Ho il privilegio di trasmettere
all’arcivescovo di Canterbury, il dottor
Rowan Williams, a ognuno dei presenti e a
tutti i partecipanti a questa
importantissima Conferenza di Lambeth i
saluti di Papa Benedetto XVI e di tutti
membri del Pontifico Consiglio per la
Promozione dell’Unità dei Cristiani. Tutti
noi vi siamo accanto in questi giorni. Siamo
con voi nei nostri pensieri e nelle nostre
preghiere e desideriamo esprimere profonda
solidarietà per le vostre gioie, le vostre
preoccupazioni e le vostre pene.
Permettetemi di cominciare ringraziando
l’arcivescovo di Canterbury e quanti
coordinano i rapporti ecumenici presso il
Lambeth Palace e l’Anglican Communion Office
per l’invito a partecipare a questo
importante incontro e per l’opportunità di
offrire alcune riflessioni sulle nostre
comuni preoccupazioni. È un punto di forza
dell’anglicanesimo il fatto che, anche in
circostanze difficili, avete chiesto le
opinioni e i punti di vista degli
interlocutori ecumenici, anche se non siete
stati particolarmente lieti di quanto
abbiamo detto. Tuttavia siate certi del
fatto che ciò che sto per dire lo dirò da
amico.
Quando ho visto l’argomento che avete
proposto «Riflessioni cattolico-romane sulla
Comunione Anglicana» ho pensato che avreste
potuto sceglierne uno più facile. È un
titolo di ampio respiro che comprende molti
aspetti della storia e della dottrina e io
posso affrontarne solo alcuni. Tuttavia, mi
sembra che vi sia una questione nascosta nel
titolo che non è interessato tanto a cosa i
cattolici pensano della Comunione Anglicana
quanto a cosa pensano della Comunione
Anglicana nelle attuali circostanze.
Esistono decisamente argomenti meno scomodi.
Il mio intervento è suddiviso nelle seguenti
tre parti: una descrizione dei nostri
rapporti negli ultimi anni, considerazioni
di natura ecclesiologica alla luce della
situazione attuale nell’anglicanesimo e una
breve riflessione sulle questioni alla base
delle attuali controversie e dei motivi di
scontro in seno all’anglicanesimo, in
particolare su quelle che hanno anche avuto
conseguenze sui vostri rapporti con la
Chiesa cattolica.
Infine, risponderò a una domanda piuttosto
inaspettata che mi ha posto alcuni mesi fa
l’arcivescovo di Canterbury. Quella domanda
mi ha confuso molto, eccola: che tipo di
anglicanesimo vuoi? Che domanda! Spero che
conosciate la risposta giusta! E poi: quali
sono le speranze della Chiesa cattolica per
la Comunione Anglicana nei prossimi mesi e
anni? In questo caso la risposta è più
facile: speriamo di non venire messi da
parte e di poter continuare ad avere un
dialogo serio alla ricerca della piena unità
affinché il mondo creda.
I. Descrizione dei rapporti negli ultimi
anni
In questa prima parte permettetemi di
rinfrescarvi la memoria per non dimenticare
che cosa e quanto abbiamo già raggiunto
negli ultimi quarant’anni. Quando il
concilio Vaticano ii, nel suo decreto
sull’ecumenismo, prestò attenzione alle
numerose «Comunioni sia nazionali sia
confessionali» che «si separarono dalla Sede
romana» nel XVI secolo, riconobbe che «tra
quelle nelle quali continuano a sussistere
in parte le tradizioni e le strutture
cattoliche, occupa un posto speciale la
Comunione Anglicana» (Unitatis redintegratio,
n. 13). Questa dichiarazione si basa su
un’idea ecclesiologica secondo la quale dal
punto di vista cattolico la comunione
anglicana ha elementi significativi della
Chiesa di Gesù Cristo. Nella loro
Dichiarazione Comune del 1977 l’arcivescovo
di Canterbury Donald Coggan e Papa Paolo VI
identificarono alcuni di quegli elementi
ecclesiali e scrissero:
«Da quando la Chiesa cattolica romana e le
Chiese che formano la Comunione Anglicana
hanno cercato di crescere nella mutua intesa
e nell’amore cristiano, esse sono giunte a
riconoscere, valutare e rendere grazie per
una comune fede in Dio nostro Padre, nel
nostro Signore Gesù Cristo e nello Spirito
Santo, per il nostro comune battesimo in
Cristo, per la nostra partecipazione alle
Sacre Scritture, ai Simboli apostolico e
niceno, alla definizione calcedonense e
all’insegnamento dei Padri, per la nostra
comune e plurisecolare eredità cristiana con
le sue viventi tradizioni di liturgia,
teologia, spiritualità e missione».
In questo testo, l’arcivescovo Coggan e Papa
Paolo VI indicano il terreno comune, la
fonte comune e il centro della nostra unità
già esistente, ma ancora incompleta: Gesù
Cristo e la missione di annunciarlo a un
mondo così disperatamente bisognoso di Lui.
Non parliamo di un’ideologia, di un’opinione
personale condivisibile o meno. Parliamo
della nostra fedeltà a Cristo, testimoniata
dagli apostoli, e al suo Vangelo che ci è
stato affidato. Quindi, fin dall’inizio
dovremmo ricordare che cosa è in gioco
mentre continuiamo a parlare della fedeltà
alla tradizione e alla successione
apostoliche, quando parliamo del triplice
ministero, dell’ordinazione delle donne e
dei comandamenti morali. Non stiamo parlando
d’altro che della nostra fedeltà a Cristo
stesso, che è il nostro unico e comune
maestro. E cos’altro può essere il nostro
dialogo se non un’espressione del nostro
intento e del nostro desiderio di essere
pienamente una sola cosa in Lui al fine di
essere testimoni totalmente uniti del suo
Vangelo?
Si è spesso detto, e vale la pena ribadirlo,
che il dialogo è stato reso dinamico dal
desiderio di restare fedeli alla volontà
espressa da Cristo che i suoi discepoli
fossero una cosa sola, proprio come egli è
una cosa sola con il Padre, e che questa
unità si legasse direttamente alla missione
di Cristo, la missione della Chiesa, per il
mondo: che siano una cosa sola perché il
mondo creda. Le divisioni fra noi hanno
gravemente ostacolato la nostra
testimonianza e la nostra missione ed è
stato per fedeltà a Cristo che ci siamo
impegnati in un dialogo basato sul Vangelo e
sulle antiche comuni tradizioni con
l’obiettivo della piena unità visibile.
Tuttavia, la piena unità non è stata e non è
tuttora un fine in sé, ma è un segno e uno
strumento di ricerca dell’unità con Dio e
della pace nel mondo.
Pensando a questo, quando ricordiamo gli
obbiettivi raggiunti dalla Commissione
Internazionale Anglicana Cattolica Romana (Arcic)
nel corso di circa quattro decenni, possiamo
affermare con fiducia che ha veramente
recato buoni frutti. In una prima fase l’Arcic
(1970-1981) affrontò i temi "Dottrina
sull’eucaristia" (1971) e "Ministero e
ordinazione" (1973), e, per entrambi gli
argomenti, sostenne di aver raggiunto un
accordo sostanziale.
La risposta ufficiale cattolica (1991), pur
richiedendo uno studio ulteriore su entrambi
gli argomenti, definì quei testi
«significative pietre miliari» attestanti
«il raggiungimento di punti di convergenza e
perfino di accordo che molti avrebbero
ritenuto impossibile raggiungere prima che
la Commissione cominciasse a lavorare». Le
autorità cattoliche ritennero che il
documento "Chiarificazioni su eucaristia e
ministero" (1993), redatto dai membri della
commissione, avesse «rafforzato molto
l’accordo su certi argomenti». La prima fase
dell’Arcic produsse anche due dichiarazioni
sul tema "Autorità nella Chiesa" (1976,
1981), tema al centro delle divisioni del
XVI secolo.
Sebbene i testi della seconda fase dell’Arcic
(1983-2005) non siano stati presentati, per
una risposta formale, nella Chiesa cattolica
né nella Comunione Anglicana, e non abbiano
portato a una risoluzione definitiva o a un
pieno consenso sulle questioni affrontate,
ognuno di loro ha suggerito un crescente
riavvicinamento. Il documento "La salvezza e
la Chiesa" (1986) è per molti versi in
sintonia con la Dichiarazione Comune sulla
Dottrina della Giustificazione, firmata
dalla Chiesa cattolica e dalla Federazione
Luterana Mondiale nel 1999. Basandosi
sull’idea ecclesiale di koinonìa proposta
per la prima volta nell’introduzione del
Rapporto finale dell’Arcic I, l’Arcic II ha
presentato il suo lavoro più maturo
sull’ecclesiologia in "La Chiesa come
Comunione" (1991).
Il documento "Vita in Cristo" (1994) è
riuscito a individuare una visione condivisa
e un’eredità comune di insegnamento etico,
nonostante le diverse applicazioni pastorali
dei principi morali. "Il dono dell’autorità"
(1998) ha ripreso il tema dell’autorità e ha
compiuto importanti progressi sulla
necessità di un ministero universale di
primato nella Chiesa. "Maria: grazia e
speranza in Cristo" (2004) ha compiuto
importanti passi avanti verso una idea
comune della Beata Vergine Maria.
Come ben sapete, l’ordinazione delle donne
al sacerdozio in alcune province anglicane,
a cominciare dal 1974, e all’episcopato, dal
1989, ha complicato molto i rapporti fra la
Comunione Anglicana e la Chiesa cattolica.
Ritornerò sul tema a tempo debito. Pensando
a questo ostacolo e cercando di determinare
che cosa fosse in ogni caso possibile nella
promozione dei nostri rapporti, fu presa
un’iniziativa importante non molto tempo
dopo l’ultima conferenza di Lambeth.
Nel maggio del 2000, il mio predecessore, il
cardinale Edward Idris Cassidy, e
l’arcivescovo George Carey, invitarono
tredici primati anglicani e i presidenti
delle Conferenze episcopali cattoliche, o i
loro rappresentanti, a Mississagua, in
Canada, per valutare quanto raggiunto nel
dialogo dell’Arcic, e per offrire, alla luce
dei risultati positivi e delle difficoltà
che avevano contraddistinto i nostri
rapporti, raccomandazioni per eventuali,
ulteriori progressi.
Ho partecipato a numerosi incontri ecumenici
e sono lieto di affermare che quello fu uno
dei migliori a cui abbia mai preso parte. Lo
spirito di preghiera e di amicizia, la seria
riflessione non solo sull’opera dell’Arcic,
ma anche sui rapporti ecumenici in ogni
particolare regione rappresentata, il
desiderio profondo di riconciliazione che
pervase l’incontro di Mississagua
rinnovarono la speranza di un significativo
progresso nei rapporti fra la Comunione
Anglicana e la Chiesa Cattolica.
Uno dei risultati dell’incontro di
Mississagua è stato la creazione della
Commissione Anglicana-Cattolica Romana per
l’Unità e la Missione (Iarccum),
principalmente composta da vescovi. Nello
scorso fine settimana di questa Conferenza
di Lambeth avete studiato la dichiarazione
della Iarccum Crescere insieme in unità e
missione. Sintetizzando l’opera dell’Arcic
questo documento presenta la valutazione
della Commissione dei risultati del nostro
dialogo e individua le questioni ancora da
affrontare.
Negli ultimi quarant’anni non ci siamo solo
impegnati insieme nel dialogo teologico. Si
è infatti creato uno stretto rapporto di
collaborazione fra anglicani e cattolici,
non solo a livello internazionale, ma anche
in molti contesti regionali e locali. Come
hanno osservato Papa Benedetto XVI e
l’arcivescovo Williams nella Dichiarazione
Comune del novembre 2006: «Mentre il dialogo
si sviluppava, molti cattolici e anglicani
hanno trovato gli uni negli altri un amore
per Cristo che ci invita a una cooperazione
e a un servizio concreti. Questa comunanza
nel servizio di Cristo, sperimentata da
molte delle nostre comunità in tutto il
mondo, aggiunge ulteriore impulso ai nostri
rapporti».
Invero, non è affatto una piccola cosa
quella che abbiamo raggiunto e che ci è
stata concessa in anni di dialogo nell’Arcic
e nella Iarccum. Siamo grati per l’opera di
queste commissioni e noi cattolici non
vogliamo che tali risultati vadano perduti.
Di fatto desideriamo proseguire lungo questo
cammino e portare a compimento quanto
iniziato quarant’anni fa.
A maggior ragione, fedele a ciò che credo
Cristo desideri e, aggiungerei, con la
sincerità che l’amicizia permette, mi
rattrista osservare i problemi in seno alla
Comunione Anglicana emersi e divenuti più
gravi dall’ultima Conferenza di Lambeth e le
ripercussioni di natura ecumenica di tali
tensioni interne. Nella seconda parte di
questo intervento desidero affrontare una
serie di aspetti ecclesiologici derivanti
dall’attuale situazione nella Comunione
Anglicana e sollevare alcune questioni
complesse e scottanti.
Tuttavia prima desidero ripetere quanto
dissi nel novembre 2006 all’arcivescovo di
Canterbury, giunto a Roma per fare visita a
Papa Benedetto XVI: «Le questioni e i
problemi dei nostri amici sono anche
questioni e problemi nostri». Quindi sollevo
tali questioni non da giudice, ma da
interlocutore ecumenico che è profondamente
scoraggiato dai recenti sviluppi e che
desidera offrirvi una riflessione onesta,
dal punto di vista cattolico, su come e dove
possiamo progredire nella situazione
attuale.
II. Considerazioni ecclesiologiche
In questa seconda parte non voglio fare una
dissertazione magisteriale
sull’ecclesiologia. Desidero ricordarvi
ancora una volta alcune intuizioni comuni
degli ultimi decenni che possono, o
dovrebbero, essere utili nel trovare un modo
di proseguire, che si spera comune.
Le questioni ecclesiologiche sono state a
lungo un motivo grave di scontro fra le
nostre due comunità. Già da giovane studente
analizzavo tutte le argomentazioni
ecclesiologiche di John Henry Newman, che lo
spinsero a diventare cattolico. Le sue
principali preoccupazioni riguardavano
l’apostolicità nella comunione con la sede
di Pietro come custode della tradizione
apostolica e dell’unità della Chiesa. Penso
che i suoi interrogativi siano ancora
attuali e che il dibattito non sia ancora
esaurito.
Mentre Newman affrontava la Chiesa
d’Inghilterra della sua epoca, oggi ci
troviamo di fronte a ulteriori problemi
nella Comunione Anglicana, composta da
quarantaquattro Chiese nazionali e
regionali, ognuna dotata di auto-governo.
L’indipendenza senza una sufficiente
interdipendenza è divenuta ora un problema
grave.
Due anni fa, la dichiarazione della Iarccum
"Crescere insieme nell’unità e nella
missione" affrontò la situazione in seno
alla Comunione Anglicana e le sue
implicazioni di natura ecumenica come segue:
«Dopo l’incontro di Mississagua le Chiese
della Comunione Anglicana sono entrate in
una fase caratterizzata da dispute scatenate
dall’ordinazione episcopale di una persona
pubblicamente impegnata in un rapporto con
un’altra persona del suo stesso sesso e
dall’autorizzazione di riti pubblici per la
benedizione di unioni omosessuali. Tali
questioni hanno promosso la riflessione
sulla natura del rapporto fra le Chiese
della Comunione [...] Inoltre, i rapporti
ecumenici sono divenuti più complicati
perché le proposte in seno alla Chiesa
d’Inghilterra hanno richiamato l’attenzione
sulla questione dell’ordinazione delle donne
all’episcopato, che è una pratica
ministeriale consolidata in alcune province
anglicane» (cfr 6).
Oltre agli sviluppi relativi a questo ultimo
punto, dobbiamo tener conto della decisione
di un numero significativo di vescovi
anglicani di non partecipare alla Conferenza
di Lambeth e delle proposte interne
all’anglicanesimo che stanno sfidando gli
strumenti esistenti di autorità in seno alla
Comunione Anglicana.
Nella prossima parte, affronterò alcune
questioni più direttamente, ma qui voglio
concentrarmi in modo specifico sulla
dimensione ecclesiologica di questi problemi
attuali, facendo riferimento a quanto
abbiamo detto insieme sulla natura della
Chiesa, e alle iniziative della Comunione
Anglicana per affrontare queste dispute
interne.
Nel marzo 2006, l’arcivescovo di Canterbury
mi ha invitato a intervenire a un incontro
della Camera dei vescovi della Chiesa
d’Inghilterra sulla missione dei vescovi
nella Chiesa. Sebbene alla base di
quell’intervento ci fosse l’eventuale
ordinazione delle donne all’episcopato, il
tema centrale, ossia la natura dell’ufficio
episcopale quale ufficio di unità, era
importante per tutti i motivi di tensione
nella Comunione Anglicana che ho individuato
in precedenza.
In breve, dissi che l’unità, l’unanimità e
la koinonìa («comunione») sono concetti
fondamentali nel Nuovo Testamento e nella
Chiesa primitiva. Affermai: «Fin dall’inizio
l’ufficio episcopale fu koinonialmente e
collegialmente integrato nella comunione di
tutti i vescovi. Non è mai stato percepito
come un ufficio da intendere come
individuale o da esercitare
individualmente». Poi affrontai il tema
della teologia dell’ufficio episcopale di un
Padre della Chiesa di grande importanza per
gli anglicani e per i cattolici, il vescovo
martire Cipriano di Cartagine vissuto nel
iii secolo.
Molto nota è la sua frase «episcopatus unus
et indivisus». Questa frase fa parte di una
pressante ammonizione di Cipriano ai suoi
compagni vescovi: «Quam unitatem tenere
firmiter et vindicare debemus maxime
episcopi, qui in ecclesia praesidimus, ut
episcopatum quoque ipsum unum atque
indivisum probemus». («E questa unità
dobbiamo fermamente mantenere e affermare,
soprattutto noi vescovi, che presiediamo
nella Chiesa, per dimostrare che anche
l’episcopato è uno e indiviso»). Questa
pressante esortazione è seguita da
un’interpretazione precisa della
dichiarazione episcopatus unus et indivisus.
«Episcopatus unus est cuius a singulis in
solidum pars tenetur» («L’episcopato è uno
solo e ogni sua parte è mantenuta da ognuno
per il tutto», De ecclesiae catholicae
unitate, n. I, 5).
Tuttavia, Cipriano compie un passo
ulteriore: non solo evidenzia l’unità del
popolo di Dio con il proprio vescovo, ma
aggiunge anche che nessuno dovrebbe
immaginare che egli sia in comunione solo
con alcuni, perché «la Chiesa cattolica non
è separata o divisa», ma «unita e tenuta
insieme dal collante della coesione
reciproca dei vescovi» (Epistulae, 66, 8).
Questa collegialità di certo non si limita
al rapporto orizzontale e sincronico con
collegi episcopali contemporanei. Infatti,
poiché la Chiesa è una e la stessa in tutti
i secoli, quella attuale deve mantenere il
consenso diacronico con l’episcopato dei
secoli precedenti e, soprattutto, con la
testimonianza degli apostoli. Questo è il
significato più profondo della successione
apostolica nell’ufficio episcopale.
L’ufficio episcopale è quindi un ufficio di
unità in un duplice senso. I vescovi sono
segno e strumento di unità in seno alla
singola Chiesa locale, proprio come lo sono
fra le chiese locali contemporanee e quelle
di tutti i tempi nella Chiesa universale.
Quest’idea di ufficio episcopale è stata
presentata nelle dichiarazioni dell’Arcic,
in particolare in Chiesa come comunione e
nelle dichiarazioni dell’Arcic sull’autorità
della Chiesa. Chiesa come comunione (cfr n.
45) afferma: «per alimentare e accrescere
questa comunione, Cristo, il Signore, ha
fornito un ministero di supervisione, la cui
pienezza è affidata all’episcopato, che ha
la responsabilità di mantenere ed esprimere
l’unità delle Chiese (cfr nn. 33 e 39;
Rapporto finale, Ministero e ordinazione).
Governando, insegnando e amministrando i
Sacramenti, in particolare l’Eucaristia,
questo ministero tiene uniti i credenti
nella comunione della Chiesa locale e nella
più ampia comunione di tutte le Chiese (cfr
n. 39). Questo ministero di supervisione ha
dimensioni sia collegiali sia primaziali. Si
fonda sulla vita della comunità ed è aperto
alla partecipazione di quest’ultima alla
scoperta della volontà di Dio. Viene
esercitato affinché unità e comunione siano
espresse, tutelate e promosse a ogni
livello, locale, regionale e universale.
La stessa dichiarazione esprime l’idea, sia
anglicana sia cattolica romana, che i
vescovi svolgono il proprio ministero
succedendo agli apostoli, il che serve ad
«assicurare a ogni comunità che la sua fede
sia di fatto la fede apostolica, ricevuta e
trasmessa dai tempi apostolici» (Chiesa come
comunione, n. 33).
Il documento dell’Arcic "
Il dono
dell’autorità" ha sviluppato ulteriormente
questo concetto affermando: «Esistono due
dimensioni di comunione nella tradizione
apostolica: quella diacronica e quella
sincronica. Il processo di tradizione
implica ovviamente la trasmissione del
Vangelo da una generazione all’altra
(dimensione diacronica). Se la Chiesa deve
restare unita nella verità, deve anche
implicare la comunione delle Chiese in tutti
i luoghi in quell’unico Vangelo (dimensione
sincronica). Entrambe le dimensioni sono
necessarie alla cattolicità della Chiesa»
(cfr 26).
Il testo aggiunge che ogni vescovo, in
comunione con tutti gli altri vescovi, ha la
responsabilità di tutelare ed esprimere la
più ampia koinonìa della Chiesa, e
«partecipa alla sollecitudine di tutte le
Chiese» (cfr n. 39). Il vescovo è dunque
«sia una voce per la Chiesa locale sia una
persona mediante la quale la Chiesa locale
impara da altre chiese» (n. 38). Il
documento "Il dono dell’autorità" (n. 37)
sottolinea il ruolo svolto dal collegio
episcopale nel mantenere l’unità della
Chiesa: «L’ interdipendenza reciproca di
tutte le Chiese è organica alla realtà della
Chiesa come Dio vuole che sia. Nessuna
Chiesa locale che partecipi alla tradizione
viva può considerarsi autosufficiente. Il
ministero del vescovo è cruciale perché
serve la comunione in seno alle Chiese
locali e fra loro. La loro comunione
reciproca è espressa dall’incorporazione di
ogni vescovo in un collegio episcopale. I
vescovi sono, sia personalmente sia
collegialmente, al servizio della
comunione».
Sebbene non ci sia tempo per parlare di più
dell’ecclesiologia dell’Arcic, è sufficiente
dire che nel nostro dialogo siamo riusciti a
esporre un’idea incisiva del ministero
episcopale nel contesto di un concetto
condiviso di Chiesa come koinonìa.
È significativo che il Rapporto di Windsor
del 2004, nel tentativo di offrire alla
Comunione Anglicana fondamenti
ecclesiologici per affrontare la crisi
attuale, abbia adottato un’ecclesiologia di
koinonìa. L’ho trovato utile e incoraggiante
e in risposta alla lettera dell’arcivescovo
di Canterbury che invita a una reazione
ecumenica al Rapporto di Windsor ho
osservato che «nonostante questioni
ecclesiologiche sostanziali ci dividano
ancora e meritino la nostra attenzione,
questo approccio è fondamentalmente in linea
con l’ecclesiologia di comunione del
concilio Vaticano II.
Le conseguenze che il Rapporto trae da
questa base ecclesiologica sono anche
costruttive, in particolare
l’interpretazione dell’autonomia provinciale
in termini di interdipendenza, quindi
«soggetta ai limiti derivanti dagli impegni
di comunione» (Windsor, n. 79). A questo si
collega l’impulso del Rapporto a rafforzare
e l’autorità sopraprovinciale
dell’arcivescovo di Canterbury (nn. 109-110)
e la proposta di una Alleanza Anglicana che
renda «espliciti e vigorosi la lealtà e i
vincoli di affetto che dominano i rapporti
fra le Chiese della Comunione» (n. 118).
L’unica debolezza che ho rilevato in questa
ecclesiologia è che «sebbene il Rapporto
sottolinei che le province anglicane debbano
essere responsabili le une verso le altre e
responsabili del mantenimento della
comunione, una comunione radicata nelle
Scritture, si presta un’attenzione
decisamente scarsa all’importanza di essere
in comunione con la fede della Chiesa nel
corso dei secoli». Nel nostro dialogo
abbiamo affermato congiuntamente che le
decisioni di una Chiesa locale o regionale
non devono solo promuovere la comunione nel
contesto attuale, ma anche essere in
sintonia con la Chiesa del passato, e in
particolare, con la Chiesa apostolica così
come è attestata dalle Scritture, dai primi
concili e dalla tradizione patristica.
Questa dimensione diacronica di apostolicità
«ha importanti ramificazioni ecumeniche
poiché condividiamo una tradizione comune di
un millennio e mezzo. Tale patrimonio
comune, che Papa Paolo VI e l’arcivescovo
Michael Ramsey hanno definito “antiche
tradizioni comuni”, è degno di essere
interpellato e tutelato».
Alla luce di quest’analisi del ministero
episcopale da parte dell’Arcic e
dell’ecclesiologia di koinonìa contenuta nel
Rapporto di Windsor, è stato particolarmente
sconfortante assistere alle crescenti
tensioni in seno alla Comunione Anglicana.
In diversi contesti, i vescovi non sono in
comunione con altri vescovi; in alcuni casi
le province anglicane non sono più in piena
comunione le une con le altre. Sebbene il
processo di Windsor prosegua e
l’ecclesiologia proposta dal Rapporto di
Windsor sia stata accolta in via di
principio dalla maggioranza delle province
anglicane, è difficile dal nostro punto di
vista comprendere come questo si sia
tradotto nell’auspicato rafforzamento
interno della Comunione Anglicana e dei suoi
strumenti di unità. Ci sembra anche che
l’impegno della Comunione Anglicana a essere
«episcopalmente guidata e sinodalmente
governata» non è sempre riuscito a mantenere
l’apostolicità di fede e che il governo
sinodale, malinteso come una specie di
processo parlamentare, abbia a volte
bloccato quella guida episcopale auspicata
da Cipriano e formulata nell’Arcic.
So che molti di voi sono preoccupati, alcuni
anche profondamente, dalla minaccia di
frammentazione in seno alla Comunione
Anglicana. Siamo profondamente solidali con
voi perché anche noi siamo preoccupati e
rattristati quando ci chiediamo: «In questo
scenario, che forma potrà assumere la
Comunione Anglicana di domani, e chi sarà il
nostro interlocutore? Dovremmo, e in che
modo potremmo, impegnarci appropriatamente e
onestamente in dialoghi anche con quanti
condividono il punto di vista cattolico
nella Comunione Anglicana o in particolari
province anglicane? Che cosa vi aspettate in
questa situazione dalla Chiesa di Roma, che
secondo quanto afferma Ignazio di Antiochia,
deve presiedere sulla Chiesa con amore? In
che modo l’opera dell’Arcic sull’episcopato,
l’unità della Chiesa e la necessità di un
esercizio di primazia a livello universale
potrebbero aiutare la Comunione Anglicana in
questo momento?».
Invece di rispondere a questi interrogativi,
permettetemi di ricordarvi quanto abbiamo
affermato durante i colloqui informali nel
2003 e da allora abbiamo ripetuto in diverse
occasioni: «È nostro grande desiderio che la
Comunione Anglicana sia unita, radicata in
quella fede storica che il nostro dialogo e
i nostri rapporti nel corso di quattro
decenni ci hanno portato a credere sia
condivisa in ampio grado». Quindi, seguiamo
i dibattiti di Lambeth con grande interesse
e sincera sollecitudine, accompagnandoli con
la nostre fervide preghiere.
III. Riflessioni su questioni che la
Comunione Anglicana deve affrontare
In questa parte finale, desidero affrontare
brevemente due questioni al centro delle
tensioni in seno alla Comunione Anglicana e
ai suoi rapporti con la Chiesa Cattolica:
l’ordinazione delle donne e la sessualità
umana. Non è necessario farlo
dettagliatamente in quanto la posizione
cattolica, che si considera coerente con il
Nuovo Testamento e la tradizione apostolica,
è ben nota. Desidero solo offrire alcune
riflessioni dal punto di vista cattolico,
tenendo contro dei nostri rapporti passati,
presenti e futuri.
L’insegnamento della Chiesa cattolica sulla
sessualità umana, in particolare,
sull’omosessualità, è chiaro ed esposto nel
Catechismo della Chiesa Cattolica, nn.
2357-2359. Siamo convinti del fatto che
questo insegnamento sia saldamente fondato
nel Vecchio e nel Nuovo Testamento e quindi
che qui sia in gioco la fedeltà alle
Scritture e alla tradizione apostolica.
Posso solo evidenziare che cosa afferma il
documento "Crescere insieme in unità e
missione": «nei dibattiti sulla sessualità
umana nella Comunione Anglicana e in quelli
fra quest’ultima e la Chiesa cattolica,
esistono questioni ermeneutiche
antropologiche e bibliche che vanno
affrontate» (n. 86e). Non a caso il tema
principale di oggi della Conferenza di
Lambeth ha riguardato l’ermeneutica biblica.
Desidero brevemente richiamare la vostra
attenzione sulla dichiarazione dell’Arcic
"Vita in Cristo" in cui si osserva (nn.
87-88) che gli anglicani potevano concordare
con i cattolici sul fatto che l’attività
omosessuale è disordinata, ma che potevamo
differire relativamente al consiglio morale
e pastorale che avremmo offerto a quanti lo
cercavano.
Sappiamo e apprezziamo che le recenti
dichiarazioni dei primati sono in sintonia
con quell’insegnamento, espresso chiaramente
nella risoluzione 1.10 della Conferenza di
Lambeth del 1998. Alla luce delle tensioni
degli scorsi anni a questo proposito, una
dichiarazione chiara da parte della
Comunione Anglicana ci offrirebbe maggiori
possibilità di offrire una testimonianza
comune della sessualità umana e del
matrimonio, una testimonianza dolorosamente
necessaria nel mondo di oggi.
A proposito dell’ordinazione delle donne al
sacerdozio e all’episcopato, la Chiesa
cattolica ha chiaramente esposto il suo
insegnamento fin dall’inizio del nostro
dialogo, non solo internamente, ma anche nel
carteggio fra Papa Paolo VI e Papa Giovanni
Paolo II con gli arcivescovi di Canterbury
che si sono succeduti. Nella sua lettera
apostolica "Ordinatio sacerdotalis" del 22
maggio 1994, Papa Giovanni Paolo II ha fatto
riferimento alla lettera di Papa Paolo VI
all’arcivescovo Coggan del 23 novembre 1975
e ha affermato la posizione cattolica come
segue: «L’ordinazione sacerdotale [...] è
stata nella Chiesa cattolica fin dall’inizio
sempre esclusivamente riservata agli uomini»
e «tale tradizione è stata fedelmente
mantenuta anche dalle Chiese Orientali». Ha
concluso: «dichiaro che la Chiesa non ha in
alcun modo la facoltà di conferire alle
donne l’ordinazione sacerdotale e che questa
sentenza deve essere tenuta in modo
definitivo da tutti i fedeli della Chiesa».
Quest’enunciazione mostra con chiarezza che
non si tratta solo di una posizione
disciplinare, ma anche di un’espressione
della nostra fedeltà a Gesù Cristo. La
Chiesa cattolica è vincolata alla volontà di
Gesù Cristo e non si considera libera di
instaurare una nuova tradizione aliena a
quella della Chiesa di tutti i tempi.
Come ho affermato rivolgendomi alla Camera
dei vescovi della Chiesa d’Inghilterra nel
2006, per noi la decisione di ordinare le
donne implica un allontanamento dalla
posizione comune di tutte le Chiese del
primo millennio, ossia non solo della Chiesa
cattolica, ma anche delle Chiese orientali e
ortodosse. Ci sembra che la Comunione
Anglicana si stia avvicinando molto alle
Chiese protestanti del XVI secolo e stia
assumendo una posizione che quelle Chiese
assunsero solo nella seconda metà del XX
secolo.
Dal momento che attualmente ventotto
province anglicane ordinano donne al
sacerdozio e che, sebbene soltanto quattro
province abbiano ordinato donne
all’episcopato, altre tredici province hanno
approvato la legislazione che permette
l’episcopato femminile, la Chiesa cattolica
deve ora tener conto della realtà che
l’ordinazione delle donne al sacerdozio e
all’episcopato non riguarda solo province
isolate, ma corrisponde sempre più alla
posizione della Comunione. Essa continuerà
ad avere vescovi, come affermato nella
Conferenza di Lambeth del 1888, ma come nel
caso dei vescovi di alcune Chiese
protestanti, le Chiese più antiche
dell’Oriente e dell’Occidente riconosceranno
in ciò molto meno di quanto ritengono sia il
carattere e il ministero del vescovo nel
senso inteso dalla Chiesa primitiva e
rimasto costante nel corso dei secoli.
Ho già affrontato il problema ecclesiologico
del non riconoscimento da parte dei vescovi
dell’ordinazione episcopale altrui in seno a
una stessa Chiesa. Ora devo essere chiaro a
proposito della nuova situazione che si è
venuta a creare nei nostri rapporti
ecumenici. Sebbene il nostro dialogo abbia
portato a un accordo significativo sull’idea
di sacerdozio, l’ordinazione delle donne
all’episcopato blocca sostanzialmente e
definitivamente un possibile riconoscimento
degli Ordini Anglicani da parte della Chiesa
cattolica.
Auspichiamo il proseguimento di un dialogo
teologico fra la Comunione Anglicana e la
Chiesa cattolica, ma quest’ultimo sviluppo
mina direttamente il nostro obiettivo e
altera il livello di quanto perseguiamo nel
dialogo. La
Dichiarazione comune del 1966,
firmata da Papa Paolo VI e dall’arcivescovo Michael Ramsey, esortava al dialogo che «ha
per scopo l’unità per la quale Cristo così
pregava» e parlava di «un ritorno alla piena
comunione di fede e di vita sacramentale».
Ora sembra che la piena comunione visibile
quale fine del nostro dialogo abbia fatto un
passo indietro, che il nostro dialogo avrà
obiettivi meno definitivi e quindi che il
suo carattere ne risulterà alterato. Sebbene
questo dialogo possa ancora condurre a buoni
risultati, non sarà sostenuto dal dinamismo
che deriva dalla possibilità realistica
dell’unità che Cristo esige da noi o dalla
partecipazione comune alla mensa dell’unico
Signore, alla quale aneliamo con tanto
ardore.
Conclusione
Chiunque abbia visto le grandi e magnifiche
cattedrali e chiese anglicane in tutto il
mondo, abbia visitato gli antichi e famosi
collegi di Oxford e di Cambridge, abbia
partecipato alle meravigliose preghiere
della sera, abbia sperimentato la bellezza e
l’eloquenza delle preghiere anglicane, abbia
letto le eleganti opere accademiche degli
storici e dei teologi anglicani, sia attento
ai contributi significativi e antichi degli
Anglicani al movimento ecumenico, sa bene
che la tradizione anglicana possiede molti
tesori. Essi sono, come afferma la
Lumen gentium, fra quei doni che «appartenendo
propriamente alla Chiesa di Cristo, spingono
verso l’unità cattolica» (n. 8).
La nostra acuta consapevolezza della
grandezza e della notevole profondità della
cultura cristiana della vostra tradizione
rende più grande la nostra preoccupazione
per voi relativamente ai problemi e alle
crisi attuali, ma ci dona anche fiducia nel
fatto che, con l’aiuto di Dio, troverete una
via d’uscita da queste difficoltà e che in
modo nuovo saremo rafforzati nel nostro
comune pellegrinaggio verso l’unità che Gesù
Cristo desidera per noi e per la quale
prega. Ripeto ciò che scrissi nella lettera
all’arcivescovo di Canterbury nel dicembre
2004: «In uno spirito di amicizia e
collaborazione ecumeniche siamo pronti a
sostenervi in qualsiasi modo sia appropriato
e necessario».
In questa stessa ottica desidero ritornare
alla domanda sconcertante dell’arcivescovo
su quale anglicanesimo voglio. Mi viene in
mente che nei momenti critici della storia
della Chiesa d’Inghilterra e quindi della
Comunione Anglicana, siete riusciti a
recuperare la forza della Chiesa dei Padri
quando quella tradizione era a rischio.
Ne sono esempio i Caroline Divines, ma penso
soprattutto al Movimento di Oxford. Forse,
nella nostra epoca, è anche possibile
pensare a un nuovo Movimento di Oxford, un
recupero di ricchezze presenti nella vostra
famiglia. Sarebbe una rinnovata recezione,
un nuovo ricorso alla Tradizione Apostolica
in una situazione inedita. Non
significherebbe rinunciare alla vostra
profonda attenzione per le sfide e le lotte
umane, al vostro desiderio di dignità e
giustizia umane, alla vostra sollecitudine
affinché tutte le donne e tutti gli uomini
abbiano un ruolo attivo nella Chiesa.
Piuttosto, porterebbe tali istanze e le
questioni che ne derivano più direttamente
nell’ambito creato dal Vangelo e dall’antica
tradizione comune su cui si basa il nostro
dialogo.
Speriamo e preghiamo affinché, mentre
cercate di procedere come discepoli fedeli
di Gesù Cristo, il Padre di ogni
misericordia vi conceda le abbondanti
ricchezze della Sua Grazia e vi guidi con la
presenza costante dello Spirito Santo.