Intervento di Andrea Riccardi all'Assemblea inaugurale
XIX Incontro internazionale e interreligioso di preghiera per la pace
“Il coraggio di un umanesimo di pace”
Lione, 12 settembre 2005

Intervista di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, all'inviato de La Stampa


Sono passati quattro anni dal terribile 11 settembre 2001. Qualcuno ha scritto che quel giorno ha cambiato in profondità il mondo. Altri ne hanno parlato come dello svelamento di un inevitabile conflitto tra civiltà e religione. Insomma un segnale di guerra per il secolo appena aperto. Quell’11 settembre resta la data più tragica di questo nostro inizio di secolo.

<--Andrea Riccardi, Assemblea inaugurale 


È stato un segnale sinistro, confermato da tanti fatti dolorosi. Non siamo, però, qui soltanto per commemorare quella data, ma per guardare allo spirito e alla realtà del nostro tempo.

È cresciuta, tra mondi e religioni, una diffidenza: terreno pericoloso per chi vuole allargare i fossati, usare le religioni per combattere, dominare attraverso la morte e la violenza. Simboli e motivi religiosi sono utilizzati in queste campagne. Il terrorismo, internazionale e locale, rafforza la diffusa paura dell’altro. Spesso sembra realista dire che lo scontro, violento o culturale, sia inevitabile. Appare coraggio; ma è paura in un mondo disumano. C’è troppa paura. La violenza non è coraggio.

Milioni di donne e di uomini, ansiosi in un mondo con aspetti di disumanità, cercano un’anima per il nostro tempo. Sono capaci di rispondere con un grande slancio: come si è visto all’inizio del 2005 con la vasta solidarietà per i colpiti dallo Tsunami o, oggi, con la tragedia che ha colpito New Orleans. La gente cerca un’anima. Le religioni hanno una grande responsabilità e hanno grandi tesori di fede, di spiritualità, di sapienza. Ognuna – ben lo sappiamo – ha il suo modo e la sua tradizione nel vivere questa responsabilità.

Eppure gli uomini e le donne del nostro tempo sono contenti di vedere gli uomini di religione, i responsabili, gli uni accanto agli altri. Si dicono: “non volete la guerra tra voi”, “Dio non vuole la guerra, ma la pace”, “non benedite i muri e i fossati che si aprono tra i popoli”. Non si tratta di una fotografia ad effetto, ma di un’immagine densa di significato. Ed io, a nome della Comunità di Sant’Egidio, ringrazio tutti voi, responsabili religiosi, di aver accettato di venire qui, di essere con gli altri, di ascoltare, di discutere, di pregare. Lione, in questi giorni, diventa un luogo alto, non solo in Francia: qui, con voci differenti e in nome di tradizioni e spiritualità differenti, si dice che la pace è santa, la pace è il nome di Dio. Si dice che la pace dà un’anima al nostro tempo e aiuta a ritrovare l’anima.

Ringrazio, allora, il card. Barbarin e la Diocesi di Lione, per aver accolto con entusiasmo questa iniziativa e averla sostenuta. Mi permetto di salutare i miei amici di Sant’Egidio da vari paesi d’Europa e del mondo, che sono qui come volontari per organizzare e come appassionati testimoni di questo incontro.

Sono grato alle Autorità del Comune, del Dipartimento e della Regione, perché senza il loro contributo generoso e intelligente non sarebbe stato possibile questo incontro. La Repubblica francese, qui rappresentata dal Signor Ministro dell’Interno che ci fa l’onore d’intervenire, ha facilitato e sostenuto l’iniziativa. Questa avviene nell’anno centenario delle leggi laiche. Allora – come scrive Emile Poulat – due France si opposero; oggi, una Francia al plurale, in nome della libertà e della laicità, si fa accogliente verso leader religiosi di tutto il mondo. Questi leader dialogheranno anche con significativi rappresentanti del pensiero umanista e laico. Quello che oggi avviene a Lione corrisponde alla sua natura di alto luogo del cattolicesimo francese, aperto all’universale, ma anche di alto luogo del pensiero umanista.

La presenza di tanti, che rappresentano il sentire religioso di popoli, è un’immagine densa di promettente significato. I leader religiosi, qui convenuti, non parlano solo della loro fede, ma fanno memoria del dolore dell’umanità. Non dell’odio come tanti, ma del dolore. Tanti sono stati i dolori del Novecento. Non provo nemmeno a farne un elenco. Lo studioso americano, Rudolph Rummel, ha affrontato la realtà dell’omicidio di popolo (“demomicidio” secondo la sua espressione): ha calcolato 170 milioni d’esseri umani uccisi nel XX secolo, in gran parte dalla violenza di Stato. Novant’anni fa, è stato compiuto il genocidio degli armeni e dei cristiani nell’impero ottomano, il cui dolore si ritrova ancora impresso nel canto della Chiesa armena, di cui salutiamo Sua Santità il Catholicos. Sessant’anni fa, è stato liberato il campo della morte di Auschwitz, abisso che ha divorato il popolo ebraico e tanti altri. Sessant’anni fa, a Hiroshima, è avvenuta la prima distruzione atomica, frutto di una guerra folle in Asia, segnata da tanti massacri tra cui quello orribile di Nanchino.

Il dolore unisce gente di religione diversa nella compassione. Lo ha fatto nella dura vita del gulag o del lager. Là sono nati ecumenismo e il dialogo. Il dolore ha avvicinato i credenti che, prima, si guardavano con diffidenza od ostilità, talvolta attratti dalle logiche della contrapposizione. Il credente non chiede a chi soffre quale sia la sua religione o la sua nazione: ma vede in lui la creatura di Dio.

Nel 1986, con la semplicità intuitiva dei grandi spirituali, Giovanni Paolo II invitò ad Assisi, in Italia, sul colle di San Francesco, i leader delle religioni mondiali. Fioriva allora un segno, indicatore per il nostro tempo. Chiese ai credenti di stare gli uni accanto agli altri nella preghiera, non più gli uni contro gli altri. Propose il legame tra la forza debole della preghiera e la pace. Lo ricorda bene il card. Etchegaray, che fu protagonista di quell’evento. Giovanni Paolo II, in quel 1986, varcò la soglia della sinagoga di Roma, per la prima volta. Lo abbiamo visto poi a Gerusalemme, a Yad Vashem, al Muro del Pianto, alla moschea di El Aqsa. Fu a Damasco nella moschea degli Omayaddi, uno dei primi luoghi di preghiera dell’islam. Entrò nei luoghi santi dell’Asia. Le soglie di quei luoghi non erano più frontiere, ma porte di amici per chi veniva nel nome della pace. Giovanni Paolo II ha creduto alla forza mite delle correnti di spiritualità, di pace, di fede che scuotono il mondo dal di dentro. Questo era lo spirito di Assisi.

Tutti abbiamo un gran debito verso Giovanni Paolo II, padre dello spirito di Assisi. Lo dico a nome della Comunità di Sant’Egidio, nata a Roma nel 1968 ed ora in una settantina di paesi del mondo: anche noi abbiamo un gran debito verso questo papa, che consideriamo un padre. Egli, profondamente convinto della verità della sua fede, è stato un uomo di dialogo e di pace. Ha scritto: “invece di meravigliarci che la Provvidenza permette una tanto grande varietà di religioni, ci si dovrebbe piuttosto stupire dei numerosi elementi comuni che in essi si riscontrano”. Giovanni Paolo II ha più volte incoraggiato Sant’Egidio a continuare questo spirito di Assisi, che è amicizia e pace nella diversità. Tante volte ci ha detto che era la nostra strada. Ma che era anche la sua.

La differenza non si può risolvere in conflitti. Non crediamo ad una conciliazione piacevole, ad un relativismo a buon mercato, a creare verità buone per tutti in laboratorio. Conosciamo le differenze profonde. Anzi, nel contemplare, anche tra noi, le differenze religiose, ne capiamo la lezione: non c’è niente in questo mondo, nemmeno una religione, che possa essere egemonica. Non una cultura, non un paese, non una civiltà, non una religione, non un’ideologia: niente può essere egemonico. Questo nostro mondo, nonostante la globalizzazione, è profondamente al plurale. Siamo tanti e diversi.

Il nostro mondo ha bisogno del realismo del dialogo, come arte del fare la pace e del vivre insime. Saluto il Presidente della Repubblica del Mozambico, Armando Emilio Guebuza, un uomo che ha avuto il coraggio del dialogo per far uscire il suo paese da una guerra civile che lo strangolava. Abbiamo lavorato con lui, per più di due anni, come Comunità di Sant’Egidio, per la pace attraverso il dialogo. Oggi, il Mozambico, nella pace ritrovata e nella libertà democratica, raggiunge positivi traguardi. Il Mozambico offre una lezione sul valore dell’arte del dialogo per costruire la pace. Ma anche offre una lezione sulla capacità di collaborare con tutti per realizzare una vita migliore della sua gente. Oggi, nella cura all’AIDS e nella nostra variegata presenza nel paese, ci sentiamo accanto a questo popolo dalla grande resistenza e dalle grandi risorse.

Il dialogo è il riconoscimento delle diversità, non sempre facili, talvolta dolorose e da accettare. Nessuna egemonia anche nel mondo globalizzato: siamo tanti e diversi, ma dobbiamo vivere insieme. Ci sono due vie: quella folle di piegare le diversità e di combatterle o quella saggia di accoglierle in una visione vasta e pacifica del mondo. Spesso i terribili semplificatori (e con loro i media) ci mostrano un mondo ridotto a scontri di civiltà e religione. Ma non è così. Siamo tutti legati in profondità, anche se diversi. Un tessuto culturale e spirituale meticcio ci abbraccia, anche se differenziati nella nostre identità. Essere se stessi, fedeli alla propria fede, non contraddice la ricerca di dialogo. È essenziale il dialogo tra i credenti. Ma lo è pure quello tra credenti e umanisti.

Un grande romanziere francese, laico, nato in Algeria, Albert Camus, in un colloquio con i religiosi cristiani diceva loro: “il mondo ha bisogno di vero dialogo, …il contrario del dialogo è la menzogna come il silenzio, e… non c’è dialogo possibile che tra gente che resta quella che è e che parla sinceramente. Questo mi fa dire – era rivolto lui laico ai cristiani – che il mondo d’oggi reclama che i cristiani restino cristiani”. Il dialogo chiede che i credenti siano veri credenti.

Le religioni, che partono da una irriducibile verità, possono dare un’anima ad una società che la perde spesso nella contrapposizione e nell’odio. Lo fanno in un modo tutto particolare. Hanno una via: parlare al cuore dell’uomo: “Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa che conta…” – ha scritto Martin Buber, per cui chi comincia da sé e dal proprio cuore può sollevare il mondo. È vivere la propria vita disarmati, ma ancorati alla fede: lo ha fatto frère Roger di Taizé che, sazio di anni, si è visto portare via la sua vita mentre pregava. Le religioni non sono portatrici d’ideologie, ma di spiritualità. Un grande spirituale russo, San Serafino di Sarov, affermava: “acquista la pace in te e migliaia la troveranno attorno a te”.

La dimensione personale e spirituale è ineliminabile. Se la si sopprime, muore qualcosa nell’uomo. I grandi processi politici, quelli totalitari, hanno piegato o eliminato gli uomini per realizzare il loro paradiso sulla terra. Ma non si fa la storia senza far i conti con gli uomini, calpestando il valore della loro vita. Il nostro tempo è caratterizzato da una profonda rivoluzione culturale: in meno di mezzo secolo ci sono stati balzi in avanti prodigiosi, come l’alfabetizzazione, o la partecipazione di milioni d’uomini alle passioni politiche degli Stati usciti dalla decolonizzazione. Gli uomini e le donne, alfabetizzati, oggi in rete, contano più di ieri e vogliono esistere come soggetti.

Siamo in un tempo di concentrazione di poteri forti, in cui una gran parte di Stati non contano nulla. È vero. Ma, d’altra parte, i singoli possono contare. Possono in maniera negativa e detestabile. Il terrorismo e le guerriglie ci mostrano come pochi possono destabilizzare interi paesi, addirittura il mondo. Bisogna allora parlare agli uomini, a questi uomini del XXI secolo, che si sentono protagonisti del loro tempo. Un uomo può perdere il mondo, ma può anche salvarlo.

Le religioni parlano agli uomini e alle donne in un modo personale e spirituale. Sono anche reti di cuori e di esistenze. Parlando del messaggio di Dio, parlano anche di pace, parlano dell’altro, di colui che è diverso. Ma occorre coraggio!

Questo talvolta manca agli uomini di religione che scambiano la fedeltà con la conservazione spaventata, che sono intimiditi dai poteri o dalle opinioni più forti. Non si può restare inerti di fronte alla violenza. Occorre il coraggio di una nuova e più incisiva riflessione sulla violenza anche tra credenti: “Se insieme – diceva Benedetto XVI ai musulmani a Colonia meno di un mese fa – riusciremo ad estirpare dai cuori il sentimento di rancore, a contrastare ogni forma d’intolleranza e ad opporci ad ogni manifestazione di violenza, freneremo l’ondata di fanatismo crudele che mette a repentaglio la vita di tante persone”. È una proposta, che raccogliamo anche tra noi a Lione.

Non basta qualche dichiarazione. Bisogna parlare con coraggio al cuore degli uomini e delle donne: bisogna parlare della santità della pace e della maledizione del disprezzo e dell’odio. Odio e disprezzo arano e preparano i campi dove cresceranno i semi della violenza. Le religioni possono disarmare i cuori, prepararli ad una missione di pace.

Lione oggi, anche per la presenza di tanti uomini e donne di religione, di vari esponenti laici, di personalità della politica e della cultura, incarna un mondo irriducibilmente al plurale: ma non per questo destinato all’odio o alla contrapposizione. Lione oggi è un alto luogo di incontro tra le diversità religiose, convinte del messaggio che portano; ma è anche uno spazio privilegiato in cui si sentono i fili che attraversano e connettono i vari mondi: fili spirituali, d’amicizia, del meticciato della culture… fili che abbiamo costruito e rinsaldato in questi vent’anni di dialogo. Le religioni, parlando di pace e del valore della vita, sono una via di umanesimo di pace: quella di una civiltà dove si vive insieme, dove ci si compone nella diversità in nome di quel valore della pace che è più grande di ogni particolarismo.

Non c’è un dogma, non una formula scientifica o ideologica, per indicare questa via del domani: un umanesimo di pace, una civiltà in cui si vive insieme nella diversità. Niente e nessuno può unificare: non con la forza, nemmeno con l’economia, con la potenza culturale. Tutto viene da una convergenza convinta nella libertà. La libertà, quella dei singoli e dei gruppi, è realtà insopprimibile. Un grande studioso dell’islam, che avremmo voluto tra noi, ma è impedito dalla malattia, il tunisino Mohammed Talbi, ha scritto: “Quando si rompono le penne, non rimangono che i coltelli”. L’avventura della libertà non ci terrorizza, perché sappiamo che i credenti sono portatori di una forza spirituale di amore e di misericordia. Lunga è la strada della composizione delle differenze. Ma è la via della pace. Infatti non c’è umanità senza pace; e la pace rende questo mondo umano. E la pace è il nome del destino comune degli uomini e dei popoli. Questo ci dicono le grandi tradizioni religiose. Questo sembra suggerirci una ragionevole riflessione sulla storia.

Andrea Riccardi all'inviato de La Stampa

È all'ombra di un terrorismo che appare sempre più minaccioso che la Comunità di Sant'Egidio ha aperto ieri la sua diciannovesima edizione dell'incontro internazionale «Uomini e Religioni». Il rapporto con l'Islam dal cui seno nasce la minaccia alla pace mondiale è un punto centrale.

Ma è possibile realmente un dialogo? 

«Non nascondo che stiamo vivendo un periodo in cui l'Islam, sembra attraversare un momento di malattia, una fase di grave turbolenza. Proprio per questo bisogna vincere la diffidenza che è cresciuta fra mondi e religioni, un terreno pericoloso, utile a coloro che vogliono scavare fossati, usare le religioni per battersi, dominare grazie alla morte e alla violenza. Come dice il mio amico Mohammed Talbi: "quando si spezzano le penne, è l’ora dei coltelli"; è la miseria del pensiero».

Il dialogo può fermare le bombe?

«Affermare che lo scontro di civiltà, e anche quello fisico, violento, siano inevitabili, potrebbe apparire realistico. Ma non coraggio, è una reazione di paura. La violenza non è coraggio. Ora, le religioni, che fino a qualche anno fa venivano considerate in via di sparizione, o tutt'al più fenomeni di folclore, sono tornate sulla scena del mondo. E hanno qualche cosa di pauroso perché possono essere o benzina per il fuoco della guerra, o acqua per spegnere l’incendio. Per questo siamo qui, per dare la risposta di Assisi 1986: uno accanto all’altro, non più uno contro l’altro».

Assisi era nel 1986, e oggi siamo a quattro anni dall'11 settembre 2001...

«Se non ci fosse stata Assisi, e il lavoro dopo, la situazione sarebbe assai più grave. Molto più grave. Gli uomini di religione spesso possono restare prigionieri dei loro mondi, anche in un conflitto; e quindi incontrarsi prima ha avuto... è stata una pace preventiva. Bisogna che questo continui ancora di più intensamente dopo Madrid, dopo Londra… Ci saranno uomini che testimoniano la fede e il dolore della violenza».

Ma a questi incontri, che parte dell'Islam è presente? Certo non i terroristi.

«Il mondo musulmano, più di un miliardo di credenti - non è tutto eguale; questa è una semplificazione che vuole Bin Laden, che vuole presentare un Islam globale terrorista e violento. Un Islam sradicato dalle tradizioni dei diversi paesi. L'Islam che viene qui? Non abbiamo cercato il musulmano "buono", che ti viene a dire salaam, salaam, pace pace pace; qui cerchiamo di parlare con i tanti volti dell’Islam. Se avessimo davanti un Islam globale e violento, l’unica soluzione sarebbe la guerra e l’espulsione dei musulmani. Ma noi siamo convinti che ci sia una pluralità di Islam, una pluralità di mondi musulmani».

L'impressione che si ha di Benedetto XVI è che privilegi l'identità al dialogo. È vera?

«Ha parlato di dialogo e amicizia con ebrei e musulmani a Colonia. Se preferisce l’identità è perché il Papa non è il Segretario generale dell’Unesco, che favorisce il dialogo fra le civiltà. Il papa deve confermare i fratelli nella fede e comunicare il Vangelo. Questo è il suo primo compito. Ma siccome il papa è un grande cristiano, ed è testimone dell’amore di Gesù, è anche qualcuno che esorta gli uomini a parlarsi, a incontrarsi a essere amici. Non vedo una contraddizione fra le due cose. Certo se vogliamo ridurre la chiesa cattolica a un’agenzia dell’Unesco, e il Papa al suo Direttore Generale, allora no. Dobbiamo stare attenti, perché c'è stata in passato una banalizzazione, una folclorizzazione del dialogo, una buffoneria. Qui abbiamo un dialogo di popolo. Vogliamo fare un dialogo in cui i popoli si riconoscano. Nelle differenze. E «le differenze non si riducono con le guerre. Ma la lezione è proprio questa: non c'è niente al mondo, neanche una religione, che possa essere egemone. Niente egemonie in un mondo globalizzato: siamo numerosi e diversi, e dobbiamo vivere insieme»
 

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