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«Un autore censurato. Ma
a volte i premi letterari ci azzeccano»
Martin Mosebach è uno scrittore
tedesco, noto e apprezzato in Germania per i suoi romanzi e i suoi
lavori teatrali. Con «Häresie der Formlosigkeit. Die römische Liturgie
und ihr Feind» [L’eresia dell’assenza di forma. La liturgia romana e il
suo nemico, Vienna-Lipsia, 2002] però, Mosebach ha deciso di affrontare
un tema decisamente poco politically correct.
Il volume è infatti un inno alla tradizione e alla forma
della liturgia romana, non solo come ispiratrice di capolavori d’arte e
di cultura, ma come spazio di fede autentica: «Si prega in ginocchio o
non si prega» (citazione dal libro).
Si tratta di una raccolta di saggi e contributi dedicati al rapporto tra fede e arte, tra arte e liturgia e alle devastazioni da questa subita negli ultimi quarant’anni. L’annus fatalis è ovviamente il 1968, quello delle rivolte studentesche (che per Mosebach facevano della mancanza di igiene un valore rivoluzionario), ma anche quello della rivoluzione culturale cinese, con i suoi milioni di morti e, nello specifico, l’anno della rivoluzione liturgica, imposta dall’alto. Ovvio che un libro del genere sia passato per «reazionario», al punto che qualche intellettuale illuminato in Germania avrebbe voluto che a Mosebach fosse negato o persino ritirato il premio Georg Büchner 2007, il Nobel degli scrittori tedeschi. Gli intellettuali di casa nostra hanno fatto prima, facendo semplicemente finta che l’autore non esista proprio, ivi compresi i talent scout delle grandi case editrici cattoliche, che lo hanno volutamente ignorato, malgrado i riconoscimenti ben visibili alla, da loro frequentatissima, Buchmesse di Francoforte (la fiera del libro, da cui piovono in Italia novità di ogni genere). Mosebach crede, e proprio perché crede parla in questo volume di Gesù, ma non di quello non risorto di molti esegeti moderni e dei riformatori liturgici, che - la battuta è sua - «potrebbe tranquillamente essere un membro onorario della SPD» (il potente partito socialdemocratico tedesco). Mosebach critica la prassi per cui i fedeli hanno dovuto subire prodotti artistici astratti o inconsistenti, che hanno reso loro estranea l’iconografia tradizionale, allo scopo di «strappare loro le immagini dai cuori» a colpi di un’inaudita battaglia iconoclasta consistente in dosi massicce di banalizzazione, fino al rincretinimento. Il frutto di queste continue sperimentazioni per lo scrittore tedesco non è altro che una «volgare profanazione senza gusto», che non ha avvicinato nessuno alla Chiesa, ma Le ha recato danni di portata incalcolabile per il Suo futuro. Quasi allo scopo di rendersi ancor più politicamente scorretto, nella sua lectio magistralis per l’assegnazione del premio Büchner, Martin Mosebach ha osato infrangere un altro dogma, tutto tedesco, paragonando un discorso di Heinrich Himmler del 1943 con un comizio del giacobino Saint Just, tenuto nell’ultima fase della Rivoluzione Francese e, sostanzialmente, mettendo in relazione i due contesti storici. Quasi scontata la reazione dei soliti noti. Il più elegante è stato lo storico Heinrich Winkler che ha parlato di abbandono dei pilastri della democrazia e dell’illuminismo (che per lui sono la stessa cosa). Inutile dire che la reazione più dura è venuta dai teologi cattolici(1), che - alla faccia del dialogo con il mondo della cultura - lo hanno definito «ultramontano e reazionario». Troppo tardi, però, per impedire il conferimento del premio, dovuto a romanzi di straordinario valore letterario, come «La luna e la fanciulla» o «La bella abitudine di vivere», quest’ultimo tutto dedicato all’Italia, Paese che Mosebach, secondo la migliore e più nobile tradizione tedesca ama profondamente. Ma, niente paura, Mosebach in Italia resta uno sconosciuto: da noi regna e continua a regnare la dittatura dello scaffale, e meno male che la censura è cosa d’altri tempi.
(1) Naturalmente le critiche vengono da quel versante del cattolicesimo che si definisce "progressista", al di là del fatto che quella della Chiesa è una "Tradizione vivente" (non tradizionalismo sclerotico ma neppure soggetta alle mode del tempo in senso storicista) e, di conseguenza il concetto di progresso non le è estraneo; a meno che non assuma la connotazione, propria dei teologi in questione che per progresso intendono una vera e propria "rifondazione"... [nota di InternEtica]
Mosebach è convinto che la cattolicità deve «tornare sulla via che la conduce alla riscoperta del Gesù storico». Ed è molto severo rispetto all'epoca postconciliare. Tanto da paragonarla alla guerra iconoclasta consumatasi a Bisanzio nei primi secoli del cristianesimo («Per l'iconoclastia romana affermatasi dopo il Concilio Vaticano II, come presagio, era già stato individuato un nome nel secolo precedente da Dom Prosper Guéranger: l'eresia antiliturgica»). Per queste "scoperte" Mosebach dice di essere debitore ai benedettini dell'abbazia di Fontgombault. Dove lo scrittore ha ritrovato il cuore dell'esperienza cristiana e dove «chi decide di diventare monaco entrando nel monastero di Fontgombault ha negli occhi l'educazione di un singolo uomo: la propria persona».
A sostegno della battaglia che papa Ratzinger ha
ingaggiato per archiviare l'iconoclastia postconciliarista, nel suo
saggio Liturgia è arte Mosebach sostiene che è venuto il tempo che la
tradizione torni ad essere "avanguardia". Infatti «ciò che abbiamo colto
grazie all'epoca vuota di immagini sacre, priva di spazi sacri e carente
di musica sacra, è che la più grande raffigurazione artistica si dà
proprio nell'antica liturgia e che, qualora dovesse darsi ancora una
volta un'arte religiosa carica di significati, questa non potrà che
venire dall'antica liturgia». | indietro | | inizio pagina | |
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