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In un saggio, edito da Cantagalli, lo scrittore tedesco Martin
Mosebach accusa le riforme del Vaticano II: avrebbero cancellato la bellezza del
rito
«I nuovi iconoclasti hanno distrutto la fede»
di Maria Antonietta Calabrò
[Un brano dal libro]
[LETTURE/ Quel libro proibito di Mosebach che gli
restituì la fede]
Proprio nella società dell’immagine la Chiesa ha subito l’attacco di nuovi
iconoclasti, che attraverso lo svilimento della liturgia hanno assestato negli
ultimi 35 anni un colpo gravissimo alla fede cattolica, determinando «una
catastrofe storica e religiosa».
Le tinte usate da Martin Mosebach sono addirittura caravaggesche, la vis
polemica non risparmia nessuno.
L’appassionata apologia della bellezza della grande tradizione liturgica della
Chiesa viene svolta non da un teologo, non da un canonista, ma da uno dei più
importanti scrittori e letterati tedeschi. Cioè, proveniente da una nazione dove
più forti sono stati gli stravolgimenti postconciliari. Nazione che ha pure dato
i natali all' attuale pontefice, Benedetto XVI, il quale sottolinea sempre più
spesso (ad esempio nell’omelia del
Corpus Domini) il rischio di secolarizzazione
nella Chiesa e che bisogna «rispettare la liturgia».
E che la Chiesa non è un’Ong.
«Il kitsch linguistico, musicale, in pittura e in architettura ha inondato
completamente l'immagine esterna degli atti pubblici della Chiesa», scrive
Mosebach nel saggio di cui sta per uscire la traduzione italiana. Titolo e
sottotitolo non lasciano dubbi. [ L'eresia dell'Informe - La Liturgia Romana e
il suo nemico] Descrivono L’eresia dell’informe, alludono
chiaramente ad un «nemico» mefistofelico dell’antica liturgia romana «che
propriamente si dovrebbe chiamare gregoriana», ma viene piuttosto definita
tridentina, quasi a sottolinearne negativamente la relazione con la
Controriforma.
La pubblicazione riaccenderà sicuramente il dibattito sulla chiusura dello
scisma dei lefebvriani, sulla restaurazione della tradizione e anche sul
riavvicinamento tra Chiesa cattolica e Chiese orientali che, a partire da quella
ortodossa, secondo Mosebach, hanno saputo «preservare» la tradizione
plurimillenaria della liturgia più e meglio della Chiesa latina.
«La Messa di San Gregorio Magno, l’antica liturgia latina, si trova oggi
riservata a 'frange stravaganti' della Chiesa romana, mentre la liturgia divina
di San Giovanni Crisostomo vive in tutto il suo splendore al centro della Chiesa
ortodossa».
Al livello del «senso comune», dello scrittore che descrive i comportamenti,
Mosebach si mette sulla scia del grande teologo svizzero von Balthasar la cui
opera principale è «Gloria, per un’estetica teologica» e il primo volume è
intitolato proprio «La percezione della forma». Forma e contenuto non possono
essere scissi, afferma Mosebach, diabolicamente ( diaballein, separare) separati.
Così come l’uomo è anima e anche corpo. Per questo la forma che la liturgia ha
assunto nei secoli, con processo lento e quasi involontario, non è indipendente
dal contenuto salvifico della Messa. «Solo santi come Ambrogio o Agostino o
Tommaso d’Aquino — scrive Mosebach — avrebbero potuto aggiungere qualcosa alla
Messa, non uomini chiusi in un ufficio, nemmeno abitando nella Città del
Vaticano».
Così «il modernizzatore e progressista Paolo VI» s’è fatto «tiranno della Chiesa
» secondo l’accezione della parola data nell’antichità quando «l’interruzione
della tradizione da parte del sovrano era definita atto di tirannia».
L’unico paragone storico adatto per descrivere questa guerra alla «bellezza
della liturgia», questo volto visibile del Mistero, secondo Mosebach è
l’iconoclastia bizantina, tra il l’VIII e il IX secolo, la cosiddetta guerra
delle icone. Però la iconoclastia liturgica della nostra epoca ha questo di
diverso: «Ai miei occhi, sorge per ischemia e infiacchimento religiosi». Nella
sua essenza costituisce un oblio: «Ciò che vale per l’arte, in misura ancora
superiore deve riguardare la preghiera pubblica della Chiesa: il brutto non può
che derivare dal non vero e, nell’ambito della religione, questo significa la
presenza del satanico».
L’intellettuale tedesco dà questa impietosa definizione: «Il modello della nuova
liturgia è il tavolo presidenziale di una riunione di partito o di una
associazione con microfono e fogli, a sinistra sta un vaso ikebana con piante
esotiche bizzarre di colore arancio con vecchie radici, a destra si trovano due
luci da televisione posate su candelieri fatti a mano. Con dignità e
raccoglimento, i membri del consiglio di amministrazione guardano il pubblico,
come i chierici durante una concelebrazione. Una tale assemblea, regolata da un
democratico ordine del giorno, è il fenotipo della nuova liturgia, e questo non
è altro che una conseguenza inevitabile del fatto che chi non vuole il mistero
sovratemporale, questi inevitabilmente approderà alla realtà politica e
sociale».
Una terza via non è data, spiega l’Autore. Naturalmente ogni tanto si giunge a
rotture: «Vi sono chierici che non trovano semplice fissare il volto che
conviene alla consacrazione. Qual è l’espressione del volto che si addice alla
consacrazione?».
Cosicché il successo della celebrazione è data dalla «performance» del prete. E
sull’altare, al posto del Crocefisso, c’è il microfono per la predica, di vari
tipi: «untuosa o saccente, intellettuale o rimbombante, intimistica o sobria».
E non mancano le light night candles. Una citazione di Goethe, un dialogo di
Faust che esprime il giudizio senz’appello dell’Autore: «Ho spesso sentito
questo vanto / un commediante potrebbe insegnare ad un prete. / Certo se il
prete è un commediante / talvolta questo è quello che può diventare».
Sull’altro fronte, quello dei fedeli, c’è la tanto spesso invocata loro
«partecipazione attiva» alla Messa. Ma cosa ci fu di attivo nella Lavanda dei
piedi — si chiede — visto che addirittura san Pietro vi si voleva sottrarre? Per
i fedeli è anche indifferente stare in piedi o seduti. Quasi mai in ginocchio.
Mentre è «attraverso i segni dell’adorazione, che ho potuto vedere fin dalla mia
prima giovinezza — afferma Mosebach — l’Ostia è divenuta per me ciò che essa,
secondo la tradizione della Chiesa esige di essere: un Essere vivente». © Copyright Corriere della sera, 13 giugno 2009
29 giugno 2009. L'opera ha fatto scalpore e ne sono state
pubblicate parecchie recensioni.
È stata in particolare riportata
questa icastica definizione della nuova messa
«Il modello della nuova liturgia è il tavolo presidenziale di una
riunione di partito o di una associazione con microfono e fogli, a
sinistra sta un vaso ikebana con piante esotiche bizzarre di colore
arancio con vecchie radici, a destra si trovano due luci da televisione
posate su candelieri fatti a mano. Con dignità e raccoglimento, i membri
del consiglio di amministrazione guardano il pubblico, come i chierici
durante una concelebrazione. Una tale assemblea, regolata da un
democratico ordine del giorno, è il fenotipo della nuova liturgia, e
questo non è altro che una conseguenza inevitabile del fatto che chi non
vuole il mistero sovratemporale, questi inevitabilmente approderà alla
realtà politica e sociale».
Brano tratto dalla edizione del 27 giugno scorso de Il Domenicale
Forse il danno più grave della riforma della Santa Messa di Papa
Paolo VI e dello sviluppo che ne è derivato, e che ha superato di gran
lunga la riforma stessa, la perdita spirituale più grande, è questa:
essa ci costringe ora a parlare della liturgia. Anche chi vuole
custodire la liturgia, anche chi vuole pregare nel suo spirito, anche
chi resta fedele ad essa con grandissimi sacrifici, ha già perduto
qualcosa di inestimabile: l’innocenza di assumerla come qualcosa dato da
Dio, qualcosa donato dall’alto, dal Cielo agli uomini. Come difensori
della grande liturgia santa, della liturgia romana classica, siamo tutti
divenuti grandi o piccoli liturgisti. L’abbellimento scientifico,
archeologico e storico della riforma ci ha costretti a confutare queste
argomentazioni e dunque ad occuparci del rito e della liturgia, qualcosa
che ripugna profondamente all’uomo religioso.
Nell’esame della liturgia ci siamo lasciati traviare da un pensiero di
tipo scolastico-giuridico: che cosa è assolutamente necessario perché si
possa ancora parlare di liturgia? Quale arbitrio è ancora tollerabile,
che cosa invece non può più essere accettato? Ci siamo assuefatti ad
accettare le esigenze minime come categoria di valutazione della
liturgia, laddove in realtà è soltanto di un massimale che si dovrebbe
parlare. In definitiva, abbiamo incominciato a giudicare la liturgia un
fatto mostruoso! Abbiamo preso posto nei banchi di chiesa e ci siamo
domandati: abbiamo assistito ad una Santa Messa, o questa non è stata
una Messa? Io entro in chiesa per vedere Dio, e ne esco trasformato in
un critico teatrale. E se poi, di quando in quando, ci è consentito
celebrare una Santa Messa, che per tutta la sua durata ci fa dimenticare
questa grande catastrofe storica e religiosa, questo deterioramento
fondamentale della relazione tra uomo e Dio, sappiamo quali adempimenti
sono necessari per poter celebrarla, quante lettere vi stanno dietro,
quanti sacrifici hanno reso possibile questo Santo Sacrificio; fra le
altre cose abbiamo dovuto pregare anche per un vescovo, che in generale
non desidera questa preghiera, che anzi è ben disposto a rinunciare alla
menzione del suo nome nel canone della Santa Messa.
Una vita religiosa riservata, giornate che iniziano con una Messa in una
quiete raccolta in una piccola e non appariscente chiesa nelle
vicinanze, una vita nella quale, guidati con discrezione da sacerdoti,
apprendiamo nell’arco di decenni ad unire il nostro sacrificio al
sacrificio di Cristo, e in cui, nella Santa Messa, ci prendiamo cura dei
nostri peccati e delle grazie a noi concesse, e certo di nient’altro
tutto questo, per un cattolico, dopo la distruzione della naturalezza
della liturgia, non è più possibile. Mi si potrebbe controbattere che
esagero; mi si potrebbe rimproverare che nonostante tutte le
devastazioni del culto, la dottrina della Chiesa sul mistero del
Sacrificio non è stata intaccata. Papa Paolo VI, il riformatore, ha
riconfermato il carattere sacrale del sacrificio della Santa Messa; il
suo successore, Papa Giovanni Paolo II, ha fatto la stessa cosa e il
nuovo Catechismo contiene la dottrina integrale sulla liturgia, così
come essa corrisponde alla tradizione della Chiesa. Questo è esatto; ciò
che dice il più alto Magistero sulla Santa Messa appartiene all’antico
deposito della fede cattolica. Nella nostra epoca si può considerare
certamente un miracolo il fatto che il Catechismo sia potuto apparire,
che esso, nonostante i numerosi compromessi nella formulazione,
nonostante i lirismi velati, che hanno permesso di spingersi oltre i
punti nevralgici, sia divenuto una collatio della dottrina cattolica
della fede che ci è stata trasmessa. Sembra quasi che ci si debba
vergognare di essere cattolici da quando questa collatio è apparsa. Ma
quale significato essa riveste per la vita quotidiana e quella festiva
della nostra Chiesa? Lo zar Nicola I, che introdusse severe prescrizioni
di censura, fece esonerare espressamente dal dovere della censura i
libri che superavano le mille pagine: nessuno infatti avrebbe mai letto
tali opere. Tuttavia io non vorrei escludere fra i fatti incontestabili,
quello per cui il nuovo Catechismo sia un’opera alla quale nei nostri
seminari venga data un’occhiata, al massimo, allo scopo di divertirsi.
Io non sono un teologo e non sono un canonista; come scrittore devo
scrutare il mondo da una diversa prospettiva. Se voglio sapere in che
cosa uno crede, allora non mi aiuta, perdonatemi l’espressione, andare a
dare un’occhiata al suo statuto. Io devo esaminare l’uomo, i suoi gesti,
i suoi sguardi, i suoi momenti intimi.
Permettetemi di richiamare un esempio. A Francoforte, la Santa Messa
secondo l’antico rito, a partire dall’indulto del 1984, veniva celebrata
in una piccola cappella insolitamente brutta nel secondo piano di una
casa della Fondazione Kolping, trasformata in hotel. Una terribile arte
religiosa decorava questo spazio: un simbolo delle cicladi in
calcestruzzo come Madonna e un Crocifisso in una colata di vetro rossa
che riluceva come gelatina al lampone, erano le immagini sacre a cui fu
riservato l’onore dell’incensazione. Non si poteva dunque muovere a
nessuno il rimprovero di trattenersi in questa cappella, perché mosso da
un estetismo snobistico; questa accusa a buon mercato, così spesso
sollevata, non può certo essere mossa al circolo di Francoforte.
I laici, che si riunivano là, sapevano poco di tutto ciò che era
necessario osservare nelle preparazioni, essi non conoscevano nessuna
usanza di sagrestia e solo lentamente si familiarizzarono con le
necessarie conoscenze. Un circolo di donne che avevano l’abitudine di
pregare insieme, incominciò a interessarsi allora alla biancheria
dell’altare; è di queste donne che vi voglio raccontare. Queste chiesero
un giorno, agli amministratori della Cappella, che cosa propriamente
avvenisse dei purificatoria impiegati, dei fazzoletti con i quali il
sacerdote raccoglie dal calice le gocce rimaste del vino trasformato.
Essi finiscono insieme ad altro bucato nella lavatrice, rispose
l’amministratore. Le donne, alla Messa successiva portarono un sacchetto
che avevano confezionato. Quindi chiesero il purificatorium impiegato e
lo misero nel sacchetto. In questo modo che cosa volevano fare? «Questo
è comunque imbevuto del sangue prezioso che non può essere versato nello
scarico». Il fatto che in passato la Chiesa abbia prescritto che il
sacerdote stesso debba curare il primo lavaggio del purificatorium, il
fatto che l’acqua di tale lavaggio sia quindi da versare nel sacrarium o
nella terra, tutto questo non era a conoscenza delle donne. In ogni caso
esse si opponevano a che questo fazzoletto fosse trattato come l’altro
bucato, e istintivamente fecero ciò che una antica prescrizione, ora
trascurata, esigeva. «È come lavare il giaciglio del Bambino Gesù»,
diceva una di queste donne. Quando l’ascoltai, ne rimasi colpito. La
devozione popolare diventava qui qualcosa di concreto. La vidi quando lo
lavò a casa, dopo aver prima recitato un rosario. Portò l’acqua del
lavaggio nel giardino davanti a casa, versandola in un angolo in cui
crescevano fiori particolarmente belli. Alla sera coprì poi l’altare
nella cappella insieme ad un’altra donna. Questo aggiustamento della
lunga e stretta coperta era difficile. Entrambe le donne erano molto
concentrate, ma allo stesso tempo mosse da una sollecitudine trattenuta,
come se avessero cura, con sobrietà ed efficienza, di un uomo che esse
amavano. Io ho assistito a queste preparazioni con curiosità crescente.
Di che cosa si trattava? In tutti i racconti della Resurrezione, il
discorso cade sulle vesti ripiegate angelicos testes, sudarium et vestes,
come si dice nella sequenza pasquale. Non vi è alcun dubbio che queste
donne, in quella brutta cappella al secondo piano, erano le donne presso
il sepolcro. Esse vivevano nella continua, indubitabile, realmente
vissuta presenza di Gesù. In questa presenza esse rimanevano in modo
naturale, in modo conforme alla loro nascita e al loro livello
culturale. La loro vita era adorazione, che si traduceva in azioni molto
precise, molto pratiche: era liturgia. Osservando queste donne, compresi
che esse credevano alla reale presenza di Gesù nel Sacramento
dell’altare. La fede è questo: ciò che noi facciamo con naturalezza.
Ma quando questa naturalezza si presenta in una qualsiasi chiesa di una
grande città? Difficilmente uno si inginocchia alla consacrazione,
spesso nemmeno il sacerdote fa una genuflessione adeguata davanti alle
offerte trasformate. Una signora va a prendere le ostie per la comunità
da un piccolo armadietto dorato, sistemato lateralmente, premurosa e
sicura, come se dovesse estrarre un medicamento dall’armadietto dei
farmaci. Essa mette le ostie nella mano dei comunicandi; nessuno mostra
per esse la riverenza di una genuflessione o di un inchino.
L’epoca dell’iconoclastia è durata a Bisanzio oltre un secolo, incluso
anche un pezzettino di calcolo ecumenico, connesso all’Islam e alla sua
iconoclastia. L’iconoclastia romana dopo il Concilio Vaticano II,
presentita nel secolo passato da Dom Prosper Guéranger, ha ricevuto il
suo nome: eresia antiliturgica. A Bisanzio, dopo incommensurabili
distruzioni, fu l’immagine santa a vincere. Intransigenti monaci avevano
preso le icone sotto la loro difesa. Anche noi abbiamo bisogno di molti
sacerdoti inflessibili che custodiscano per noi il santo rito
dell’Incarnazione. È nella loro ubbidiente disubbidienza che ripongo
tutta la mia speranza.
LETTURE/ Quel libro proibito di Mosebach che gli restituì la fede
Giuseppe Reguzzoni
Non si può che essere grati alla piccola ma coraggiosa casa editrice
Cantagalli di Siena per aver pubblicato, dopo un lungo periodo di voluta
censura da parte di altre e più consolidate case editrici cattoliche, il
bel libro di Martin Mosebach, Eresia dell’informe. La liturgia romana e
il suo nemico, duecentocinqua pagine che si leggono d’un fiato, per
diciassette euro, spesi benissimo. Merito, certamente, anche
dell’accurata edizione in lingua italiana, curata da Leonardo Allodi.
Un solo, piccolissimo rilievo iniziale: l’edizione italiana è stata
condotta su quella tedesca del 2007, cosa molto corretta sul piano
editoriale, ma forse al lettore italiano può sfuggire che la prima
edizione originale è del 2002, data che non è indicata e che ha una sua
importanza. Non è filologismo. La distanza cronologica tra l’edizione
italiana e la prima edizione tedesca testimonia la censura che su questo
volume è stata stesa da un certo establishment editoriale cattolico e,
dunque, il suo estremo interesse.
Questo, infatti, è uno di quei libri che fanno davvero riflettere, nati
dal coraggio di pensare, ma anche dalla gratitudine e dallo stupore. Né
si dimentichi che questo era accaduto persino a certe pagine dell’allora
cardinal Ratzinger dedicate al medesimo argomento di cui tratta questo
libro: la liturgia.
Martin Mosebach, in ogni caso, non è un liturgista di professione e, nel
corso della sua opera, più volte ripete di non essere nemmeno teologo.
Un po’ come certi poeti, che di se stessi dicono di non essere poeti,
che è poi una delle forme più alte di poesia. Mosebach, in effetti, è
soprattutto un grande romanziere e novelliere, nato a Francoforte sul
Meno nel 1951, ma particolarmente legato all’Italia, come spesso accade
ed è accaduto al fiore degli intellettuali tedeschi, quelli più
autentici e più critici nei confronti della cultura dominante e, proprio
per questo, meno graditi al proprio tempo. A Mosebach, tuttavia, non
sono mancati dei pubblici riconoscimenti tra cui, in particolare, il
prestigioso premio letterario Büchner, il Nobel della letteratura
tedesca, conferitogli nel 2007, con grande ira della cricca progressista
e politicamente corretta che governa la cultura tedesca (e quella
europea). Vuol dire che, malgrado tutto, qualche volta i premi letterari
ci azzeccano.
Che, poi, Mosebach sia un grande narratore, lo si vede anche da questo
saggio, che ha come tema principale la crisi della liturgia cattolica
dopo il concilio Vaticano II.
Si dovrebbe dire la crisi della liturgia della Chiesa latina, perché,
come forse non è noto, i cattolici orientali non hanno introdotto
variazioni nella loro prassi liturgica negli anni successivi al
Concilio, ma oggi, ben pochi usano ancora parlare di Chiesa latina per
indicare la molteplicità di chiese nazionali legate alla tradizione
liturgica della Chiesa di Roma. Detto questo, spazziamo subito via un
equivoco e ricordiamo che Mosebach non è un tradizionalista negatore del
concilio Vaticano II che, come può verificare chiunque, nella
Sacrosanctum Concilium non solo non ha affatto abolito l’antica liturgia
romana, ma ne ha ribadito il valore, quanto alla lingua sacra, il
latino, e quanto alla sostanza teologica.
Questo volume è, appunto, un saggio, ma con pagine che risultano narrate
e quasi parlate, innovativo, dunque, nella forma, che riesce ad andare
al di là della trattatistica convenzionale, e nei contenuti.
Il tema centrale è dunque la crisi che ha investito la liturgia latina a
partire dalla riforma liturgica di papa Paolo VI. La critica che
percorre tutta l’opera va contro ciò è ormai molti studiosi chiamano
l’ideologia postconciliare, che è altra cosa dal Concilio come tale e
che ha come presupposto sostanziale la cosiddetta ermeneutica della
rottura.
È da questo fronte, non a caso, che è scaturita la censura a posizioni
intelligenti e storicamente coerenti come quella di Mosebach. Sul piano
liturgico, e su quello collaterale della musica sacra e
dell’architettura, l’assenza di forma, la Formlosigkeit, è la spaccatura
tra forma e contenuto introdottasi nel modo di pensare la riforma
liturgica postconciliare.
La liturgia è questione di salvezza e la forma della liturgia è Cristo
stesso, così come ci è stato comunicato e tramandato nella Chiesa, che è
una nel presente e nel passato in forza della comunione dei santi.
Mosebach non è un tradizionalista, nel senso negativo oggi attribuito a
questo termine, perché non nega affatto che «si possa celebrare
degnamente e con riverenza anche la nuova liturgia di papa Paolo VI»
(45), ma evidenzia come proprio il fatto che se ne parli come di una
possibilità costituisce un argomento ad essa contrario «nel momento in
cui per la sua celebrazione diventa necessario un bravo e devoto
sacerdote».
È un rilievo che Mosebach condivide con un testimone di eccezione:
«Rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che
una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della
liturgia. Si diede l'impressione che questo fosse del tutto normale. Il
messale precedente era stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo
seguito al concilio di Trento; era quindi normale che, dopo quattrocento
anni e un nuovo Concilio, un nuovo papa pubblicasse un nuovo messale. Ma
la verità storica è un'altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il
messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era
sempre avvenuto lungo tutti i secoli. Non diversamente da lui, anche
molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato questo messale,
senza mai contrapporre un messale a un altro. [...] Ora, invece, la
promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso
dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell'antica Chiesa, ha
comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze
potevano solo essere tragiche. [...] si fece a pezzi l’edificio antico e
se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto
l’edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti. [...] In
questo modo si è sviluppata l’impressione che la liturgia sia “fatta”,
che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di “donato”, ma
che dipenda dalle nostre decisioni» (Joseph Ratzinger, La mia vita).
L’idea di liturgia come dono e come mistero, che caratterizza la
teologia liturgica di Ratzinger, ha molto in comune con l’idea di forma
liturgica sostenuta e difesa da Mosebach.
Quanto al problema – teologico e dogmatico - della continuità, è stata
proprio la sua chiara percezione a spingere papa Giovanni Paolo II,
prima, a promulgare l’indulto che rendeva possibile l’uso dell’antico
messale, previa autorizzazione del vescovo, e papa Benedetto XVI, poi, a
liberalizzare completamente il suo uso, anche senza l’autorizzazione del
vescovo, con il Motu proprio
Summorum pontificum,
del 7 luglio 2007.
Le patene portate in fonderia, le tovaglie arcobaleno buttate sulla
tavola della celebrazione, i canti orrendi e spesso eretici (“sei grande
Dio sei grande come il mondo mio”), le invenzioni continue a cui siamo
costretti ad assistere in certe messe domenicali, la sopravvalutazione
della predica e della parola rispetto alla dimensione sacramentale, gli
orrori e le devastazioni architettoniche degli edifici ecclesiastici
sono conseguenza diretta di questa rottura della tradizione e sono la
manifestazione evidente dell’«assenza di forma».
«Alle numerosi ondate di distruzione che nella storia del nostro Paese
si sono abbattute sui nostri santuari – la riforma, la secolarizzazione
[napoleonica] con le sue centinaia di migliaia di profanazioni – ne è
seguita una più recente, assolutamente degna dei suoi predecessori per
forza distruttiva» (59). Quella che stiamo vivendo per Mosebach è una
crisi iconoclasta che mette in qualche modo e in gradi diversi in dubbio
il dogma centrale dell’Incarnazione e, dunque, della visibilità e
rappresentabilità del Mistero nella storia. La Tradizione, in senso
teologico, non ammette soluzione di continuità.
C’è da commuoversi quando Mosebach racconta nel suo volume di come abbia
scoperto la bellezza nascosta di questa tradizione e di come essa gli
abbia restituito la fede.
«Non sono né un convertito né un proselito», dice di se stesso proprio
al principio del saggio, ma lentamente le radici atrofizzate e dormienti
della fede hanno in lui ripreso vigore ed è stato, come per molti,
«l’incontro con l’antica liturgia cattolica ad aver generato un processo
che non è ancora giunto alla fine» (27). Viene in mente Claudel che si
converte entrando a Nôtre Dame, stupito dalla bellezza della liturgia
che vi veniva celebrata. È l’affermazione di questa domanda di salvezza
presente, di bellezze e verità come unità profonda, a vaccinare la
posizione di Mosebach da ogni rischio di estetismo.
Questo libro è dunque anche una testimonianza, di come la Tradizione
nella Chiesa cristiana sia la strada che può portare sino al principio,
alla Forma che dà senso e bellezza alla vita e alle opere dei cristiani;
ed è certamente anche un grido, sbigottito come quello del cardinal
Ratzinger, di fronte al dramma che ha investito la Chiesa e, dunque, il
mondo.
Ma questo libro è anche un viaggio, che ci porta a incontrare luoghi in
cui l’antica liturgia è viva l’antico si mostra in tutto il suo
splendore contro una febbre di novità che è già vecchia nel momento in
cui nasce: il monastero benedettino di Fontgombault, continuatore della
gloria di Solesmes; l’umile cappellina ricavata nei locali di un
appartamento di Francoforte, dove un sacerdote celebra in quasi
clandestinità la Messa tridentina secondo l’indulto di papa Giovanni
Paolo II e dove le donne presenti, senza nemmeno saperlo, riscoprono
l’antica reverenza verso gli oggetti sacri e, con essa, il valore di una
sacralità così vicina al quotidiano. La madre di famiglia che lava con
cura il purificatoio con cui il sacerdote ha pulito il calice e che ha
raccolto qualche piccola goccia del sangue di Cristo, rovesciando poi
quell’acqua nell’angolo del suo giardinetto dove spuntano i fiori più
belli, con questo semplice suo gesto riafferma il valore totale e
assoluto della transustanziazione, sine glossa, senza condizionamenti e
travisamenti che non sono poi che adattamenti allo spirito del nostro
tempo.
Cristo è il giudice del tempo, non è ne è il suddito. E proprio per
questo - paradossale motivo di speranza - può anche esserci, e c’è,
l’«ubbidienza disubbidiente» di tanti sacerdoti che riscoprono la
continuità della Tradizione, magari, contro le opposizioni aperte o
subdole dei loro vescovi al Motu proprio di papa Benedetto XVI.
È l’ubbidienza disubbidiente che già fu di sant’Atanasio, il
coraggioso vescovo che si oppose all’arianesimo ormai accettato da gran
parte dei suoi confratelli nell’episcopato. Mosebach quest’ultimo
esempio non lo fa, è troppo umile, troppo legato alla presentazione
della situazione presente. Ma è un esempio che balza alla mente a chi ha
affrontato lo studio delle grandi crisi attraversate dalla Chiesa nella
sua storia.
La lex credendi è la lex orandi. Se cade l’una, cade anche
l’altra. Si crede quel che si prega e si prega quel che si crede. Non si
prega che in ginocchio, scrive Mosebach, e, allo stesso modo, non si
crede che in ginocchio, perché chi entra in chiesa cerca il mistero, il
sacro; non l’orizzontalità in cui siamo già immersi, ma la verticalità
capace di ridare significato a quest’ultima. Dopo anni di ubriacatura
comunitaria si torna a parlare di mistero e, per dirla con Guardini, di
“santi segni”.
È velato il mistero della liturgia. Sin dal suo principio è un continuo
velarsi, tant’è che i suoi riti iniziano «con la copertura del
celebrante rivestito con diverse vesti che, insieme, hanno un carattere
simbolico», in cui «diventa chiaro che le qualità del carattere e virtù
come la castità, la fortezza e l’umiltà, associate con brevi preghiere
ai singoli capi di abbigliamento, vengono realmente accolte come parti
dell’armatura, di cui parla san Paolo» (147).
Ma questo velarsi, tanto misterioso, è altra cosa dal misticismo
misterico: «un razionalismo particolarmente sobrio attraversa la
letteratura liturgica occidentale, un non-voler-sapere particolarmente
accentuato di quale sia la relazione tra la singola norma liturgica e la
storia delle religioni». «Non c’è nulla che la Chiesa cattolica tema di
più quanto l’essere associata nei suoi riti, alla magia e alla prassi»
magica» (163). È velato questo mistero, di un velo che non è stato posto
da mani d’uomo, perché «l’offerta velata è Cristo prima della
Crocifissione, non ancora sacrificato, non ancora segno di
contraddizione sollevato in alto, essa è anche Cristo velato che attende
di essere spogliato dei suoi vestiti». In questo velarsi e disvelarsi il
Mistero si fa presente ed è un mistero di kenosi, di
annichilimento nell’abbandono. Forse la tragedia che ha investito la
Chiesa latina in questo lungo autunno è parte di questa kenosi,
forse si tratta di una grande prova di fede. All’inizio del suo libro
Mosebach constata con amarezza che la riforma liturgica ha già sortito
un effetto nel momento in cui ci costringe a parlare di liturgia, a
discuterla come se fossimo noi a decidere di essa, ma, almeno, forse,
questa amarezza può, se lo desideriamo autenticamente, divenire
consapevolezza e libera scelta di cercare e riabbandonarci al Mistero.
© Copyright Il Sussidiario, 25 settembre 2009
Vedi anche, nel sito: Un
autore censurato. Ma a volte i premi letterari ci azzeccano
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