Intervista
di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio,
all'inviato de La Stampa
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Sono
passati quattro anni dal terribile 11 settembre 2001. Qualcuno
ha scritto che quel giorno ha cambiato in profondità il mondo.
Altri ne hanno parlato come dello svelamento di un inevitabile
conflitto tra civiltà e religione. Insomma un segnale di guerra
per il secolo appena aperto. Quell’11 settembre resta la data
più tragica di questo nostro inizio di secolo.
<--Andrea Riccardi,
Assemblea inaugurale
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È stato un segnale
sinistro, confermato da tanti fatti dolorosi. Non siamo, però, qui
soltanto per commemorare quella data, ma per guardare allo spirito e
alla realtà del nostro tempo.
È cresciuta, tra mondi e
religioni, una diffidenza: terreno pericoloso per chi vuole allargare
i fossati, usare le religioni per combattere, dominare attraverso la
morte e la violenza. Simboli e motivi religiosi sono utilizzati in
queste campagne. Il terrorismo, internazionale e locale, rafforza la
diffusa paura dell’altro. Spesso sembra realista dire che lo
scontro, violento o culturale, sia inevitabile. Appare coraggio; ma è
paura in un mondo disumano. C’è troppa paura. La violenza non è
coraggio.
Milioni di donne e di uomini,
ansiosi in un mondo con aspetti di disumanità, cercano un’anima per
il nostro tempo. Sono capaci di rispondere con un grande slancio: come
si è visto all’inizio del 2005 con la vasta solidarietà per i
colpiti dallo Tsunami o, oggi, con la tragedia che ha colpito New
Orleans. La gente cerca un’anima. Le religioni hanno una grande
responsabilità e hanno grandi tesori di fede, di spiritualità, di
sapienza. Ognuna – ben lo sappiamo – ha il suo modo e la sua
tradizione nel vivere questa responsabilità.
Eppure gli uomini e le donne del
nostro tempo sono contenti di vedere gli uomini di religione, i
responsabili, gli uni accanto agli altri. Si dicono: “non volete la
guerra tra voi”, “Dio non vuole la guerra, ma la pace”, “non
benedite i muri e i fossati che si aprono tra i popoli”. Non si
tratta di una fotografia ad effetto, ma di un’immagine densa di
significato. Ed io, a nome della Comunità di Sant’Egidio, ringrazio
tutti voi, responsabili religiosi, di aver accettato di venire qui, di
essere con gli altri, di ascoltare, di discutere, di pregare. Lione,
in questi giorni, diventa un luogo alto, non solo in Francia: qui, con
voci differenti e in nome di tradizioni e spiritualità differenti, si
dice che la pace è santa, la pace è il nome di Dio. Si dice che la
pace dà un’anima al nostro tempo e aiuta a ritrovare l’anima.
Ringrazio, allora, il card.
Barbarin e la Diocesi di Lione, per aver accolto con entusiasmo questa
iniziativa e averla sostenuta. Mi permetto di salutare i miei amici di
Sant’Egidio da vari paesi d’Europa e del mondo, che sono qui come
volontari per organizzare e come appassionati testimoni di questo
incontro.
Sono grato alle Autorità del
Comune, del Dipartimento e della Regione, perché senza il loro
contributo generoso e intelligente non sarebbe stato possibile questo
incontro. La Repubblica francese, qui rappresentata dal Signor
Ministro dell’Interno che ci fa l’onore d’intervenire, ha
facilitato e sostenuto l’iniziativa. Questa avviene nell’anno
centenario delle leggi laiche. Allora – come scrive Emile Poulat –
due France si opposero; oggi, una Francia al plurale, in nome della
libertà e della laicità, si fa accogliente verso leader religiosi di
tutto il mondo. Questi leader dialogheranno anche con significativi
rappresentanti del pensiero umanista e laico. Quello che oggi avviene
a Lione corrisponde alla sua natura di alto luogo del cattolicesimo
francese, aperto all’universale, ma anche di alto luogo del pensiero
umanista.
La presenza di tanti, che
rappresentano il sentire religioso di popoli, è un’immagine densa
di promettente significato. I leader religiosi, qui convenuti, non
parlano solo della loro fede, ma fanno memoria del dolore dell’umanità.
Non dell’odio come tanti, ma del dolore. Tanti sono stati i dolori
del Novecento. Non provo nemmeno a farne un elenco. Lo studioso
americano, Rudolph Rummel, ha affrontato la realtà dell’omicidio di
popolo (“demomicidio” secondo la sua espressione): ha calcolato
170 milioni d’esseri umani uccisi nel XX secolo, in gran parte dalla
violenza di Stato. Novant’anni fa, è stato compiuto il genocidio
degli armeni e dei cristiani nell’impero ottomano, il cui dolore si
ritrova ancora impresso nel canto della Chiesa armena, di cui
salutiamo Sua Santità il Catholicos. Sessant’anni fa, è stato
liberato il campo della morte di Auschwitz, abisso che ha divorato il
popolo ebraico e tanti altri. Sessant’anni fa, a Hiroshima, è
avvenuta la prima distruzione atomica, frutto di una guerra folle in
Asia, segnata da tanti massacri tra cui quello orribile di Nanchino.
Il dolore unisce gente di
religione diversa nella compassione. Lo ha fatto nella dura vita del
gulag o del lager. Là sono nati ecumenismo e il dialogo. Il dolore ha
avvicinato i credenti che, prima, si guardavano con diffidenza od
ostilità, talvolta attratti dalle logiche della contrapposizione. Il
credente non chiede a chi soffre quale sia la sua religione o la sua
nazione: ma vede in lui la creatura di Dio.
Nel 1986, con la semplicità
intuitiva dei grandi spirituali, Giovanni Paolo II invitò ad Assisi,
in Italia, sul colle di San Francesco, i leader delle religioni
mondiali. Fioriva allora un segno, indicatore per il nostro tempo.
Chiese ai credenti di stare gli uni accanto agli altri nella
preghiera, non più gli uni contro gli altri. Propose il legame tra la
forza debole della preghiera e la pace. Lo ricorda bene il card.
Etchegaray, che fu protagonista di quell’evento. Giovanni Paolo II,
in quel 1986, varcò la
soglia della sinagoga di Roma, per la prima volta. Lo abbiamo
visto poi a Gerusalemme, a Yad
Vashem, al Muro del Pianto,
alla moschea di El Aqsa. Fu a Damasco nella moschea degli Omayaddi,
uno dei primi luoghi di preghiera dell’islam. Entrò nei luoghi
santi dell’Asia. Le soglie di quei luoghi non erano più frontiere,
ma porte di amici per chi veniva nel nome della pace. Giovanni Paolo
II ha creduto alla forza mite delle correnti di spiritualità, di
pace, di fede che scuotono il mondo dal di dentro. Questo
era lo spirito di Assisi.
Tutti abbiamo un gran debito
verso Giovanni Paolo II, padre dello spirito di Assisi. Lo dico a nome
della Comunità di Sant’Egidio, nata a Roma nel 1968 ed ora in una
settantina di paesi del mondo: anche noi abbiamo un gran debito verso
questo papa, che consideriamo un padre. Egli, profondamente convinto
della verità della sua fede, è stato un uomo di dialogo e di pace.
Ha scritto: “invece di meravigliarci che la Provvidenza permette una
tanto grande varietà di religioni, ci si dovrebbe piuttosto stupire
dei numerosi elementi comuni che in essi si riscontrano”. Giovanni
Paolo II ha più volte incoraggiato Sant’Egidio a continuare questo
spirito di Assisi, che è amicizia e pace nella diversità. Tante
volte ci ha detto che era la nostra strada. Ma che era anche la sua.
La differenza non si può
risolvere in conflitti. Non crediamo ad una conciliazione piacevole,
ad un relativismo a buon mercato, a creare verità buone per tutti in
laboratorio. Conosciamo le differenze profonde. Anzi, nel contemplare,
anche tra noi, le differenze religiose, ne capiamo la lezione: non c’è
niente in questo mondo, nemmeno una religione, che possa essere
egemonica. Non una cultura, non un paese, non una civiltà, non una
religione, non un’ideologia: niente può essere egemonico. Questo
nostro mondo, nonostante la globalizzazione, è profondamente al
plurale. Siamo tanti e diversi.
Il nostro mondo ha bisogno del
realismo del dialogo, come arte del fare la pace e del vivre insime.
Saluto il Presidente della Repubblica del Mozambico, Armando Emilio
Guebuza, un uomo che ha avuto il coraggio del dialogo per far uscire
il suo paese da una guerra civile che lo strangolava. Abbiamo lavorato
con lui, per più di due anni, come Comunità di Sant’Egidio, per la
pace attraverso il dialogo. Oggi, il Mozambico, nella pace ritrovata e
nella libertà democratica, raggiunge positivi traguardi. Il Mozambico
offre una lezione sul valore dell’arte del dialogo per costruire la
pace. Ma anche offre una lezione sulla capacità di collaborare con
tutti per realizzare una vita migliore della sua gente. Oggi, nella
cura all’AIDS e nella nostra variegata presenza nel paese, ci
sentiamo accanto a questo popolo dalla grande resistenza e dalle
grandi risorse.
Il dialogo è il riconoscimento
delle diversità, non sempre facili, talvolta dolorose e da accettare.
Nessuna egemonia anche nel mondo globalizzato: siamo tanti e diversi,
ma dobbiamo vivere insieme. Ci sono due vie: quella folle di piegare
le diversità e di combatterle o quella saggia di accoglierle in una
visione vasta e pacifica del mondo. Spesso i terribili semplificatori
(e con loro i media) ci mostrano un mondo ridotto a scontri di
civiltà e religione. Ma non è così. Siamo tutti legati in
profondità, anche se diversi. Un tessuto culturale e spirituale
meticcio ci abbraccia, anche se differenziati nella nostre identità.
Essere se stessi, fedeli alla propria fede, non contraddice la ricerca
di dialogo. È essenziale il dialogo tra i credenti. Ma lo è pure
quello tra credenti e umanisti.
Un grande romanziere francese,
laico, nato in Algeria, Albert Camus, in un colloquio con i religiosi
cristiani diceva loro: “il mondo ha bisogno di vero dialogo, …il
contrario del dialogo è la menzogna come il silenzio, e… non c’è
dialogo possibile che tra gente che resta quella che è e che parla
sinceramente. Questo mi fa dire – era rivolto lui laico ai cristiani
– che il mondo d’oggi reclama che i cristiani restino cristiani”.
Il dialogo chiede che i credenti siano veri credenti.
Le religioni, che partono da una
irriducibile verità, possono dare un’anima ad una società che la
perde spesso nella contrapposizione e nell’odio. Lo fanno in un modo
tutto particolare. Hanno una via: parlare al cuore dell’uomo: “Cominciare
da se stessi: ecco l’unica cosa che conta…” – ha scritto
Martin Buber, per cui chi comincia da sé e dal proprio cuore può
sollevare il mondo. È vivere la propria vita disarmati, ma ancorati
alla fede: lo ha fatto frère Roger di Taizé che, sazio di anni, si
è visto portare via la sua vita mentre pregava. Le religioni non sono
portatrici d’ideologie, ma di spiritualità. Un grande spirituale
russo, San Serafino di Sarov, affermava: “acquista la pace in te e
migliaia la troveranno attorno a te”.
La dimensione personale e
spirituale è ineliminabile. Se la si sopprime, muore qualcosa nell’uomo.
I grandi processi politici, quelli totalitari, hanno piegato o
eliminato gli uomini per realizzare il loro paradiso sulla terra. Ma
non si fa la storia senza far i conti con gli uomini, calpestando il
valore della loro vita. Il nostro tempo è caratterizzato da una
profonda rivoluzione culturale: in meno di mezzo secolo ci sono stati
balzi in avanti prodigiosi, come l’alfabetizzazione, o la
partecipazione di milioni d’uomini alle passioni politiche degli
Stati usciti dalla decolonizzazione. Gli uomini e le donne,
alfabetizzati, oggi in rete, contano più di ieri e vogliono esistere
come soggetti.
Siamo in un tempo di
concentrazione di poteri forti, in cui una gran parte di Stati non
contano nulla. È vero. Ma, d’altra parte, i singoli possono
contare. Possono in maniera negativa e detestabile. Il terrorismo e le
guerriglie ci mostrano come pochi possono destabilizzare interi paesi,
addirittura il mondo. Bisogna allora parlare agli uomini, a questi
uomini del XXI secolo, che si sentono protagonisti del loro tempo. Un
uomo può perdere il mondo, ma può anche salvarlo.
Le religioni parlano agli uomini
e alle donne in un modo personale e spirituale. Sono anche reti di
cuori e di esistenze. Parlando del messaggio di Dio, parlano anche di
pace, parlano dell’altro, di colui che è diverso. Ma occorre
coraggio!
Questo talvolta manca agli
uomini di religione che scambiano la fedeltà con la conservazione
spaventata, che sono intimiditi dai poteri o dalle opinioni più
forti. Non si può restare inerti di fronte alla violenza. Occorre il
coraggio di una nuova e più incisiva riflessione sulla violenza anche
tra credenti: “Se insieme – diceva
Benedetto XVI ai musulmani a Colonia meno di un mese fa –
riusciremo ad estirpare dai cuori il sentimento di rancore, a
contrastare ogni forma d’intolleranza e ad opporci ad ogni
manifestazione di violenza, freneremo l’ondata di fanatismo crudele
che mette a repentaglio la vita di tante persone”. È una proposta,
che raccogliamo anche tra noi a Lione.
Non basta qualche dichiarazione.
Bisogna parlare con coraggio al cuore degli uomini e delle donne:
bisogna parlare della santità della pace e della maledizione del
disprezzo e dell’odio. Odio e disprezzo arano e preparano i campi
dove cresceranno i semi della violenza. Le religioni possono disarmare
i cuori, prepararli ad una missione di pace.
Lione oggi, anche per la
presenza di tanti uomini e donne di religione, di vari esponenti
laici, di personalità della politica e della cultura, incarna un
mondo irriducibilmente al plurale: ma non per questo destinato all’odio
o alla contrapposizione. Lione oggi è un alto luogo di incontro tra
le diversità religiose, convinte del messaggio che portano; ma è
anche uno spazio privilegiato in cui si sentono i fili che
attraversano e connettono i vari mondi: fili spirituali, d’amicizia,
del meticciato della culture… fili che abbiamo costruito e
rinsaldato in questi vent’anni di dialogo. Le religioni, parlando di
pace e del valore della vita, sono una via di umanesimo di pace:
quella di una civiltà dove si vive insieme, dove ci si compone nella
diversità in nome di quel valore della pace che è più grande di
ogni particolarismo.
Non c’è un dogma, non una
formula scientifica o ideologica, per indicare questa via del domani:
un umanesimo di pace, una civiltà in cui si vive insieme nella
diversità. Niente e nessuno può unificare: non con la forza, nemmeno
con l’economia, con la potenza culturale. Tutto viene da una
convergenza convinta nella libertà. La libertà, quella dei singoli e
dei gruppi, è realtà insopprimibile. Un grande studioso dell’islam,
che avremmo voluto tra noi, ma è impedito dalla malattia, il tunisino
Mohammed Talbi, ha scritto: “Quando si rompono le penne, non
rimangono che i coltelli”. L’avventura della libertà non ci
terrorizza, perché sappiamo che i credenti sono portatori di una
forza spirituale di amore e di misericordia. Lunga è la strada della
composizione delle differenze. Ma è la via della pace. Infatti non c’è
umanità senza pace; e la pace rende questo mondo umano. E la pace è
il nome del destino comune degli uomini e dei popoli. Questo ci dicono
le grandi tradizioni religiose. Questo sembra suggerirci una
ragionevole riflessione sulla storia.
Andrea Riccardi all'inviato
de La Stampa
È all'ombra di
un terrorismo che appare sempre più minaccioso che la Comunità
di Sant'Egidio ha aperto ieri la sua diciannovesima edizione
dell'incontro internazionale «Uomini e Religioni». Il rapporto
con l'Islam dal cui seno nasce la minaccia alla pace mondiale è
un punto centrale.
Ma è possibile realmente un dialogo?
«Non nascondo che stiamo
vivendo un periodo in cui l'Islam, sembra attraversare un momento di
malattia, una fase di grave turbolenza. Proprio per questo bisogna
vincere la diffidenza che è cresciuta fra mondi e religioni, un
terreno pericoloso, utile a coloro che vogliono scavare fossati, usare
le religioni per battersi, dominare grazie alla morte e alla violenza.
Come dice il mio amico Mohammed Talbi: "quando si spezzano le
penne, è l’ora dei coltelli"; è la miseria del pensiero».
Il dialogo può fermare le
bombe?
«Affermare che lo scontro di
civiltà, e anche quello fisico, violento, siano inevitabili, potrebbe
apparire realistico. Ma non coraggio, è una reazione di paura. La
violenza non è coraggio. Ora, le religioni, che fino a qualche anno
fa venivano considerate in via di sparizione, o tutt'al più fenomeni
di folclore, sono tornate sulla scena del mondo. E hanno qualche cosa
di pauroso perché possono essere o benzina per il fuoco della guerra,
o acqua per spegnere l’incendio. Per questo siamo qui, per dare la
risposta di Assisi 1986: uno accanto all’altro, non più uno contro
l’altro».
Assisi era nel 1986, e oggi
siamo a quattro anni dall'11 settembre 2001...
«Se non ci fosse stata
Assisi, e il lavoro dopo, la situazione sarebbe assai più grave.
Molto più grave. Gli uomini di religione spesso possono restare
prigionieri dei loro mondi, anche in un conflitto; e quindi
incontrarsi prima ha avuto... è stata una pace preventiva. Bisogna
che questo continui ancora di più intensamente dopo Madrid, dopo
Londra… Ci saranno uomini che testimoniano la fede e il dolore della
violenza».
Ma a questi incontri, che
parte dell'Islam è presente? Certo non i terroristi.
«Il mondo musulmano, più di
un miliardo di credenti - non è tutto eguale; questa è una
semplificazione che vuole Bin Laden, che vuole presentare un Islam
globale terrorista e violento. Un Islam sradicato dalle tradizioni dei
diversi paesi. L'Islam che viene qui? Non abbiamo cercato il musulmano
"buono", che ti viene a dire salaam, salaam, pace pace pace;
qui cerchiamo di parlare con i tanti volti dell’Islam. Se avessimo
davanti un Islam globale e violento, l’unica soluzione sarebbe la
guerra e l’espulsione dei musulmani. Ma noi siamo convinti che ci
sia una pluralità di Islam, una pluralità di mondi musulmani».
L'impressione che si ha di
Benedetto XVI è che privilegi l'identità al dialogo. È vera?
«Ha
parlato di dialogo e amicizia con ebrei e musulmani a Colonia. Se
preferisce l’identità è perché il Papa non è il Segretario
generale dell’Unesco, che favorisce il dialogo fra le civiltà. Il
papa deve confermare i fratelli nella fede e comunicare il Vangelo.
Questo è il suo primo compito. Ma siccome il papa è un grande
cristiano, ed è testimone dell’amore di Gesù, è anche qualcuno
che esorta gli uomini a parlarsi, a incontrarsi a essere amici. Non
vedo una contraddizione fra le due cose. Certo se vogliamo ridurre la
chiesa cattolica a un’agenzia dell’Unesco, e il Papa al suo
Direttore Generale, allora no. Dobbiamo stare attenti, perché c'è
stata in passato una banalizzazione, una folclorizzazione del dialogo,
una buffoneria. Qui abbiamo un dialogo di popolo. Vogliamo fare un
dialogo in cui i popoli si riconoscano. Nelle differenze. E «le
differenze non si riducono con le guerre. Ma la lezione è proprio
questa: non c'è niente al mondo, neanche una religione, che possa
essere egemone. Niente egemonie in un mondo globalizzato: siamo
numerosi e diversi, e dobbiamo vivere insieme»