Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto, nel decreto "Unitatis
redintegratio", che il movimento ecumenico è un segno
dell'attività dello Spirito Santo e ha affermato di ritenere la
promozione di tale movimento uno dei suoi compiti principali. Oggi,
dopo 40 anni, il movimento ecumenico si trova in una situazione
mutata. Accanto ai progressi, si sente il peso di vecchie e nuove
divisioni: il processo di avvicinamento dura, evidentemente, più a
lungo di quanto molti pensassero in una prima ottimistica fase. Non
mancano poi voci impazienti, che, contro la dichiarata intenzione
del Concilio (UR 11) e dietro il miraggio di pretese
soluzioni, saltano a pie' pari i problemi e fraintendono il
movimento ecumenico, che pensano erroneamente di favorire cedendo al
relativismo dogmatico, all'indifferentismo e al puro pragmatismo.
Sia le difficoltà, sia i fraintendimenti portano,
talvolta, a guardare al movimento ecumenico con diffidenza. Allora,
spesso si mette in dubbio il carattere teologicamente vincolante del
Decreto conciliare "Unitatis
redintegratio". Come argomento, si adduce che
tale documento non è una Costituzione dogmatica, ma
"solo" un Decreto, che non ha carattere dottrinale
vincolante - o tutt'al più lo possiede in forma minima - ed ha
solamente importanza pastorale e disciplinare.
I. A prima vista questa tesi sembra evidente. In
realtà, se si osservano le cose con più precisione, non lo è
affatto. Comunque, tale tesi non può esser dedotta dal solo uso
delle parole. Infatti, il Concilio di Trento ha solo decreti; però
sotto tale nome ha approvato documenti dogmaticamente importanti e
vincolanti. A differenza di Trento, il Vaticano II distingue tra
Costituzioni e Decreti; però il Concilio non ha spiegato questa
differenziazione, o, almeno, non in modo da giustificare la tesi
suddetta.
Le dichiarazioni del Papa Paolo VI all'atto della
solenne promulgazione di "Unitatis
redintegratio" vanno in altra direzione. Già
all'inizio della seconda sessione del Concilio, il Papa, in un
discorso di carattere fondamentale, dichiarò che l'avvicinamento
ecumenico era uno degli scopi - per così dire il dramma spirituale
- in ragione del quale il Concilio era stato convocato (1). Se si
tiene in debito conto questa dichiarazione, tutti i testi del
Concilio debbono essere letti in prospettiva ecumenica. Quando fu
promulgato il Decreto sull'ecumenismo, alla fine della terza
sessione (assieme alla Costituzione dogmatica sulla Chiesa), il Papa
Paolo VI affermò che il Decreto spiega e completa la Costituzione
sulla Chiesa: "ea doctrina, explicationibus completa in
Schemate "De Oecumenismo" comprehensis, [...]" (2).
Egli ha dunque strettamente collegato, quanto a importanza
teologica, tale Decreto alla Costituzione sulla Chiesa. Infine,
nella sua allocuzione conclusiva dell'8 dicembre 1965 (d'accordo con
il discorso di apertura del Papa Giovanni XXIII [3]) dichiarò che
il Concilio nel suo complesso, e quindi anche la Costituzione
dogmatica, aveva un orientamento pastorale. E non lasciò dubbi
circa il fatto che l'orientamento pastorale non escludeva né
relativizzava i pronunciamenti dottrinali, ma, al contrario, aveva
come fondamento l'insegnamento della Chiesa (4).
Effettivamente, non c'è pastorale che meriti tale
nome senza fondamento nell'insegnamento della Chiesa; ma non c'è
neppure insegnamento della Chiesa che sia solo dottrina senza scopi
pastorali. Già il Concilio Vaticano I aveva dichiarato che
l'insegnamento della Chiesa deve essere interpretato in vista
dell'ultimo destino dell'uomo (DS 3016). Perciò, così come
la pastorale deve lasciarsi guidare dall'insegnamento della Chiesa,
allo stesso modo quest'ultimo deve essere interpretato guardando
all'uomo e al suo destino, cioè in senso pastorale. Quindi il punto
di vista della salus animarum quale suprema lex è un
fondamentale principio di interpretazione non solo del diritto
canonico (CIC 1752), ma anche dell'insegnamento della Chiesa.
Derivano da qui importanti punti di vista per
l'ermeneutica dei testi conciliari. Come non è lecito separare "Unitatis
redintegratio" da "Lumen
gentium" e interpretare il Decreto nel senso di un
relativismo dogmatico e di un indifferentismo, allo stesso modo "Unitatis
redintegratio" indica in quale direzione debbono essere
spiegate le asserzioni (in più di un punto di vista aperte) di "Lumen
gentium"; cioè nel senso di un'apertura ecumenica
teologicamente responsabile. Dunque l'opposizione fra carattere
dottrinalmente vincolante da una parte e carattere pastorale o
disciplinare dall'altra non esiste. Voler degradare dal punto di
vista teologico il Decreto sull'Ecumenismo andrebbe piuttosto in
senso contrario all'intenzione ecumenica globale del Concilio
Vaticano II.
II. Respingere la svalutazione globale di "Unitatis
redintegratio" non vuol dire, tuttavia, che ogni
problema sia risolto. Al contrario, è proprio ora che inizia il
compito della corretta interpretazione del Decreto. E se di ciò si
tratta, il carattere vincolante può essere solo differenziato e
scalare. Questo si deduce già dalla risposta che la Commissione
Teologica, alla fine del dibattito sulla Costituzione relativa alla
Chiesa, dette alla domanda circa il carattere vincolante della
medesima.
"Un testo del Concilio è da interpretare,
ovviamente, sempre d'accordo con le regole generali, da tutti
conosciute". Il che significa che bisogna accettare e mantenere
le affermazioni del Concilio "in conformità all'intenzione
dello stesso Santo Sinodo, come essa risulta, secondo i fondamenti
dell'interpretazione teologica, dall'oggetto trattato o dal modo di
esprimersi" (5).
Allo stesso risultato condusse l'ampio dibattito
conciliare sul titolo della "Costituzione pastorale sulla
Chiesa nel mondo di oggi" "Gaudium
et spes". In tale dibattito il termine
"pastorale" e il suo significato teologico furono
ampiamente discussi. Come risultato, una annotazione a detto titolo
stabilisce espressamente: "Essa [la Costituzione] è detta
pastorale perché, poggiando su principi dottrinali, vuole
illustrare il rapporto della Chiesa con il mondo di oggi. Così che
né manca nella prima parte la finalità pastorale, né manca nella
seconda parte la finalità dottrinale", anche se questa parte
"contiene non solo elementi immutabili, ma anche elementi
storicamente condizionati". In sintesi si afferma: "La
Costituzione deve essere dunque interpretata secondo le regole di
interpretazione generali della teologia" (6).
Un dibattito simile, anche se meno ampio di quello
sulla "Gaudium
et spes", avvenne quando si discusse "Unitatis
redintegratio". Il risultato fu oggettivamente lo
stesso. Il Concilio, proprio per evitare un falso irenismo e un
ecumenismo puramente pragmatico, non accolse la proposta di alcuni
Padri conciliari di eliminare dal testo tutto quello che fosse
teologia (7).
Il Concilio volle mantenere fermo il principio
secondo cui le affermazioni pastorali riposano sui principi
dogmatici e, d'altra parte, le affermazioni pastorali rapportano i
principi dogmatici alle concrete situazioni storiche. E siccome le
situazioni storiche sono in genere complesse e, come tali,
suscettibili di valutazioni perfettibili alla luce di indagini più
approfondite, le affermazioni concernenti avvenimenti storici con
riflessi in ambito teologico devono essere prese secondo le regole
interpretative vigenti in teologia, così da non compromettere il
valore di elementi dottrinali eventualmente presenti in esse.
Purtroppo - come mostra, non da ultimo, la
discussione circa il carattere teologicamente vincolante di "Unitatis
redintegratio" - nel periodo postconciliare la
conoscenza delle regole di interpretazione della teologia e la
dottrina delle qualificazioni teologiche sono state troppo
dimenticate. (8) Vale la pena di recuperarle. Al riguardo, il
Vaticano II ha offerto, nella "Lumen
gentium", il suo contributo, distinguendo fra
dichiarazioni infallibili e Magistero autentico, e spiegando che il
grado di obbligatorietà di quest'ultimo si deve riconoscere
"sia dalla natura dei documenti, sia dal frequente riproporre
la stessa dottrina, sia dal tenore dell'espressione verbale" (LG
25).
Queste distinzioni debbono essere tenute in conto
quando si tratta del carattere teologicamente vincolante di "Unitatis
redintegratio". La questione dunque non è
semplicemente: questo testo conciliare è - sì o no - vincolante?
Bisogna, piuttosto, distinguere, all'interno dei documenti, le
differenti modalità e i diversi gradi di obbligatorietà, e questo
deve essere portato alla luce volta per volta, concretamente.
Se questo si attua, difficilmente si potrà
contestare che il primo capitolo di "Unitatis
redintegratio" (in cui vengono esposti i "principi
cattolici dell'ecumenismo") contenga affermazioni vincolanti,
che o sintetizzano o sviluppano ulteriormente le corrispondenti
affermazioni di "Lumen
gentium". Citazioni esplicite di affermazioni
dogmatiche dei Concili precedenti (il IV Concilio Lateranense, il II
Concilio di Lione, il Concilio di Firenze, il Concilio Vaticano I)
confermano che si tratta di affermazioni teologicamente vincolanti,
anche se non si tratta sempre di definizioni infallibili obbliganti
in modo ultimativo. Al contrario, soprattutto nel terzo capitolo
(relativo alle "Chiese e Comunità ecclesiali separate dalla
Sede apostolica romana"), si trovano affermazioni storiche, che
per loro natura non possono essere teologicamente obbliganti, anche
se pure qui si trovano asserzioni che non lasciano dubbi sul fatto
che siano intese in senso vincolante. Così si dice per esempio:
"il Sacro Concilio dichiara" (UR 16), "questo
Sacro Concilio dichiara" (UR 17), "considerate bene
tutte queste cose, questo Sacro Concilio inculca" (UR 18).
Tali formulazioni non sono in nulla inferiori a corrispondenti
formulazioni di "Lumen gentium".
L'ermeneutica di "Unitatis
redintegratio" e il giudizio sul carattere
teologicamente vincolante di questo documento, dunque, non può
avvenire in modo globale, ma differenziato. Riuscire a fare questo
in ogni singolo caso è frutto di un lavoro faticoso, da cui nessuno
si può dispensare con giudizi di carattere generale.
III. L'interpretazione di "Unitatis
redintegratio", comunque, non si può fermare
all'accertamento del grado di obbligatorietà di ogni singola
affermazione. Dopo aver accertato il carattere formalmente
vincolante di un'affermazione, si pone il problema
dell'interpretazione del suo contenuto. Anche per questo ci sono
regole; ed esse valgono, ovviamente, anche per la teologia
ecumenica. Porterebbe troppo lontano e richiederebbe l'esposizione
di tutta una metodologia teologica, se si volesse farne qui una
trattazione. Accenniamo in breve a tre di tali regole. (9)
In primo luogo: è fondamentale l'interpretazione
storica. Vale qui la regola che non si può invocare un vago spirito
del Concilio, ma si deve partire dal tenore verbale delle
affermazioni. Il che significa, allo stesso tempo, che si deve
badare, volta per volta, a ciò che il Concilio voleva dire. E
questo risulta soprattutto dallo studio degli atti del Concilio.
Inoltre, non si possono considerare le singole affermazioni in forma
isolata. Non è sufficiente la citazione positivista di singole
frasi o, addirittura, di frasi a metà, strappate dal contesto. (10)
Invece, si debbono interpretare le singole affermazioni nel contesto
dei documenti conciliari e in connessione con tutti i misteri della
fede (DS 3016), e cioè secondo la "gerarchia delle
verità" (UR 11). Questa interpretazione storica e
sistematica pone di fronte a molti problemi storici ed ermeneutici:
non ci si deve esimere dall'affrontarli, per rifugiarsi comodamente
o in un modo di citare puramente positivistico, oppure nella
discutibile distinzione fra spirito e lettera del Concilio.
In secondo luogo: Interpretazione alla luce della
tradizione. Nessun Concilio è a sé stante, ma ogni Concilio si
colloca nella scia della tradizione di tutti gli altri. Così, il
Decreto "Unitatis
redintegratio" si richiama alla confessione di fede
della Chiesa e ai Concili più antichi. Sarebbe perciò falso
interpretare il Concilio Vaticano II, e specialmente il Decreto
sull'ecumenismo, come rottura con la tradizione. (11) Effettivamente
tale Concilio è dovuto, non da ultimo, a un resourcement, a
un ritorno alle fonti; in esso si è trattato di una nuova
attualizzazione della Tradizione e, in questo senso, di un suo aggiornamento
(un concetto che nei documenti stessi del Concilio non si trova
in nessun posto). Certamente ci si deve chiedere che cos'è che
significhi "tradizione" in senso teologico e, facendolo,
bisogna distinguere fra l'unica Tradizione e le molte tradizioni.
(12) L'apertura ecumenica del Concilio Vaticano II non è una
rottura con la Tradizione nel senso teologico della parola; però,
è senz'altro una voluta modificazione di singole tradizioni, per lo
più relativamente recenti. Così, è indiscutibile che il Concilio
vada coscientemente oltre le affermazioni, difensive e proibitive,
del Papa Pio XI in "Mortalium animos" (1928) e che,
in questo senso, realizzi un salto di qualità. (13) Così intese,
tradizione e innovazione non sono affatto in opposizione.
In tema di Tradizione, il Concilio Vaticano II,
nella Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione "Dei
Verbum", ha fatto propria la viva comprensione della
Tradizione, quale si ritrova in J. A. Mohler e J. H. Newman, che ne
hanno fatto il fondamento della rispettiva riflessione teologica (DV8).
Il Concilio ha inteso la Tradizione come una realtà viva,
ripiena di Spirito Santo; ossia, tanto come fedeltà al Depositum
fidei, che abbiamo ricevuto in eredità una volta per tutte,
quanto come sempre rinnovato "ringiovanire", nelle
situazioni perennemente nuove. Tale interpretazione viva, che
avviene sotto la guida dello Spirito Santo, non ha nulla da spartire
con un facile adattamento allo spirito del tempo; al contrario,
spesso essa può far valere l'attualità della Tradizione solo
attraverso una profetica testimonianza contro lo spirito del tempo.
Il documento conciliare "Unitatis
redintegratio", dunque, deve essere interpretato in
continuità con tutti i Concili. E tale continuità deve essere
intesa non come una realtà morta e pietrificata, ma come un
avvenimento vivo, mediante il quale lo Spirito Santo ci introduce
sempre di nuovo nella pienezza della verità (Gv 16, 13). È
Lui - dice s. Ireneo di Lione - che mantiene il Depositum fidei giovane
e "rugiadoso", e che conserva l'unico e medesimo Vangelo
non come un qualcosa di eternamente trascorso, ma di
inesauribilmente giovane. (14)
In terzo luogo: L'importanza della recezione del
Concilio. (15) Comprendere la Tradizione come realtà viva implica
che non solo in "Unitatis
redintegratio", ma anche in molti altri testi del
Concilio Vaticano II (anche in "Lumen
gentium") spesso si trovino immediatamente affiancate
nova et vetera.
Questo appare come un compromesso. Tuttavia, non
sempre si tratta di un "cattivo compromesso", atteso che
un compromesso intelligente può essere un'impresa intellettuale di
alto valore e un'espressione di grande saggezza, per il fatto che,
mentre da un lato esclude chiaramente l'errore, dall'altro, per il
momento, lascia sussistere - per amore dell'unità nell'essenziale -
differenze intraecclesiali insuperabili, rimandando la loro
soluzione alla discussione futura. Neppure i Concili più antichi -
come ben sa ogni studioso di storia dei dogmi - hanno potuto fare a
meno di tali formule di compromesso; cosa che poi ha portato a un
laborioso processo di recezione. I Concili di Nicea (325) e
Calcedonia (451) e la storia che ad essi è seguita sono, al
riguardo, esempi eloquenti. (16)
Perciò, chi critica "Unitatis
redintegratio" a causa di alcune formulazioni non del
tutto "mature", dovrebbe criticare anche le Costituzioni
dogmatiche del Concilio Vaticano II ed elementi essenziali della
storia più antica dei Concili. Le formulazioni di un Concilio,
nonostante ogni sicura esenzione dall'errore, sono sempre anche
formulazioni aperte, la cui definizione mette in moto un processo di
vivente recezione.
In tal senso, "Unitatis
redintegratio" non può esser letta solo come un testo
storico, separato dalla storia degli effetti della sua recezione,
che si sono avuti nel tempo postconciliare. (17) Proprio a tale
recezione appartengono i molti documenti magisteriali, che hanno
confermato e ulteriormente sviluppato l'apertura ecumenica e, tra
questi, specialmente l'enciclica "Ut
unum sint" (1995). Vi appartiene pure l'accettazione
che "Unitatis
redintegratio" ha trovato nella fede e nella vita della
Chiesa, nella teologia e nei dialoghi ecumenici. Senza dubbio più
di qualcosa non è ancora completamente maturo; di fronte a certi
sviluppi erronei, infatti, il Magistero ecclesiale ha dovuto
assumere una posizione critica, come è successo con la
Dichiarazione "Dominus
Jesus" (2000).
Tuttavia, neppure tale Dichiarazione deve essere
isolata, ma interpretata alla luce degli altri documenti
magisteriali e nel quadro dell'intero processo di recezione.
Negli ultimi 40 anni, "Unitatis
redintegratio" è stata recepita sia dall'autentico
Magistero della Chiesa, sia dal sensus fidelium. Il Decreto,
in questi 40 anni, ha contribuito grandemente a far maturare, nella
coscienza di molti cristiani, il senso ecumenico. Certo, non sono
mancate interpretazioni eccessive e applicazioni inopportune. Ma se
si devono impedire gli sviluppi selvaggi, non si può sradicare il
buon grano assieme alle erbacce (Mt 13, 29). Svalutare,
dunque, "Unitatis
redintegratio", a 40 anni dalla promulgazione, vorrebbe
dire collocarsi al di sopra di un Concilio ecumenico, al di sopra
dell'autentico Magistero della Chiesa, al di sopra della vita della
Chiesa (che è guidata dallo Spirito Santo); vorrebbe dire resistere
allo stesso Spirito, che ha spinto in avanti questo processo con i
suoi alti e bassi, con i suoi problemi ma, molto di più ancora, con
i suoi molti aspetti ricchi di speranza. Perciò, nella mutata
situazione ecumenica, noi (in fedeltà alla Tradizione della Chiesa
e alla luce dei principi dottrinali cattolici, ma anche con coraggio
e fantasia) abbiamo ogni motivo per far sì che "Unitatis
redintegratio" sviluppi la sua vitalità tanto nella
teologia, quanto nella prassi.
Card. WALTER KASPER
Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità
dei Cristiani
NOTE
1) Ench. Vat., Vol. 1, Documenti del Concilio
Vaticano II (Bologna 1981), [104]s; Cfr anche le affermazioni
del Papa Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura del Vaticano II,
Ivi, [48]s.
2) Ivi, [178]s. Se il Papa non avesse preso
teologicamente sul serio il Decreto, non sarebbero comprensibili i
suoi interventi immediatamente prima della promulgazione. Al
riguardo Cfr W. Becker in: LThK Das zweite Vatikanische Konzil,
II (1967), 38s; G. Alberigo (Ed.), Storia del Concilio
Vaticano II, Vol. 4 (Bologna 1999), 436-446.
3) Ench. Vat., Vol 1, [42]s.
4) Ivi, [284]s.
5) Cfr le notificazioni del Segretariato Generale
del Concilio, il 16 novembre 1964, in: LThK - Das zweite
Vatikanische Konzil, I (1966), 349s.
6) Cfr il commento di CH. Moeller in: LThK - Das
zweite Vatikanische Konzil, III (1968), 280-282.
7) Cfr il commento di W. Becker in: LThK - Das
zweite Vatikanische Konzil, II (1967), 30; G. Alberigo (Ed.), Storia
del Concilio Vaticano II, Vol. 3 (Bologna 1998), 283s; 286.
8) Cfr la panoramica storica e sistematica in L.
Scheffczyk, Qualifìkationen, in: LThK, Vol. 8 (1999),
755-757.
9) Per l'ermeneutica del Concilio Vaticano II Cfr W.
Kasper, Die bleibende Herauslorderung durch das II Vatikanische
Konzil, in: Theologie und Kirche (Mainz 1987), 290-299;
H. J. Pottmeyer, A New Phase in the Reception of Vatican II, in
G. Alberigo et Alii (Ed.), The Reception of Vatican II (Washington
1987), 27-43; per una visione sintetica Cfr O. Rush, Still
Interpreting Vatican II: Some Hermeneutical Principles, Pro-manuscripto
(Sidney 2003).
10) Un esempio concreto: quando si tratta di
giudicare le celebrazioni della Santa Cena nelle comunità di tipo
riformato, non è sufficiente citare, da UR 22, che esse
"non hanno conservata la genuina e integra sostanza [substantia]
del mistero eucaristico"; bisogna invece aggiungere anche
l'altra metà della frase, che segue subito dopo, nella quale il
Concilio cerca di circoscrivere positivamente l'importanza di queste
celebrazioni.
11) Così dice a ragione J. Ratzinger, Rapporto
sulla fede (Milano 1985), 33-35.
12) Cfr Y. Congar, La tradition et les traditions,
Vol. 1 (Parigi 1960), Vol. 2 (Parigi 1963).
13) Cfr G. Alberigo (Ed.), Storia del Concilio
Vaticano II, Vol. 3 (Bologna 1998) 287; 290; Vol. 4 (Bologna
1999), 504.
14) Ireneo di Lione, Adversus haereses, 111,
24, l.
15) Il tema della recezione è stato per lungo tempo
trascurato nella teologia cattolica. Al riguardo, oltre alle
trattazioni note e divenute ormai classiche di A. Grillmeier e Y.
Congar, Cfr soprattutto l'ampia esposizione di G. Routhier, La Réception
d'un Concile (Parigi 1993). Sul piano filosofico, H. G. Gadamer
e P. Ricoeur hanno mostrato che la storia dell'effetto di un testo
appartiene ad esso e non ne può essere separata.
16) Cfr M. Seckler, Uber den Kompromiß in Sachen
der Lehre, in: Im Spannungsfeld von Wissenschaft und Kirche (Freiburg
i. Br. 1980), 99-109.
17) Cfr R. Fisichella (Ed.), Il Concilio Vaticano
II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo (Roma 2000)
335-415, con contributi di E. Fortino, J. Wicks, F. Ocáriz, Y.
Spiteris, V. Pfnür.
***
L'Osservatore Romano di Domenica 9 novembre
2003, p.6.