«Dalla
guerra inutile alla pace definitiva in Medio Oriente»
di Samir Khalil Samir S.I.,
traduzione dal francese per "InternEtica" di Antonio
Marcantonio.
Dieci punti allo studio della segreteria di stato vaticana per un
accordo globale in Terra Santa e dintorni. Autore un gesuita arabo
grande studioso dell’islam, molto stimato da Benedetto XVI, che lo
conosce e lo stima molto. Nel
settembre del 2005, a Castel Gandolfo, il Papa ha voluto approfondire
con lui e con altri studiosi dell’islam, in un seminario a porte
chiuse, il concetto di Dio nel Corano.
Alla fine, Israele non ha raggiunto il suo obiettivo
principale, annientare l’Hezbollah, e con esso la resistenza, né ha
seminato la discordia tra le differenti confessioni libanesi. In
compenso, però, è riuscito a seminare una distruzione duratura nel
Libano. Hezbollah afferma di essere il vincitore, e in un certo senso lo
è; ma in realtà è destinato a sparire quale milizia. Tutti hanno
perso. Sia lode a Dio! Perché altrimenti, qualcuno avrebbe potuto
ancora credere che la guerra possa produrre la pace o essere un’opzione
in qualche modo interessante.
Il grande perdente è il popolo libanese, che ha pagato il tributo più
pesante in vittime civili e infrastrutture. Tale è l’ironia della
sorte, e il machiavellismo dei grandi! Ed è precisamente questo popolo
che, più di ogni altro, aspira alla pace e opera quotidianamente per un
progetto intercomunitario. “Il Libano è più che una terra, è un
messaggio”, diceva Giovanni Paolo II, e dopo di lui tanti uomini di
ogni confessione religiosa.
La supremazia militare d’Israele – che non aveva bisogno di essere
dimostrata – non gli ha portato la pace, ma piuttosto ha incrementato
l’odio e dunque potenzialmente la guerra. I katiusha non renderanno a
Hezbollah le sue centinaia di morti, né restituiranno la terra ai
palestinesi. Certo, il mondo musulmano, nella sua parte più gregaria,
canta le lodi di Hezbollah; ma questo non porterà né più democrazia,
né più modernità, né più benessere, né più pace, cose a cui
aspira ogni musulmano.
ANDARE ALLE RADICI DEL PROBLEMA
La guerra non ha mai prodotto frutti duraturi. L’estremismo non si
combatte con la guerra, men che meno il presunto “terrorismo”. Tutti
i politici riconoscono che occorre “andare alle radici del problema”,
il quale risale a più di 50 anni fa. Bisogna necessariamente
affrontarlo.
Hezbollah, che ha usurpato all’esercito libanese la funzione di
difendere la patria, non è la radice del problema: non esisteva neppure
quando Israele ha invaso il Libano nel 1982 per attaccare i palestinesi
che vi si trovavano. Neppure l’attentato contro Israele ai giochi
olimpici di Monaco nel 1972, che ha dato inizio al terrorismo nella
regione, è la radice del problema. Neppure gli attacchi continui di
Israele contro la terra dei palestinesi e contro i paesi vicini sono la
radice del problema.
Il problema non è di ordine religioso: tra ebrei e musulmani, o tra
ebrei, cristiani e musulmani, anche se è evidente che la dimensione
religiosa non è mai assente dalla politica medio-orientale. Non è
dunque una guerra tra ebrei (sostenuti dai cristiani) e musulmani. E non
è neppure una guerra etnica, tra ebrei e arabi – e chi potrebbe
pretendere seriamente che gli ebrei o gli arabi siano realtà etniche?
La radice del problema non è dunque né religiosa né etnica; è
puramente politica, ed alla politica si aggancia tutto il resto
(comprese cultura, sociologia, economia, ecc.) per rafforzare le
rispettive posizioni.
Il problema risale alla creazione dello stato d’Israele e alla
spartizione della Palestina nel 1948 – a seguito della persecuzione
organizzata sistematicamente contro gli ebrei, considerati precisamente
come una “razza”! – decisa dalle grandi potenze senza tener conto
delle popolazioni presenti in questa terra (santa): è questa la causa
reale di tutte le guerre che ne sono seguite. Per porre rimedio a una
grave ingiustizia commessa in Europa contro un terzo della popolazione
ebrea mondiale, la stessa Europa (appoggiata dalle altre nazioni più
potenti) ha deciso e commesso una nuova ingiustizia contro la
popolazione palestinese, innocente rispetto al martirio degli ebrei.
Questa spartizione è in ogni caso un fatto storico, nato da una
decisione internazionale. L’esistenza dei due stati, israeliano e
palestinese, nei confini fissati dalle Nazioni Unite è una realtà
oggettiva e legittima, e non la si può rimettere in questione.
Qualunque oltraggio alla legalità internazionale, per quanto questa
legalità possa essere discutibile, porta in sé un male più grande
ancora di quello contestato. Perciò ogni soluzione del conflitto che
non rispetti integralmente la legalità internazionale, cioè le
risoluzioni dell’ONU, non può condurre alla pace.
PROPOSTE PER UN PIANO DI PACE DEFINITIVO
Per raggiungere la pace, solo la strada della diplomazia ha qualche
probabilità di successo. Questa strada si fonda su due regole
complementari: da una parte, la giustizia e il rispetto della legalità
internazionale; dall’altra, la necessità di fare alcune concessioni
per tenere conto della realtà. Il che presuppone da una parte
conoscenza e senso del diritto internazionale; dall’altra
flessibilità e discernimento nonché disponibilità a rinunciare ad una
parte dei miei diritti a favore dei diritti dell’altro. Aggiungerei un
appunto: posto il fatto che da più di mezzo secolo dominano guerra e
odio, non esiste una soluzione perfetta; occorre cercare e accettare la
meno imperfetta delle soluzioni.
Occorre raggiungere una soluzione duratura – anzi, definitiva –
della crisi del Medio Oriente, per poter costruire tutti insieme,
lentamente, la pace. E forse – se ci è permesso di sognare un po’
– per creare una Unione Medio-Orientale (UMO), così come esiste una
Unione Europea (UE), nata essa stessa dalla convinzione dell’inutilità
delle continue guerre in Europa, soprattutto tra Francia e Germania.
Per raggiungere questo obiettivo, proverei ad indicare una via, nello
stesso tempo giusta e realista, che esprimo in questi punti essenziali,
un piccolo “decalogo della pace in Medio Oriente”:
- Creare uno stato palestinese basato sulle frontiere
internazionali anteriori alla guerra del 1967; dovranno essere fatte
piccole modifiche, purché di comune accordo fra Israele e
Palestina.
- Il “diritto di ritorno” dei palestinesi,
riconosciuto dall’ONU nella risoluzione 194 dell’assemblea
generale, dovrebbe essere riconosciuto per principio, anche a costo
di discuterne l’applicazione, fra il ritorno di un numero limitato
di palestinesi e un compenso per gli altri garantito dalla comunità
internazionale.
- Le colonie israeliane potrebbero rimanere per un
periodo limitato (per esempio, una decina d’anni) sotto la
sovranità israeliana. Successivamente, i coloni dovranno decidere:
o ritornare in Israele, o restare sotto la sovranità palestinese,
come hanno fatto un tempo i 160.000 palestinesi che hanno deciso di
vivere sotto la sovranità israeliana.
- Riconoscimento ufficiale e scambio di ambasciatori:
ciascuno stato del Medio Oriente (compresi Turchia, Iran, Iraq,
Siria, ecc.) deve riconoscere ufficialmente come definitive le
frontiere degli altri stati, e impegnarsi ad accreditare
ambasciatori in questi stati.
- Istituire una forza internazionale “robusta”
laddove la pace non sia stata ancora pienamente acquisita, per
controllare anche il traffico delle armi; in particolare tra Israele
e Palestina, Israele e Libano, Libano e Siria, Siria e Iraq, Iran e
Iraq, Turchia e Iraq. Questa forza dovrebbe essere posta su entrambi
i lati delle frontiere internazionali.
- Aiutare gli stati militarmente deboli a costituire
un esercito nazionale sufficientemente forte per assicurare da solo
la sicurezza e quindi smilitarizzare tutti i gruppi: milizie o
coloni. Allo stesso tempo, operare per la riduzione degli
investimenti militari nel Medio Oriente e per controllare gli stati
militarmente potenti.
- Liberare tutti i prigionieri degli altri paesi
detenuti in ciascuno stato, mediante accordi di scambio; in
particolare tra Israele e Palestina, Israele e Libano, Libano e
Siria.
- Creare una commissione internazionale per risolvere
in modo equo il problema dell’acqua nella regione, condizione
essenziale per lo sviluppo e causa frequente di conflitti.
- Creare una commissione internazionale, che
comprenda Israele e Palestina, per la città di Gerusalemme, che i
due stati desiderano legittimamente assumere come capitale. Si
tratta qui di garantire la sicurezza, la libertà di movimento e il
rispetto delle frontiere internazionali all’interno della città;
ma anche la sacralità, la salvaguardia e l’accessibilità dei
Luoghi Santi che sono un patrimonio universale e devono essere
protetti da accordi internazionali.
- Lanciare il progetto di una Unione Medio-Orientale
(UMO) tra tutti gli stati della regione, compresi ovviamente
Israele, Palestina, Giordania, Egitto, Arabia Saudita, Turchia,
Iran, ecc, se sono decisi a vivere in pace tutti insieme. Porne le
fondamenta giuridiche, economiche, politiche, militari e culturali;
definire le condizioni per esserne membri; organizzare incontri tra
gli stati della regione; proporre un calendario, ecc. Firmare
accordi di pace bilaterali o multilaterali per lunghi periodi (da 10
a 20 anni). Per molti punti si potrà approfittare dell’esperienza
dell’Unione Europea.
UN’UTOPIA DA REALIZZARE
Perché un tale progetto possa iniziare a realizzarsi occorre una
rivoluzione mentale. Da più di mezzo secolo i responsabili politici d’Israele
e dei paesi arabi non hanno proposto che la violenza ai loro popoli come
unica soluzione ai problemi, convincendoli che il diritto e la ragione
erano con loro. Occorrerà un lungo lavoro interiore e molto coraggio
per cambiare discorso. La guerra non richiede coraggio, la pace sì!
La guerra che si è svolta sotto i nostri occhi, con il suo strascico
disumano di bestialità e sofferenze, ha consentito a milioni di
persone, di tutte le tendenze, di capire che la violenza è inutile, che
il Medio Oriente non sarà pacificato dalla guerra. Questa scoperta è
forse l’unico bene emerso da questa tragedia, il cui prezzo elevato è
stato pagato soprattutto dal popolo libanese, che aveva appena iniziato
la ricostruzione.
Se da questa tragedia potesse nascere un progetto serio di pace
definitiva, allora questo martirio non sarà stato vano! “Del resto,
noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”
(Romani 8, 28), scriveva un ebreo orientale all’alba del
cristianesimo, Paolo di Tarso. E un figlio di Annaba (oggi in Algeria),
non meno celebre, chiamato Agostino, commentava questo pensiero
aggiungendo due parole: “etiam peccata” (De Doctrina Christiana 3,
23, 33), anche i peccati. Noi diciamo: “anche la guerra”. Perché
no?
Molto prima di Paolo e Agostino, un vecchio ebreo ispirato, Isaia, aveva
proclamato la sua utopia:
“Il lupo abiterà con l'agnello, e il leopardo si sdraierà accanto al
capretto; il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno
assieme, e un bambino li condurrà. La vacca pascolerà con l'orsa, i
loro piccoli si sdraieranno assieme, e il leone mangerà il foraggio
come il bue. Il lattante giocherà sul nido della vipera, e il bambino
divezzato stenderà la mano nella buca del serpente. Non si farà né
male né danno su tutto il mio monte santo, poiché la conoscenza di
Yahvé riempirà la terra, come le acque coprono il fondo del mare. In
quel giorno, verso la radice di Iesse, issata come vessillo dei popoli,
si volgeranno premurose le nazioni, e la sua residenza sarà gloriosa.
In quel giorno il Signore stenderà di nuovo la mano per riscattare il
residuo del suo popolo rimasto in Assiria e in Egitto, a Patros e in
Etiopia, a Elam, a Scinear e a Camat, e nelle isole del mare. Egli
alzerà un vessillo verso le nazioni, raccoglierà gli esuli d'Israele,
e radunerà i dispersi di Giuda dai quattro canti della terra” (Isaia
11, 6-12).
L’utopia, questo paese che non esiste da “nessuna parte”, potrebbe
domani realizzarsi se palestinesi e israeliani, libanesi e siriani,
ebrei e musulmani, insomma noi tutti volessimo credere all’impossibile.
I libanesi ci credono ancora? Il mondo ci crede ancora? Il realismo
consiste nell’avere una visione utopistica precisamente per poterla
realizzare.
Questo paese che non esiste è il paese del futuro. La “terra promessa”
non cade dal cielo, si costruisce con la fatica e il cuore di coloro che
cercano e costruiscono la pace. La “Gerusalemme celeste” dell’Apocalisse
o esiste sulla terra o non esiste affatto. Quella Gerusalemme di cui il
salmista canta: “In essa ogni uomo è nato”, aggiungendo: “l’Altissimo
la tiene salda. Sono in te tutte le mie sorgenti!” (Salmo 87).
Allora tutti i popoli potranno cantare con Davide:
“Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano, sia
pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e
i miei amici io dirò: ‘Su di te sia pace!’. Per la casa del Signore
nostro Dio, chiederò per te il bene” (Salmo 122, 6-9).
Allora si realizzeranno le parole dell’Apocalisse (21, 2-4):
“Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo,
da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una
voce potente che usciva dal trono: ‘Ecco la dimora di Dio con gli
uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli
sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci
sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le
cose di prima sono passate’”.
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