Saggistica - Il libro:
Renzo Guolo, “Xenofobi e xenofili. Gli italiani e l’islam”,
Laterza, Bari, 2003, pagine 182, euro 14,00
«Tra i musulmani esistono una
"maggioranza silenziosa" moderata e una "minoranza
intensa" di ispirazione fondamentalista che può politicizzare anche
la prima, se non si progetta l'integrazione»
Pubblichiamo
una intervista dell'autore e un passo del testo recensito
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Proporre
un patto che preveda la concessione della cittadinanza in cambio
dell’adesione ai valori della Costituzione Parla il sociologo Guolo
L'islam d'Italia, sotto la sua apparente monoliticità, è una realtà
multiforme e divisa. Che a sua volta divide l'Italia, incapace di proporre
un modello efficace di integrazione per i settecentomila musulmani che
hanno messo radici nel Paese. Renzo Guolo, docente di sociologia e di
sociologia della religione all'università di Trieste e grande conoscitore
di questa realtà, con il suo ultimo libro «Xenofobi e xenofili»
descrive in maniera efficace gli atteggiamenti degli italiani di fronte
all'islam di casa nostra, mettendo in evidenza che dietro l'incapacità di
governare il fenomeno sta una coscienza debole di cosa significhi essere
una nazione.
Per rispondere alla sfida dell'immigrazione, e in particolare
dell'islam che ha messo radici in Europa, la Francia ha scelto la strada
dell'assimilazione all'insegna della laicità dello Stato, la Gran
Bretagna quella del pluralismo che riconosce le differenze culturali, la
Spagna sta sperimentando un modello di tipo concordatario. E l'Italia che
fa?
«Finora ha scelto di non scegliere, lasciando andare pericolosamente alla
deriva un pezzo di società che sta vivendo una stagione di grande
fermento. Nella comunità islamica, accanto a una "maggioranza
silenziosa" che pratica la fede a livello individuale e familiare ed
è poco interessata alle sue espressioni pubbliche e politiche, c'è una
"minoranza intensa" di ispirazione fondamentalista che rivendica
la presenza islamica sulla scena pubblica ed egemonizza il cosiddetto
"islam organizzato", costituito da associazioni, moschee e sale
di preghiera. All'interno di questa minoranza intensa si muove poi una
realtà di piccoli gruppi radicali che agiscono mimetizzandosi nella rete
delle moschee, arruolando fratelli disponibili a combattere il jihad e
talvolta creando appoggi logistici per i combattenti. Le leadership che
costituiscono la minoranza intensa cercano di mantenere una certa
separazione dalla società italiana nel tentativo di impedire
contaminazioni con un contesto culturale ritenuto "empio", e
lavorano per la "re-islamizzazione" dell'intera comunità».
Se la minoranza intensa prevale sulla maggioranza silenziosa, non c'è
il rischio che in questo modo si creino dei ghetti islamici nelle nostre
città?
«Proprio così: tanto più un gruppo è dis-integrato, esterno alla
società, tanto meno funzionano il controllo sociale e la prevenzione.
Bisogna evitare la politicizzazione in senso islamista della comunità
musulmana che vive in Italia, in cui si rischia di precipitare a causa del
duplice e convergente rifiuto dell'integrazione da parte sia di molte
componenti della società italiana sia delle leadership islamiste, decise
entrambe a coltivare un ideale di separatezza. In questo modo il nostro
Paese rischia di trasformarsi in una sorta di Italianistan, costruito da
una comunità non comunicante e potenzialmente conflittuale».
Come superare questa impasse?
«Ci vuole il coraggio di proporre un patto di cittadinanza, uno
scambio che prevede il riconoscimento pubblico delle diversità
compatibili con l'ordinamento giuridico, in cambio dell'adesione piena ai
valori civili iscritti nella Costituzione. Non ci possono essere deroghe -
magari in nome di un multi-culturalismo che enfatizza il rispetto delle
differenze - al rispetto di principi che fondano i nostri codici giuridici
come la democrazia, la libertà religiosa, la parità uomo-donna. Ma ciò
implica da parte nostra un sentire comune, una chiarezza sull'identità
nazionale che invece mi sembra vacillante e confusa. Come possiamo
proporre un modello ai musulmani se non siamo certi di ciò che fonda il
nostro passato e il nostro presente?».
Che ne pensa della proposta avanzata tempo fa da Pisanu, di dare vita a
un patto con l'islam moderato per favorire l'integrazione dei musulmani?
«Quella indicata dal ministro dell'Interno è la strada giusta, ma c'è
il rischio che alle dichiarazioni di principio non segua un confronto
serrato che acceleri un processo di integrazione finora troppo incerto e
contraddittorio. E poi c'è da sciogliere il nodo della rappresentanza,
particolarmente intricato in una religione senza gerarchia: chi
rappresenta l'islam in Italia? Chi sono i moderati con cui si dovrebbe
trattare? Da noi come in altri Paesi europei le reti associative e i
luoghi di culto sono in mano ai fondamentalisti e c'è il pericolo che lo
Stato, interloquendo con loro come espressione istituzionale, privilegi
proprio le "minoranze intense" votate più alla separatezza che
all'integrazione. Per questo si deve favorire un dibattito interno ai
musulmani perché possano nascere leadership alternative».
Quali sono i terreni sui quali è possibile costruire più facilmente
una strategia di integrazione?
«A livello politico l'integrazione funziona se riesce a produrre un certo
grado di lealtà degli immigrati nei confronti dello Stato, e questo
implica che alla base dello scambio ci sia, come contropartita, la
concessione della cittadinanza. L'Italia è rimasto ormai l'unico grande
Paese europeo a fondare la cittadinanza sul diritto di sangue: si è
italiani per discendenza e non per condivisione dei principi
costituzionali. Credo che quanto più i musulmani immigrati nel nostro
Paese saranno musulmani italiani, tanto più sarà possibile per loro
acquisire una cultura rispettosa della democrazia e tanto più potrà
aumentare la loro lealtà nazionale. C'è inoltre un livello culturale
dell'integrazione, in cui la scuola gioca un ruolo fondamentale. Gli
studenti musulmani sono 60mila, il 40% della popolazione straniera tra i
banchi, tra 15 anni saranno circa 200mila. È soprattutto con loro che si
gioca la scommessa di una generazione che conosca e apprezzi la società
in cui vive. I docenti invece devono fare i conti con direttive che troppo
spesso si limitano alle enunciazioni di principio. Tra i nostri insegnanti
manca personale con competenza specifica, i corsi di formazione sono una
rarità. Insomma, anche con l'islam si vive all'italiana».
Chiesa e
islam nella visione di Giovanni Paolo II
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Nonostante i conflitti e le persecuzioni che nel mondo vedono i cristiani
vittime dei musulmani, Giovanni Paolo II non sembra nutrire alcuna paura
dell’islam. Per Karol Wojtyla il dialogo religioso è necessario per
costruire il bene comune dell'umanità. Esso poggia sulla consapevolezza
che vi sono valori comuni a ogni cultura, in quanto radicati nella natura
della persona. La difesa della famiglia, il rifiuto dell’aborto, la pace
sono solo alcuni di essi. Il papa ha più volte dichiarato che egli si
rivolge “all’autentico islam religioso, l’islam che prega, l’islam
che sa farsi solidale con chi ha bisogno”.
Il papa è mosso, oltre che da intima convinzione, dalla necessità di
tutelare le comunità cristiane nei paesi della Mezzaluna e
dall’esigenza di evitare che l’islam si schiacci su posizioni
fondamentaliste. Prospettiva che condurrebbe a quello scontro di civiltà
che Wojtyla giudica nefasto per le sorti dell’umanità. Chiedendo scusa
per le crociate o facendo gesti clamorosi come pregare nella moschea degli
Omayyadi a Damasco, in origine basilica cristiana, Giovanni Paolo II ha
cercato di tenere aperto il dialogo con il mondo musulmano. Così come ha
fatto promuovendo gli incontri tra le religioni ad Assisi nel 1986 e nel
2002. E così come ha fatto schierando decisamente la Chiesa contro
l’intervento militare americano in Iraq.
La linea del papa, che nel mondo cattolico qualcuno definisce
“oltranzismo dialoghista”, genera però una critica diffusa tra i
vescovi e nella stessa curia romana. Secondo queste posizioni, Giovanni
Paolo II parla, illusoriamente, a interlocutori che non possono garantire
alcuna linea di condotta per la umma musulmana. In quanto ”religione
senza centro”, l’islam è privo di autorità in grado di vincolare i
comportamenti dei suoi fedeli. Secondo gli oppositori del dialogo,
confidare in simili compagni di preghiera del papa è speranza vana, dal
momento che rappresentano solo sé stessi. Purificando la memoria storica
della Chiesa, chiedendo perdono per le crociate, ossequiando i
“persecutori” dei cristiani, il papa, secondo i suoi critici, espone
la Chiesa a pesanti umiliazioni. Inoltre, trasforma l’ecumenismo in una
sorta di sincretismo in cui una religione sembra valere l’altra. È una
critica dura, che per rispetto dell’autorità papale e delle condizioni
dì salute di Giovanni Paolo II non si manifesta come dissenso aperto ma
segna, comunque, profondamente il corpo ecclesiale.
La linea del papa fu respinta dalla maggioranza dei cardinali proprio nel
concistoro del 1994 in cui Giovanni Paolo II espresse l’intenzione di
chiedere perdono per le “colpe” dei suoi predecessori. Ma nonostante
il parere contrario di molti settori ecclesiali, non solo quelli
apertamente tradizionalisti, il papa decise di proseguire su quella linea.
Nel silenzio ostile di molti: tra loro quelli che ricordano come Wojtyla,
uso a intervenire su tutti i temi, abbia steso un velo di silenzio sulle
persecuzioni dei cristiani nei paesi musulmani.
Secondo i critici, nonostante Giovanni Paolo II abbia chiesto il rispetto
dei diritti umani , tra i quali la libertà religiosa, anche al mondo
islamico, è l’aspetto del “dialogo a ogni costo” il tratto
saliente, e non condiviso, della linea papale. Ma convinto
dell’impossibilità di far progredire il dialogo tra religioni mediante
strategie già usate in passato, Wojtyla ha ignorato queste critiche. Egli
sembra ritenere che solo il gesto profetico, la prospettiva utopica, lo
slancio mistico nutrito di un intensa spiritualità possano realizzare
quell’obiettivo. A costo di umiliare la Chiesa facendosi carico delle
colpe del passato, nella speranza che anche gli altri, a loro volta,
ammettano prima o poi le proprie.
La linea papale sull’islam muta di tono sul tema della società
multietnica. Qui Wojtyla afferma che occorre individuare principi etici di
fondo capaci di regolare la convivenza all’interno di quel tipo di
società. Per il papa le istanze culturali degli immigrati vanno
rispettate e accolte; ma solo se non si pongono “in antitesi ai valori
etici universali, insiti nella legge naturale, e ai diritti umani
fondamentali”. Giovanni Paolo II ricorda che il diritto degli immigrati
al riconoscimento giuridico di specifiche espressioni culturali è legato
alla “valutazione del bene comune” in un dato momento storico e in una
data situazione territoriale e sociale. Il richiamo permette al papa di
sottolineare l’importanza del legame tra cultura e territorio. Per
Woyitla occorre garantire a un territorio un certo "equilibrio
culturale”, in rapporto alla cultura prevalente. Equilibrio che, nel
rispetto dei diritti fondamentali delle minoranze, prevede la continuità
di una determinata "fisionomia culturale". Ovvero di quel
patrimonio di lingua, tradizioni e valori che si legano generalmente
all'esperienza della nazione e al senso della patria. Se ne deduce, ad
esempio, che l’equilibrio culturale della “cattolica Italia” non
debba essere alterato dalla presenza islamica.
Ma l’esigenza di "equilibrio culturale" di un territorio,
ricorda Wojtyla – in questo quasi sconfessando il cardinale Giacomo
Biffi, – non può essere soddisfatta con strumenti legislativi. Questi
non sono efficaci se privi di fondamento nell'ethos della nazione; e sono
destinati a cambiare quando una cultura perde forza. Per il papa occorre,
invece, mantenere viva e vitale la cultura e l’identità cristiana della
nazione. Solo così essa non verrà sopraffatta, mentre nessuna legge
potrebbe tenerla in vita artificiosamente. La linea di Giovanni Paolo II
sulla società multietnica è quella della sfida tra identità religiose
forti, più che quella dell’Europa fortezza. Egli non invoca la legge ma
il confronto sui valori, opponendo carisma a norma. Una linea legata più
al suo personale carisma che alle convinzioni dei vertici della Chiesa
italiana.
Conclusione
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Concludiamo con la
notizia, di questi giorni, di ciò che si muove a livello mondiale tra
persone di buona volontà, consapevoli delle difficoltà che nascono
delle divisioni e dalle intolleranze e desiderose di trovare insieme le
soluzioni di dialogo, confronto e impegno comune per i problemi
ineludibili del nostro tempo: ci sembra una realtà importante che fa da
sfondo ai precedenti capitoli. È nostra convinzione, tuttavia, che per
la realizzazione di veri e significativi cambiamenti non bastino gli
incontri al vertice di rappresentanti ad alto livello, ricchi di
profonde verità e progetti di prassi positive; è arrivato, crediamo,
il momento di sensibilizzare e coinvolgere "la base",
altrimenti le bellissime conclusioni che ci riempiono di speranza
rischiano di non tradursi mai in vita quotidiana e vera, concreta
condivisione di spazi ed esperienze di giustizia e di pace.
“Tra guerra e pace: religioni e culture si
incontrano”: questo il tema del “XVII Meeting Internazionale Uomini e
Religioni” promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Diocesi di Aachen
che si è svolto dal 7 al 9 settembre ad Aachen (Aquisgrana). Il Meeting, che
come sottolineano gli organizzatori, si svolge nel cuore dell’Europa ed ha al
centro la nuova Europa, mentre è in corso l’approvazione definitiva della sua
Carta costituzionale e la messa a punto della sua identità e del suo ruolo
internazionale.
Più di cinquecento leader delle grandi religioni mondiali provenienti da 50
paesi, nel solco della storica Giornata Mondiale di preghiera per la pace di
Assisi del 1986, parteciperanno a questo appuntamento per rispondere alle sfide
principali di questo inizio di secolo, in più di 30 Forum. Alcuni dei temi
affrontati riguardano: L’Europa davanti al suo futuro; Le religioni e
l’ambiente; La preghiera alla radice della pace; Laici e credenti: incontro e
differenze; Cattolici e Ortodossi: la sfida dell’ecumenismo;
Asia: le
religioni per la pace; Religioni in Africa; Musulmani e cristiani: come vivere
insieme; Quale eredità dei martiri per il XXI secolo. [Testo
del messaggio del Papa]
Tra i presenti, il Segretario Generale dell'Organizzazione
Internazionale della Francofonia Abdou Diouf; Ahmad At-Tayyib, Gran Mufti
d'Egitto; Israel Meir Lau Ex Rabbino Capo di Israele; ed inoltre oltre 15
Cardinali e Patriarchi della Chiesa cattolica, rappresentanti di tutte le Chiese
ortodosse (tra cui una delegazione del Patriarcato di Mosca guidata dal
metropolita Kirill), Konrad Raiser Segretario Generale del Consiglio Ecumenico
delle Chiese, il Segretario generale della Lega Mondiale Islamica,
Rappresentanti e personalità dell’ebraismo e delle religioni Buddista,
Induista, Zoroastriana, Scintoista, Ministri di Stato, intellettuali e scrittori
di diversi Paesi.
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