“Expergiscere, homo: quia
pro te Deus factus est homo - Svegliati, uomo, poiché per te Dio si è
fatto uomo” (S. Agostino, Discorsi, 185). Con quest’invito di Sant’Agostino
a cogliere il senso autentico del Natale di Cristo, apro il mio incontro con
voi, cari collaboratori della Curia Romana, in prossimità ormai delle
festività natalizie. A ciascuno rivolgo il mio saluto più cordiale,
ringraziandovi per i sentimenti di devozione e di affetto, di cui si è fatto
efficace interprete il Cardinale Decano, al quale va il mio pensiero
riconoscente. Iddio si è fatto uomo per noi: è questo il messaggio che ogni
anno dalla silenziosa grotta di Betlemme si diffonde sin nei più sperduti
angoli della terra. Il Natale è festa di luce e di pace, è giorno di
interiore stupore e di gioia che si espande nell’universo, perché “Dio si è
fatto uomo”. Dall’umile grotta di Betlemme l’eterno Figlio di Dio, divenuto
piccolo Bambino, si rivolge a ciascuno di noi: ci interpella, ci invita a
rinascere in lui perché, insieme a lui, possiamo vivere eternamente nella
comunione della Santissima Trinità.
Con il cuore colmo della gioia che deriva da questa consapevolezza,
riandiamo col pensiero alle vicende dell’anno che volge al suo tramonto.
Stanno alle nostre spalle grandi avvenimenti, che hanno segnato
profondamente la vita della Chiesa. Penso innanzitutto alla dipartita del
nostro amato Santo Padre Giovanni Paolo II, preceduta da un lungo cammino di
sofferenza e di graduale perdita della parola. Nessun Papa ci ha lasciato
una quantità di testi pari a quella che ci ha lasciato lui; nessun Papa in
precedenza ha potuto visitare, come lui, tutto il mondo e parlare in modo
diretto agli uomini di tutti i continenti. Ma, alla fine, gli è toccato un
cammino di sofferenza e di silenzio. Restano indimenticabili per noi le
immagini della Domenica delle Palme quando, col ramo di olivo nella mano e
segnato dal dolore, egli stava alla finestra e ci dava la benedizione del
Signore in procinto di incamminarsi verso la Croce. Poi l'immagine di quando
nella sua cappella privata, tenendo in mano il Crocifisso, partecipava alla
Via Crucis nel Colosseo, dove tante volte aveva guidato la processione
portando egli stesso la Croce. Infine la muta benedizione della Domenica di
Pasqua, nella quale, attraverso tutto il dolore, vedevamo rifulgere la
promessa della risurrezione, della vita eterna. Il Santo Padre, con le sue
parole e le sue opere, ci ha donato cose grandi; ma non meno importante è la
lezione che ci ha dato dalla cattedra della sofferenza e del silenzio. Nel
suo ultimo libro “Memoria e Identità” (Rizzoli 2005) ci ha lasciato
un’interpretazione della sofferenza che non è una teoria teologica o
filosofica, ma un frutto maturato lungo il suo personale cammino di
sofferenza, da lui percorso col sostegno della fede nel Signore crocifisso.
Questa interpretazione, che egli aveva elaborato nella fede e che dava senso
alla sua sofferenza vissuta in comunione con quella del Signore, parlava
attraverso il suo muto dolore trasformandolo in un grande messaggio. Sia
all'inizio come ancora una volta alla fine del menzionato libro, il Papa si
mostra profondamente toccato dallo spettacolo del potere del male che, nel
secolo appena terminato, ci è stato dato di sperimentare in modo drammatico.
Dice testualmente: “Non è stato un male in edizione piccola… È stato un male
di proporzioni gigantesche, un male che si è avvalso delle strutture statali
per compiere la sua opera nefasta, un male eretto a sistema" (pag. 198). Il
male è forse invincibile? È la vera ultima potenza della storia? A causa
dell'esperienza del male, la questione della redenzione, per Papa Woytiła,
era diventata l'essenziale e centrale domanda della sua vita e del suo
pensare come cristiano. Esiste un limite contro il quale la potenza del male
s'infrange? Sì, esso esiste, risponde il Papa in questo suo libro, come
anche nella sua Enciclica sulla redenzione. Il potere che al male mette un
limite è la misericordia divina. Alla violenza, all'ostentazione del male si
oppone nella storia – come “il totalmente altro” di Dio, come la potenza
propria di Dio – la divina misericordia. L'agnello è più forte del drago,
potremmo dire con l'Apocalisse.
Alla fine del libro, nello sguardo retrospettivo sull'attentato del 13
maggio 1981 ed anche sulla base dell'esperienza del suo cammino con Dio e
con il mondo, Giovanni Paolo II ha approfondito ulteriormente questa
risposta. Il limite del potere del male, la potenza che, in definitiva, lo
vince è – così egli ci dice – la sofferenza di Dio, la sofferenza del Figlio
di Dio sulla Croce: “La sofferenza di Dio crocifisso non è soltanto una
forma di sofferenza accanto alle altre… Cristo, soffrendo per tutti noi, ha
conferito un nuovo senso alla sofferenza, l'ha introdotta in una nuova
dimensione, in un nuovo ordine: quello dell'amore… La passione di Cristo
sulla Croce ha dato un senso radicalmente nuovo alla sofferenza, l'ha
trasformata dal di dentro… È la sofferenza che brucia e consuma il male con
la fiamma dell'amore… Ogni sofferenza umana, ogni dolore, ogni infermità
racchiude una promessa di salvezza… Il male… esiste nel mondo anche per
risvegliare in noi l'amore, che è dono di sé… a chi è visitato dalla
sofferenza… Cristo è il Redentore del mondo: ‘Per le sue piaghe noi siamo
stati guariti’ (Is 53, 5)” (pag. 198 ss.). Tutto questo non è semplicemente
teologia dotta, ma espressione di una fede vissuta e maturata nella
sofferenza. Certo, noi dobbiamo fare del tutto per attenuare la sofferenza
ed impedire l'ingiustizia che provoca la sofferenza degli innocenti.
Tuttavia dobbiamo anche fare del tutto perché gli uomini possano scoprire il
senso della sofferenza, per essere così in grado di accettare la propria
sofferenza e unirla alla sofferenza di Cristo. In questo modo essa si fonde
insieme con l'amore redentore e diventa, di conseguenza, una forza contro il
male nel mondo. La risposta che si è avuta in tutto il mondo alla morte del
Papa è stata una manifestazione sconvolgente di riconoscenza per il fatto
che egli, nel suo ministero, si è offerto totalmente a Dio per il mondo; un
ringraziamento per il fatto che egli, in un mondo pieno di odio e di
violenza, ci ha insegnato nuovamente l'amare e il soffrire a servizio degli
altri; ci ha mostrato, per così dire, dal vivo il Redentore, la redenzione,
e ci ha dato la certezza che, di fatto, il male non ha l'ultima parola nel
mondo.
Due altri avvenimenti, avviati ancora da Papa Giovanni Paolo II, vorrei ora
menzionare, se pur brevemente: si tratta della Giornata Mondiale della
Gioventù celebrata a Colonia e del Sinodo dei Vescovi sull'Eucaristia che ha
concluso anche l'Anno dell’Eucaristia, inaugurato da Papa Giovanni Paolo II.
La Giornata Mondiale della Gioventù è rimasta nella memoria di tutti coloro
che erano presenti come un grande dono. Oltre un milione di giovani si
radunarono nella Città di Colonia, situata sul fiume Reno, e nelle città
vicine per ascoltare insieme la Parola di Dio, per pregare insieme, per
ricevere i sacramenti della Riconciliazione e dell'Eucaristia, per cantare e
festeggiare insieme, per gioire dell’esistenza e per adorare e ricevere il
Signore eucaristico durante i grandi incontri del sabato sera e della
domenica. Durante tutti quei giorni regnava semplicemente la gioia. A
prescindere dai servizi d'ordine, la polizia non ebbe niente da fare – il
Signore aveva radunato la sua famiglia, superando sensibilmente ogni
frontiera e barriera e, nella grande comunione tra di noi, ci aveva fatto
sperimentare la sua presenza. Il motto scelto per quelle giornate – “Andiamo
ad adorarlo” – conteneva due grandi immagini che, fin dall'inizio,
favorirono l'approccio giusto. Vi era innanzitutto l'immagine del
pellegrinaggio, l'immagine dell'uomo che, guardando al di là dei suoi affari
e del suo quotidiano, si mette alla ricerca della sua destinazione
essenziale, della verità, della vita giusta, di Dio. Questa immagine
dell'uomo in cammino verso la meta della vita racchiudeva in se ancora due
indicazioni chiare. C'era innanzitutto l’invito a non vedere il mondo che ci
circonda soltanto come la materia grezza con cui noi possiamo fare qualcosa,
ma a cercare di scoprire in esso la “calligrafia del Creatore”, la ragione
creatrice e l'amore da cui è nato il mondo e di cui ci parla l'universo, se
noi ci rendiamo attenti, se i nostri sensi interiori si svegliano e
acquistano percettività per le dimensioni più profonde della realtà. Come
secondo elemento si aggiungeva poi l'invito a mettersi in ascolto della
rivelazione storica che, sola, può offrirci la chiave di lettura per il
silenzioso mistero della creazione, indicandoci concretamente la via verso
il vero Padrone del mondo e della storia che si nasconde nella povertà della
stalla di Betlemme. L'altra immagine contenuta nel motto della Giornata
Mondiale della Gioventù era l'uomo in adorazione: “Siamo venuti per
adorarlo”. Prima di ogni attività e di ogni mutamento del mondo deve esserci
l'adorazione. Solo essa ci rende veramente liberi; essa soltanto ci dà i
criteri per il nostro agire. Proprio in un mondo in cui progressivamente
vengono meno i criteri di orientamento ed esiste la minaccia che ognuno
faccia di se stesso il proprio criterio, è fondamentale sottolineare
l'adorazione. Per tutti coloro che erano presenti rimane indimenticabile
l’intenso silenzio di quel milione di giovani, un silenzio che ci univa e
sollevava tutti quando il Signore nel Sacramento era posto sull'altare.
Serbiamo nel cuore le immagini di Colonia: sono una indicazione che continua
ad operare. Senza menzionare singoli nomi, vorrei in questa occasione
ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile la Giornata Mondiale della
Gioventù; soprattutto, però, ringraziamo insieme il Signore, perché in
definitiva solo Lui poteva donarci quelle giornate nel modo in cui le
abbiamo vissute.
La parola "adorazione" ci porta al secondo grande avvenimento di cui vorrei
parlare: il Sinodo dei Vescovi e l'Anno dell’Eucaristia. Papa Giovanni Paolo
II, con l'Enciclica
Ecclesia de Eucharistia e con la Lettera apostolica
Mane nobiscum Domine ci aveva già donato le indicazioni essenziali e al contempo,
con la sua esperienza personale della fede eucaristica, aveva concretizzato
l'insegnamento della Chiesa. Inoltre, la Congregazione per il Culto Divino,
in stretto collegamento con l'Enciclica, aveva pubblicato l'istruzione
Redemptionis Sacramentum come aiuto pratico per la giusta realizzazione
della Costituzione conciliare sulla liturgia e della riforma liturgica.
Oltre tutto ciò, era veramente possibile dire ancora qualcosa di nuovo,
sviluppare ulteriormente l’insieme della dottrina? Proprio questa fu la
grande esperienza del Sinodo quando, nei contributi dei Padri, si è vista
rispecchiarsi la ricchezza della vita eucaristica della Chiesa di oggi e si
è manifestata l'inesauribilità della sua fede eucaristica. Quello che i
Padri hanno pensato ed espresso dovrà essere presentato, in stretto
collegamento con le Propositiones del Sinodo, in un documento post-sinodale.
Vorrei qui solo sottolineare ancora una volta quel punto che, poco fa,
abbiamo già registrato nel contesto della Giornata Mondiale della Gioventù:
l'adorazione del Signore risorto, presente nell'Eucaristia con carne e
sangue, con corpo e anima, con divinità e umanità. È commovente per me
vedere come dappertutto nella Chiesa si stia risvegliando la gioia
dell'adorazione eucaristica e si manifestino i suoi frutti. Nel periodo
della riforma liturgica spesso la Messa considerata come Cena eucaristica e
l'adorazione del Ss.mo Sacramento erano viste come in contrasto tra loro: il
Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per
essere mangiato, secondo un’obiezione allora diffusa. Nell'esperienza di
preghiera della Chiesa si è ormai manifestata la mancanza di senso di una
tale contrapposizione. Già Agostino aveva detto: “… nemo autem illam carnem
manducat, nisi prius adoraverit;… peccemus non adorando - Nessuno mangia
questa carne senza prima adorarla; … peccheremmo se non la adorassimo” (cfr
Enarr. in Ps 98,9 CCL XXXIX 1385). Di fatto, non è che nell'Eucaristia
riceviamo semplicemente una qualche cosa. Essa è l'incontro e l'unificazione
di persone; la persona, però, che ci viene incontro e desidera unirsi a noi
è il Figlio di Dio. Una tale unificazione può soltanto realizzarsi secondo
le modalità dell'adorazione. Ricevere l'Eucaristia significa adorare Colui
che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con
Lui. Perciò, lo sviluppo dell'adorazione eucaristica, come ha preso forma
nel corso del Medioevo, era la più coerente conseguenza dello stesso mistero
eucaristico: soltanto nell'adorazione può maturare un'accoglienza profonda e
vera. E proprio in questo atto personale di incontro col Signore matura poi
anche la missione sociale che nell'Eucaristia è racchiusa e che vuole
rompere le barriere non solo tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le
barriere che ci separano gli uni dagli altri.
L'ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione
è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant'anni
fa. Tale memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio?
È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è
stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da
fare? Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del
Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo
applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande
dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il
Concilio di Nicea: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della
tempesta, dicendo fra l'altro: “Il grido rauco di coloro che per la
discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il
rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la
Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …”
(De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524). Emerge la
domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa,
finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla
giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta
ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi
della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono
trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione,
l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da
una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della
discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della
simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna.
Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella
continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un
soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo
stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L'ermeneutica della
discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e
Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non
sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero
il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è
dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai
inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del
Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi:
solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da
essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i
testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio
e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei
testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione
più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola:
occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal
modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si
definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni
estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio
come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di
Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la
Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del
mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non
avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del
resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene
dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita
eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche
la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che
hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono “amministratori
dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1); come tali devono essere trovati “fedeli e
saggi” (cfr Lc 12,41-48). Ciò significa che devono amministrare il dono del
Signore in modo giusto, affinché non resti occultato in qualche
nascondiglio, ma porti frutto e il Signore, alla fine, possa dire
all'amministratore: “Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su
molto” (cfr Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste parabole evangeliche si
esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel servizio del Signore, e
in esse si rende anche evidente, come in un Concilio dinamica e fedeltà
debbano diventare una cosa sola.
All'ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma,
come l'hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso
d'apertura del Concilio l'11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso
di conclusione del 7 dicembre 1965. Vorrei qui citare soltanto le parole ben
note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa
inequivocabilmente quando dice che il Concilio “vuole trasmettere pura ed
integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”, e continua: “Il
nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci
preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre volontà
e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige… È necessario che
questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata,
sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del
nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità
contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale
esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la
stessa portata” (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes,
1974, pp. 863-865).
È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo
una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo
rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare
soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e
che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa
fede. In questo senso il programma proposto da Papa Giovanni XXIII era
estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e
dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha
guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono
maturati frutti nuovi. Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che
il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire
nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono,
pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra
profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio.
Paolo VI, nel suo discorso per la conclusione del Concilio, ha poi indicato
ancora una specifica motivazione per cui un'ermeneutica della discontinuità
potrebbe sembrare convincente. Nella grande disputa sull'uomo, che
contraddistingue il tempo moderno, il Concilio doveva dedicarsi in modo
particolare al tema dell'antropologia. Doveva interrogarsi sul rapporto tra
la Chiesa e la sua fede, da una parte, e l'uomo ed il mondo di oggi,
dall'altra (ibid., pp. 1066 s.). La questione diventa ancora più chiara, se
in luogo del termine generico di “mondo di oggi” ne scegliamo un altro più
preciso: il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa
ed età moderna. Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con
il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la
“religione entro la sola ragione” e quando, nella fase radicale della
rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine dello Stato e dell'uomo che
alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno
spazio. Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed
anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro
conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente
di rendere superflua l’“ipotesi Dio”, aveva provocato nell'Ottocento, sotto
Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito
dell'età moderna. Quindi, apparentemente non c'era più nessun ambito aperto
per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte
di coloro che si sentivano i rappresentanti dell'età moderna. Nel frattempo,
tuttavia, anche l'età moderna aveva conosciuto degli sviluppi. Ci si rendeva
conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno
diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda
fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in modo
sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso
loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado
di comprendere la globalità della realtà. Così, tutte e due le parti
cominciavano progressivamente ad aprirsi l’una all'altra. Nel periodo tra le
due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini
di Stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno
laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle
grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica,
via via sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo
radicale e la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che come
tali lavorano con un metodo limitato all'aspetto fenomenico della realtà, si
rendevano conto sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la
totalità della realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo
che la realtà è più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può
abbracciare.
Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande che
ora, durante il Vaticano II, attendevano una risposta. Innanzitutto
occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne;
ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche la
scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico
reclamava per sé l'ultima parola nella interpretazione della Bibbia e,
pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle Sacre
Scritture, si opponeva in punti importanti all’interpretazione che la fede
della Chiesa aveva elaborato. In secondo luogo, era da definire in modo
nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a
cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste
religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per
una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà
di esercitare la propria religione. Con ciò, in terzo luogo, era collegato
in modo più generale il problema della tolleranza religiosa – una questione
che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e
religioni del mondo. In particolare, di fronte ai recenti crimini del regime
nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una lunga
storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto
tra la Chiesa e la fede di Israele.
Sono tutti temi di grande portata su cui non è possibile soffermarsi più
ampiamente in questo contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel
loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di
discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una
discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le
concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata
la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima
percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a
livelli diversi che consiste la natura della vera riforma. In questo
processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più
concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose
contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di
interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse
stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se
stessa mutevole. Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni,
solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e
motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti
le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi
essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare
valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono
cambiare. Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata
come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di
conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità
sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così
privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata
da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in
base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza. Una
cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione
come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una
conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall'esterno,
ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del
convincimento.
Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il
Decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno,
ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può
essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento
di Gesù stesso (cfr Mt 22,21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i
martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per
gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo
dovere (cfr 1 Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece
rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di
Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel
Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per
la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede –
una professione che da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può
essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della
coscienza. Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo
messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi per la libertà della fede. Essa
vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al
contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro
identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro
intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità delle culture non
si perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i
popoli.
Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede
della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o
anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente
discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la
sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la
stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i
tempi; essa prosegue “il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e
le consolazioni di Dio”, annunziando la morte del Signore fino a che Egli
venga (cfr Lumen gentium, 8). Chi si era aspettato che con questo “sì”
fondamentale all'età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’“apertura
verso il mondo” così realizzata trasformasse tutto in pura armonia, aveva
sottovalutato le interiori tensioni e anche le contraddizioni della stessa
età moderna; aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana
che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una
minaccia per il cammino dell'uomo. Questi pericoli, con le nuove possibilità
e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia e su se stesso, non sono
scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia
attuale lo dimostra chiaramente. Anche nel nostro tempo la Chiesa resta un
"segno di contraddizione" (Lc 2,34) – non senza motivo Papa Giovanni Paolo
II, ancora da Cardinale, aveva dato questo titolo agli Esercizi Spirituali
predicati nel 1976 a Papa Paolo VI e alla Curia Romana. Non poteva essere
intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei
confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo. Era invece senz'altro suo
intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare
a questo nostro mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e
purezza. Il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai
impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in
definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si
ripresenta in sempre nuove forme. La situazione che il Concilio doveva
affrontare è senz'altro paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti.
San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani ad essere
sempre pronti a dar risposta (apo-logia) a chiunque avesse loro chiesto il
logos, la ragione della loro fede (cfr 3,15). Questo significava che la fede
biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca ed
imparare a riconoscere mediante l'interpretazione la linea di distinzione,
ma anche il contatto e l'affinità tra loro nell'unica ragione donata da Dio.
Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero
aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella
tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una
contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d'Aquino a mediare
il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede
in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo.
La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un
primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo,
certamente conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in
cui si richiedeva un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi
conciliari, è tracciato sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è
determinata la direzione essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede,
oggi particolarmente importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo
orientamento. Adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura
mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che
il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento. Così
possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano
II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può
essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario
rinnovamento della Chiesa.
Infine, devo forse ancora far memoria di quel 19 aprile di quest'anno, in
cui il Collegio Cardinalizio, con mio non piccolo spavento, mi ha eletto a
successore di Papa Giovanni Paolo II, a successore di san Pietro sulla
cattedra del Vescovo di Roma? Un tale compito stava del tutto fuori di ciò
che avrei mai potuto immaginare come mia vocazione. Così, fu soltanto con un
grande atto di fiducia in Dio che potei dire nell'obbedienza il mio “sì” a
questa scelta. Come allora, così chiedo anche oggi a tutti Voi la preghiera,
sulla cui forza e sostegno io conto. Al contempo desidero ringraziare di
cuore in quest'ora tutti coloro che mi hanno accolto e mi accolgono tuttora
con tanta fiducia, bontà e comprensione, accompagnandomi giorno per giorno
con la loro preghiera.
Il Natale è ormai vicino. Il Signore Dio alle minacce della storia non si è
opposto con il potere esteriore, come noi uomini, secondo le prospettive di
questo nostro mondo, ci saremmo aspettati. L'arma sua è la bontà. Si è
rivelato come bimbo, nato in una stalla. È proprio così che contrappone il
suo potere completamente diverso alle potenze distruttive della violenza.
Proprio così Egli ci salva. Proprio così ci mostra ciò che salva. Vogliamo,
in questi giorni natalizi, andargli incontro pieni di fiducia, come i
pastori, come i sapienti dell'Oriente. Chiediamo a Maria di condurci al
Signore. Chiediamo a Lui stesso di far brillare il suo volto su di noi.
Chiediamogli di vincere Egli stesso la violenza nel mondo e di farci
sperimentare il potere della sua bontà. Con questi sentimenti imparto di
cuore a tutti Voi la Benedizione Apostolica.