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La prospettiva islamica su ebraismo e cristianità
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"Le prospettive islamiche sull'ebraismo e sul cristianesimo" è il titolo
della conferenza che Mona Siddiqui, direttrice del Centro per gli studi
sull'islam dell'università di Glasgow, in Scozia, ha tenuto nel pomeriggio di
mercoledì 5 maggio a Roma, presso la Pontificia Università San Tommaso d'Aquino,
nell'ambito della lecture all'Angelicum organizzata dallo stesso Angelicum e
dalla Russell Berrie Foundation, da anni impegnata sui temi del dialogo e
dell'incontro interreligioso. La studiosa ha sviluppato il tema: "La compassione
chiave del dialogo tra le fedi".
Singolare che, in qualità di docente di Dialogo Interreligioso proprio all'Angelicum(1),
sia Rav Jack Bemporad - rabbino capo nel New Jersey e direttore del Center for
Interreligious Understanding, profugo dell'Olocausto in Italia - a sottolineare
l'eccezionalità della situazione e la straordinaria importanza storica della
voce musulmana di Mona Siddiqui chiamata a risuonare in una sede pontificia. Al
rabbino viene riconosciuta in tutto il mondo una lunghissima esperienza di
studioso e di mediatore; egli ha dichiarato: "Ci attendiamo tutti molto da
questo incontro che aprirà una nuova prospettiva rispondendo alla domanda 'Come
posso essere fedele alla mia religione senza essere infedele ad altre'",
sottolineando come "Roma si confermi città dell'incontro e del dialogo tra le
religioni e le culture, città da dove si alza un appello anche al mondo islamico
perché questo cammino sia condotto insieme."
Mona Siddiqui afferma che "I musulmani hanno storicamente avuto atteggiamenti
differenti verso le altre religioni, specialmente quella ebraica e quella
cristiana". "L'unitarietà e la diversità dell'umanità sono temi che coesistono
nel Corano e possono essere interpretati a supporto tanto di rivendicazioni
inclusiviste, quanto esclusiviste". E questo anche se è vero che "molti esegeti
musulmani ne hanno derivato il presupposto che la religione primordiale di tutte
le genti fosse l'islam e che tutto iniziò con Adamo, considerato essere il primo
profeta". Di fatto però, rileva la studiosa,"la questione non riguarda tanto il
riconoscimento delle religioni ebraica e cristiana, in quanto queste erano già
presenti nel sesto secolo. Inoltre, i musulmani riconoscono i loro antichi
profeti come parti del loro credo". "Le tensioni risiedono, invece, su come
devono essere percepite teologicamente, oltre che nelle relazioni sociali".
Conseguentemente, "la domanda essenziale riguarda il come i musulmani intendono
il loro essere cittadini di maggioranza o di minoranza nell'odierna realtà
sociale". Una domanda che può essere posta in questi termini: "L'esperienza
umana di vivere e lavorare con popoli e culture differenti sarà il fattore
determinante per uno sviluppo del pluralismo all'interno dell'islam? Oppure, le
varianti ai testi del Corano significheranno che il non credente, cioè il non
musulmano, non potrà mai essere considerato come un uguale?". La sua conclusione
è che la differenza pratica, parlando di umanità comune, può essere superata
soltanto dalla 'compassione', richiamando quindi l'attenzione sulla necessità di
una più solida teologia islamica dell'inclusione dove il punto di partenza sia
la compassione, non la salvezza.
È accaduto dunque che una donna musulmana, considerata una delle voci più
autorevoli nei circoli accademici islamici e nella vita pubblica, ha parlato
alle leadership cattoliche ed ebraiche, indicando la via di una "nuova" teologia
islamica, audace e originale.
Mona Siddiqui sostanzialmente è venuta a proporre - sotto l'aspetto della
visuale islamica rapportata ad ebraismo e cristianesimo - una nuova
teologia basata sulla 'compassione' anziché sulla 'salvezza'... Da rilevare che
l'Osservatore Romano ha pubblicato una sintesi dell'intervento della studiosa,
d'origine pakistana, definendola "nota per il suo sostegno al dialogo tra le
religioni e per un lavoro teologico che sottolinea il valore delle fedi
monoteiste". C'è da chiedersi se aver promosso e ospitato un evento del genere
significhi che, per proseguire nel dialogo, si debba procedere ad analoghe
'revisioni' teologiche in ambito cristiano, capaci di evitare "infedeltà" ad
altre fedi, per usare la contraddizione in termini del rabbino, docente in una
facoltà Pontificia... anche se, nell'immediato, l'intento della Siddiqui appare
quello di promuovere uno sviluppo del pluralismo all'interno dell'Islam,
centrando il cuore del problema: cioè, come un uomo di fede si pone nei
riguardi degli altri uomini.
Nelle ipotesi più ottimiste, in alcuni versanti più 'illuminati' del
poliedrico mondo islamico il discorso sviluppato dalla studiosa potrebbe
incontrare dei consensi. Nel mondo ebraico, altrettanto poliedrico, ma nel
quale la Storia della Salvezza coincide con la propria storia, il discorso
potrebbe far presa attraverso l'universalità della Salvezza che l'Antico
Testamento fa apparire destinata a tutti i popoli. Nel mondo cristiano, la
prospettiva universalista – non esclusivista né etnocentrica ma teologale,
già presente nel Vecchio Testamento – è diventata
esplicita e si è realizzata solo con l’autentica esegesi che Gesù Cristo ha
rivelato e permesso.La prospettiva cristiana
Per noi cristiani, l'uomo, ogni uomo, più che
di 'compassione' ha bisogno di Salvezza e 'conosciamo'(2) che, se abbiamo bisogno di essere
salvati, l'unico Salvatore è Cristo Signore, che rende anche possibile il nostro
essere davvero compassionevoli. Sembra delinearsi la stessa differenza che c'è
tra le "opere della fede" e quelle "della legge" in senso paolino, che i
protestanti non capiscono, non accettano e ci contestano; il che in definitiva
vale anche per ebrei e musulmani. Piccola chiosa: "opere della fede" sono quelle
che scaturiscono da un cuore Redento, nel quale "la Legge" viene incisa dal
Signore con la Sua Grazia, e quindi sono tanto più aderenti alla volontà di Dio
quanto più il credente permette alla Grazia di operare la 'configurazione' al
Figlio diletto, il Signore Gesù...
La compassione, se non nasce da un cuore redento, è un' "opera della legge", un
atteggiamento che può tradursi in buone azioni solo umane. Pensiamo all'analoga
differenza che possiamo riscontrare tra la filantropia – coniata e praticata da un
generico umanesimo nel quale molti oggi vorrebbero inglobare o col quale
vorrebbero confondere il cristianesimo –, e le azioni che scaturiscono
dall'offerta di sé al Padre inserita in quella compiuta da Cristo sulla Croce e
che ci apre il mondo della Risurrezione, quello della Creazione nuova. La
differenza sostanziale – che spiritualmente è un abisso – sta tra la buona volontà
umana in sé e per sé, apprezzabile ma che solo umana resta, e la
buona volontà umana coniugata con la Grazia Santificante che fluisce da Cristo
Salvatore e Redentore, accolta e ricevuta da un cuore credente in Lui, che
genera azioni umano-divine portatrici anch'esse di salvezza... Infatti,
possiamo constatare come una generica compassione può aiutare, consolare,
rendere migliore la qualità della vita; ma non vince alla radice il male che è
sempre pronto a incunearsi in qualunque realtà ed opera umana, che vediamo
partire con altisonanti e splendide certezze (tipo le magnifiche sorti e
progressive...) per poi inesorabilmente degenerare: ce lo insegna l'esperienza e
ce lo dice la Scrittura "se il Signore non costruisce la casa, invano si
affaticano i costruttori" (Sl 127)
Di fatto c'è un'ala della Chiesa che continua a voler portare avanti un dialogo
inter-religioso partendo dal presupposto, errato, che il dialogo tra le fedi sia
possibile, mentre invece il papa – e quanto giustamente! – ha detto che possono
dialogare le culture e non le fedi...(3)
Se è condivisibile l'affermazione della Siddiqui che "qualunque forma di dialogo si fonda sull’umiltà e la
volontà di venirsi incontro", fa riflettere quanto ad essa aggiunge il
rabbino sulla ricerca della Verità:
“Io credo che la conoscenza sia essenziale. E questo proprio per le
difficoltà che nel passato facevano dire: 'questa è la mia religione e
solo noi abbiamo tutte le cose che sono buone'. Il Concilio Vaticano II
ha cambiato completamente questo modo di vedere, dicendo che è
necessario capire e rispettare l’altro per la rappresentazione che dà di
se stesso. Questo lo dovrebbero fare anche le altre religioni”.
[dall'intervista
di Radio Vaticana del 7 maggio]
Se la comprensione interreligiosa si basa sulla "ricerca della Verità",
questo può dirlo solo qualcuno che la Verità – che è Una, si è rivelata e
per noi ha un Nome, Cristo Signore – la sta ancora aspettando o non l'ha
ancora trovata. Se il dialogo nel quale la Chiesa si impegna sempre più si
fonda su questi presupposti, è un tradimento della Verità che l'ha
costituita e la sostiene e la alimenta fino alla fine dei tempi. Compito
della Chiesa non è "cercare la Verità insieme ad altri", ma annunciare,
proporre, quel che della Verità le è dato 'conoscere' (v. nota 2)
dalla Rivelazione
Apostolica illuminata e approfondita dalla vita di fede, dalla Tradizione e
dal Magistero di due millenni, che il Concilio in certe sue affermazioni e
conseguenti applicazioni, sembra aver oltrepassato; il resto spetta a chi
ascolta e all'opera dello Spirito che, come ha detto il Signore: "...il
Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi
insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto" (Gv
14,26). Annunciare, proporre, non significa "imporre" e non c'era bisogno
del Vaticano II per aver presente il rispetto per l'"altro". Piuttosto,
l'asserzione del Concilio che sancisce l'uguaglianza delle religioni nega non solo
l’Unicità, l’assolutezza, l’originalità e la centralità della Signoria di
Cristo (Dominus Iesus, nn.
13-15), mentre il fatto che la Chiesa
rinunci a vivere e ad annunziare la relazione vitale che abbiamo con Dio in
Cristo Gesù, che non è “una delle tante vie” tra tante strade tutte uguali,
ha come conseguenza il relativismo religioso. In definitiva la libertà
religiosa, professata dal decreto Dignitatis Humanae, concede un diritto positivo all'errore quando
invece esso può essere unicamente, in certi casi, tollerato.
Conoscersi è bene, rispettarsi ancor meglio, ma "cercare insieme la Verità"
significa tradire la propria fede per non tradire le altre e questa, come
già sottolineato, è una contraddizione in termini, oppure non stiamo
parlando di fede autentica.
C'è da chiedersi perché tanti alti prelati (erano in molti presenti all'evento)
hanno dato una così massiccia adesione. Si tratta di una studiosa di indubbio spessore; ma
davvero essi sottovalutano il fatto che se la compassione non è coniugata con
la salvezza, si tratta di un velleitarismo solo umano e, come tale, soggetto
alle degenerazioni che appartengono all'ordine naturale delle cose del 'mondo'
non redento? In fondo una 'compassione' scissa dalla salvezza, anche
nell'accezione islamica, cos'è se non una 'graziosa' concessione che poi
resta da vedere come si traduce in pratica? La buona volontà è apprezzabile;
ma, se si parla sul piano teologico, non si può ignorare da dove nascono e a
cosa portano in concreto le idee che sviluppiamo e le loro pratiche
applicazioni. Non basta buttar lì un 'masso erratico', per quanto
suggestivo, per pensare di produrre veri positivi cambiamenti. Anche perché
non si può ignorare che ci si basa su accezioni diverse date ai termini 'compassione'
e 'salvezza' nei diversi universi religiosi di riferimento. Le buone
volontà si possono incontrare nella prassi, ma non nella teologia, perché
ogni teologia nasce da 'credo' diversi e conduce ad antropologia e
conseguenti comportamenti diversi.
Il rischio che la Chiesa Cattolica corre - dove 'cattolico', purtroppo termine
oggi
alquanto in disuso, sta per custode della Tradizione autentica, nella fedeltà al
Signore ed alla Rivelazione Apostolica portatrice della sua Presenza - è quello
dell'oscuramento del messaggio e dell'Opera di Cristo; il che può generare solo confusione e perdita di identità: non
essere più "lievito"... È un rischio che non può correre chi crede nel Dio S.S.Trinità, che
oltre ad essere clemente e misericordioso è anche Salvatore ed entra in
dialogo con le sue creature, introducendole nella relazione delle relazioni: la comunicazione d'Amore intra Trinitaria e 'configurandole'
sempre più a Cristo Signore. Ciò accade in virtù di un'appartenenza teologale ad una
Persona: un'identità spirituale, non etnica legata alla razza e comunque
ferma alla mediazione di Mosè, né quella del 'popolo del libro' la cui
parola increata è da vivere alla lettera e senza mediazioni come parusia di un Dio
completamente trascendente e impersonale.
Sta di fatto che la Siddiqui ha parlato sul piano teologico e propone
un'esegesi coranica nuova che potrebbe facilitare l'incontro di 'buone volontà' sulle prassi e sui comportamenti, nel
tentativo di instaurare possibili civili convivenze in questo mondo in cui la globalizzazione, dopo aver annullato i confini geografici, vorrebbe anche
indurre ad annullare quelli dati dalle 'differenze'; ma il problema continua a
porsi, se
si pensa che non si tratta di banali superficiali e colmabili 'diversità' che, a
livello culturale, possono arricchirsi interagendo. Sul piano teologico
non entrano in campo diversità culturali, ma identità
profonde, che hanno le loro radici nel Soprannaturale o altrimenti non hanno
radici, oppure ancora, bisogna vedere a quale regione del soprannaturale
attingono...
Conclusione
La conferenza di Roma arriva dopo tre anni dall'istituzione di un Insegnamento
universitario di Studi Interreligiosi (e relative Borse di Studio di due anni)
presso l'Università Pontificia Angelicum, insegnamento che ha lo scopo di
costruire ponti di comprensione tra Cattolicesimo, Ebraismo e altre tradizioni
religiose formando una nuova generazione di capi religiosi al confronto, alla
tolleranza e al dialogo nel rispetto delle differenze. L'auspicio dichiarato dai
responsabili di questa iniziativa formativa è che tratti unificatori delle
religioni del mondo possano costituire la base per un terreno comune e siano i
principi di un sincero pluralismo nella ricerca di un sostanziale terreno etico
comune.
Viene spontaneo esprimere qualche perplessità: se è bene che parlino i leader
religiosi, le sfide della convivenza coinvolgono direttamente i cittadini e la
politica, sulla quale i leader religiosi influiscono in maniera cogente solo nei
paesi islamici che sono teocratici, ammesso che la galassia islam si lasci
coinvolgere tutta dal dialogo e, soprattutto, sia incline a recepire suggestioni
teologiche di questo o di altro genere...
Dal nostro versante appare difficile che un liberismo selvaggio come quello che stiamo
vivendo – che per essere quello che è ha già estromesso Dio, mettendo al
centro l'uomo, come del resto ha fatto il comunismo – ascolti la voce della
Chiesa e faccia del Signore
Nostro Gesù Cristo e soprattutto della Sua Divinità e della Sua Regalità il
vero fondamento... ma i cristiani continuano ad esserci, a custodire e
vivere la loro fedeltà, sapendo che la Storia è nelle mani del Signore.
I problemi sul tappeto e le loro soluzioni riguardano
dunque maggiormente, nella prassi comune da perseguire, i cittadini e i politici di
buona volontà, ed è ad essi che spetta in primis il dialogo. Soprattutto,
da parte dei politici, occorre un più forte senso dello stato e del bene
comune ed il necessario spessore culturale capace di tutelare l'identità
nazionale insieme al rispetto delle regole del vivere civile, prima di
promuovere quelle di una giusta convivenza basata su un più fermo e
generalizzato rispetto delle reciprocità, di fatto peraltro inesistenti per
le minoranze presenti nei Paesi musulmani.
La Chiesa invece, secondo la sua Missione, più che sforzarsi di dialogare, deve
preoccuparsi di rendere il vero culto a Dio e di diffondere e difendere le
Verità di Fede, perché è solo da esse, accolte e messe in pratica, che
scaturiscono le virtù, riguardanti la conversione e la trasformazione dei
singoli e delle strutture che essi animano ed ogni conseguente possibile
rinascita culturale e sociale. L'auspicata condivisione di sani valori, se non
se ne condivide il Fondamento, rimane un dato esteriore che è sempre meglio di
niente ma non ha in sé la vis trasformante dell'esercizio delle virtù
teologali... certo nella loro pienezza esse sono un punto di arrivo; ma una
volta che un credente porta nelle sue relazioni una Fede viva, c'è già un inizio
del Regno di Dio in cammino... e solo su questo si può pensare di costruire
qualcosa di valido e di poter fecondare le strutture sociali.
In questo senso il 'dialogo delle culture' propugnato dal Papa appare realistico
e finalmente può consentire alla Chiesa di uscire dalle ambiguità di un falso
ecumenismo e di un dialogo interreligioso privo di ricadute nella realtà,
foriero piuttosto di indebite intromissioni nelle questioni ecclesiali, e di
riprendere l'Annuncio, che le è stato affidato, nonché il munus sanctificandi
dei suoi fedeli...
È sintomatico che un altro studioso islamico, Khaled Fouad Allam, dica: "Il dialogo è in qualche modo legato
a quella "salvezza", anche nella sua versione profana, che dovrà illuminare il
buio dei nostri giorni" ["Le religioni e il destino del mondo",
Osservatore Romano del 30 novembre 2008]. Sembra sia in qualche modo necessario
'accontentarsi' di una "salvezza in versione profana"; ma è vera salvezza? Torna
sempre il discorso su Chi è – e non su cosa è – il Fondamento su cui si vuole
costruire...
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(1) c'è da chiedersi se accada che teologi cattolici siano chiamati ad insegnare
in contesti ebraici o altri...
(2) nel senso biblico del termine:
“conoscere” è il verbo del rapporto intimo sponsale indissolubile che porta
al cuore del mistero del Signore e della sua Chiesa e che riguarda anche
ogni anima credente; 'conoscenza' che progredisce attraverso il cammino di
fede, proprio grazie alla fedeltà e alla perseveranza, ma soprattutto per
quel surplus di Grazia che non ci è dato comprendere se non nel mistero che
ci precede e ci sorpassa sempre.
(3) "...un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è
possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le
conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima
un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede,
occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle
decisioni religiose di fondo....". [Dalla prefazione al libro di Marcello Pera
"Perché dobbiamo dirci cristiani", 2008]. In un altro passo della stessa
prefazione troviamo tuttavia un ossimoro, se non una sintesi tra opposti di tipo
hegeliano, nella connotazione dell'identità europea come "cristiano-liberale":
"Di importanza fondamentale è la Sua analisi di ciò che possono essere l’Europa
e una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà
cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua
propria identità."
(Maria Guarini)
Sarò grata a chi vorrà lasciare un
commento, che potrà essere inserito con
la risposta. Spero in una proficua
partecipazione!
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