non siamo questo: fin dai primi tempi, la Chiesa si è distinta da qualsiasi altra comunità perché celebrava l’Eucarestia, annunciava la parola di Dio e testimoniava la carità. E l’annuncio del Vangelo al mondo contemporaneo richiede testimoni credibili.

È anche un problema di tentazione del potere?
Quando diciamo tornare all’essenziale, diciamo tutto. Una parola spiega ogni cosa: tenere lo sguardo fisso su Gesù Cristo. Perché così riusciamo a leggere in maniera diversa la nostra presenza nel mondo e capire maggiormente le esigenze dell’uomo. Del resto, la Chiesa vive di purificazione e rinnovamento.

Che cosa le ha detto, il Papa?
Ho avuto conferma della sua visione molto chiara, lucida e profonda di quello che dovrebbe essere il nuovo Pontificio Consiglio. Ma non c’era bisogno di conferme: Joseph Ratzinger è una grande personalità nel mondo teologico e culturale che più di tanti altri, da diversi anni, ha studiato e compreso la secolarizzazione. Adesso, come Papa, sa bene qual è il compito della Chiesa.

Ma come si muoverà il nuovo Consiglio?
Si tratta di impegnarsi su due fronti. Da una parte, la collaborazione con i dicasteri che per diversi aspetti già lavorano in questo ambito nella Santa Sede. Dall’altro un lavoro con le conferenze episcopali e le Chiese in Europa, nell’America del Nord e del Sud, in Australia, insomma in tutto ciò che di fatto è Occidente, le chiese di antica fondazione almeno come tradizione. La nuova evangelizzazione si rivolge ai Paesi già “credenti”, dove ci sono battezzati ma si fa strada l’indifferentismo, l’allontanamento dalla Chiesa e dalla pratica religiosa, il relativismo etico...

E quindi?
È un’opera in costruzione, dobbiamo riflettere e trovare gli strumenti, i linguaggi e le forme perché l’annuncio di Gesù possa ancora suscitare la fede nell’uomo contemporaneo. A breve, il Papa stesso ci darà indicazioni e competenze nella sua lettera apostolica di fondazione del nuovo Consiglio.

Come si fa, con un dicastero?
Non verrà calato nulla dall’alto. È importante chiarire una cosa: non si comincia da capo, in tutte le Chiese c’è una grande vitalità, sono sorti movimenti e associazioni, ci sono le parrocchie e il volontariato. E nostro compito sarà leggere tutto questo fermento e farlo diventare un progetto comune e unitario, nel rispetto delle diverse tradizioni.

Ma è vero che siamo in una situazione analoga ai primi secoli?
A Parigi, al Collège des Bernardins, il Papa lo ha detto chiaro: la nostra cultura si è formata grazie al quaerere Deum, alla ricerca di Dio. Il compito che ci aspetta è questo: e non significa demonizzare le culture del nostro tempo, che al contrario vanno lette e comprese per fare emergere la capacità di cercare Dio. D’altra parte la cultura dei Paesi in Occidente è impregnata di cristianesimo, occorre mostrare questa tensione, perché l’uomo di oggi ha bisogno di Dio: altrimenti non sa dove andare né riesce a capire se stesso.

Benedetto XVI richiamava il «programma conciliare»...
Questa sfida è una conseguenza inevitabile del Concilio Vaticano II. Penso al documento più bello e innovativo, la Dei Verbum, lo sforzo di riproporre la Rivelazione.

Ce la farà, la Chiesa?
Come ha detto Benedetto XVI: la Chiesa è giovane, resta giovane. Lo scriveva anche Wojtyla nella Novo Millennio Ineunte: in questi duemila anni, il passo dei credenti non si è stancato. Siamo giovani.
 

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