Il tanto criticato discorso di Benedetto
XVI a Regensburg ha lanciato in realtà un modello efficace per il
dialogo islamo-cristiano: rifiuto della violenza, amore alla verità,
interpretazione, missione. L’unica via per superare l’apparenza
tollerante e banale del dialogo predicato da molti musulmani e da
buona parte della Chiesa cattolica.
La lezione magistrale di Benedetto XVI a Regensburg è stata vista
da cristiani e musulmani come un passo falso del papa, un suo banale
errore, qualcosa da dimenticare e lasciarsi alle spalle, se non
vogliamo fomentare una guerra fra religioni. In realtà questo papa dal
pensiero equilibrato e coraggioso, per nulla banale, a Regensburg ha
tracciato le basi di un vero dialogo fra cristiani e musulmani,
diventando voce di molti musulmani riformisti e suggerendo all’Islam e
ai cristiani i passi da fare.
Ancora oggi in occidente e nel mondo islamico vi sono forti
reazioni a quel discorso. Ma molti studiosi musulmani cominciano a
domandarsi: “Passata la burrasca dei fraintendimenti, in fondo, cosa
ci ha detto Benedetto XVI? Ha detto che noi musulmani corriamo il
grande rischio di eliminare la ragione dalla nostra fede. In tal modo
la fede islamica diviene solo un atto di sottomissione a Dio che al
limite può cadere nella violenza, magari ‘in nome di Dio’, o ‘per
difendere Dio’”.
Violenza, ragione e crisi dell’Islam
Proprio la citazione di Manuele II Paleologo, tanto bistrattata e
odiata, era importante perché sottolineava che “Dio non ama il sangue
e la violenza”, e che la violenza è contraria alla natura di Dio e
dell’uomo. Purtroppo, siccome questa frase è stata pronunciata il 12
settembre, un giorno dopo l’anniversario dell’attacco alle Torri
Gemelle, la gente l’ha letta in chiave politica (aiutati dalla
manipolazione di al Jazeera e dei liberal occidentali ).
Adesso la stessa gente musulmana si chiede: “Tutto sommato, il papa
ha detto che nell’Islam c’è il rischio di violenza. E questo non è
vero? Non è la nostra storia e il nostro problema quotidiano? Non c’è
il rischio di svuotare la fede separandola dalla ragione e dal
pensiero critico?”. Anche se non in pubblico, diversi studiosi
islamici affermano: “Questa separazione fra la fede e la ragione è più
che mai il pericolo attuale dell’Islam!”.
Nel IX-XI secolo l’Islam ha integrato nella sua visione la
dimensione ellenistica della filosofia greca e, attraverso questa, la
dimensione critica, logica, ragionevole. Questo è stato fatto grazie
ai cristiani che vivevano nel mondo musulmano. Ma da quasi mille anni
l’Islam ha evacuato la ragione e ripropone di continuo un’applicazione
letterale di quanto si è detto nel passato. La crisi attuale del mondo
musulmano ha come base proprio il divario fra la fede e la ragione e
in varie forme, sono tanti i musulmani che lo dicono.
Circa un mese fa, il ministro egiziano della Cultura, Farouk Hosni,
in parlamento, ha criticato la diffusione del velo islamico in Egitto
dicendo che “questo [uso del velo – ndr] non si è mai visto prima nel
nostro paese. Su questa strada siamo tornati indietro di almeno 30
anni”. Un altro parlamentare è intervenuto a dargli man forte: “Non
solo siamo tornati indietro di 30 anni, ma all’epoca di Mehemet Alì
[cioè agli inizi del XIX secolo]”.
Purtroppo il ministro è stato accusato di andare contro la
Costituzione egiziana, che prevede il Corano e la sharia come fonti
della legislazione. Così, Farouk Hosni, ministro da 20 anni e noto
artista, ha rischiato di essere dimesso da parte dagli integralisti.
In più, avendo egli 62 anni e non essendo sposato, è stato anche
attaccato e accusato di essere omosessuale.
La crisi dell’Islam è sotto gli occhi di tutti ed è sottolineata da
tutti gli intellettuali. Essa è un tentativo di rifugio nel passato
per paura dell’autocritica, della ragione e della modernità.
Quando il papa sottolinea di integrare la ragione nella fede – e ai
laici di integrare la dimensione spirituale nel concetto di ragione –
in realtà suggerisce all’Islam la strada per fare dei grandi passi
avanti.
Il coraggio di parlare
Un altro elemento importante emerso a Regensburg è il coraggio di
parlare: è ora di finirla di avere sempre peli sulla lingua quando si
parla dell’Islam. Anche un papa ha pieno diritto di dire le cose in
modo semplice e diretto ai nostri fratelli musulmani, così come agli
ebrei, ai laici, e ai propri cattolici (1). Questo papa ha rivendicato
la libertà di parola.
La seconda cosa: lui ha detto cose ragionevoli e spiacevoli, ma è
convinto che tali cose vanno dette perché questo è il contenuto di un
vero dialogo. Lo scopo del discorso di Regensburg – è detto nella
conclusione – è proprio il dialogo umanistico, che non rigetta nulla
di positivo nell’Islam e nell’illuminismo, ma critica ciò che di
estremista e di anti-spirituale vi è nell’uno e nell’altro. In tal
modo Benedetto XVI ha messo le basi di un dialogo universale facendo
una proposta alle due opposte tendenze di oggi: da una parte l’Islam
con un fideismo che esclude la ragione (e vale la pena precisare che
ciò non significa che tutto l’Islam ha sempre rigettato la ragione,
come qualcuno ha voluto fargli dire); dall’altra, ha fatto una
proposta all’illuminismo laicista, razionalista che elimina come
insignificante la religione.
Da Regensburg in poi egli ha pure “mostrato” questo dialogo,
facendo gesti concreti. Vale la pena ricordare la preghiera del papa
nella Moschea blu ad Istanbul, nel suo viaggio in Turchia. Il papa ha
sottolineato nei fatti che noi cristiani riconosciamo e rispettiamo la
dimensione spirituale presente nell’Islam: si è tolto le scarpe
entrando nel luogo sacro (una tradizione che è biblica e che si
ritrova per esempio presso i Copti e gli Etiopi); invitato a pregare,
si è girato verso il mihrab, la nicchia che indica la Mecca. Egli ha
pregato perchè non riduce l’Islam a politica; ha pregato senza creare
ambiguità o confusione. Questi gesti hanno dato il vero significato
del discorso di Regensburg per i musulmani.
Il papa, maestro di interpretazione del Corano
Ancora oggi vi sono musulmani che mi scrivono ringraziando il papa
per quello che ha detto in Germania. Già subito dopo il discorso, il
tunisino Abdelwahhab Meddeb ha detto grazie a Benedetto XVI, perché
“finalmente qualcuno osa parlare e punta il dito sulla violenza
nell’Islam”. Per Meddeb “il seme della violenza nell’Islam si trova
nel Corano”, come ha intitolato un suo articolo.
Questa affermazione - di un musulmano - mette in luce il vero,
grande problema del dialogo attuale: la mancanza di verità, il non
accettare di confrontarci sui punti critici.
Sulla questione della violenza, tutti i musulmani sanno che i semi
sono nel Libro sacro, ma tutti anche cercheranno di nasconderlo
dicendo che “No, non è vero, l’Islam significa pace, salām, rispetto,
non violenza”, negando i fatti (2).
Il discorso di Benedetto XVI non ha negato i fatti, ma ha proposto
di comprenderli all’interno di un contesto umano. Ha cioè suggerito
all’Islam di iniziare a fare l’interpretazione dei testi.
Quando il papa ha citato il versetto del Corano, “non c’è violenza
in materia di fede” (Sura della vacca, 2,256) ha aggiunto una
frase che ha scandalizzato molti: “ma questo è probabilmente una delle
sure del periodo iniziale… in cui Maometto stesso era senza potere e
minacciato”.
Questi commenti mi sembrano fondamentali: egli spinge a fare un
lavoro di esegesi verso i testi sacri. Nel caso specifico, egli ha
fatto un esempio di ermeneutica del Corano, proponendo la lettura di
quel verso dentro l’esperienza umana di Maometto Molti, sia musulmani
che studiosi cattolici, lo hanno criticato: “E’ un ignorante - hanno
detto - quel versetto non è del periodo iniziale (Mecca), ma del
periodo di Medina”.
In effetti, secondo l’edizione ufficiale del Corano si tratta del
periodo di Medina. Ma leggendo i commenti nelle edizioni bilingue
arabo-inglese e arabo-francese del Corano, edite dall’Arabia saudita,
si dice: “Questa è la prima sura rivelata a Medina”. In termini
sociologici, ciò significa che è stata rivelata subito dopo l’Egira -
la sua fuga dalla Mecca – quando Maometto ha lasciato la sua tribù per
unirsi alle tribù avverse di Aws e Khazraj. In quel momento e per i
successivi due anni (fino al 624) egli era senza alcun potere e sempre
minacciato. Ha cercato infatti d’appoggiarsi agli ebrei, i più ricchi
e più forti di Medina. Non essendovi riuscito, si è messo a fare delle
razzie, com’era solito fare chi non riusciva a sopravvivere Se questa
sura – come dicono i commentatori musulmani – è la prima di Medina,
significa che essa è prima del periodo delle razzie. E’ vero dunque
che è “del secondo periodo”, ma è anche vero – come dice il papa – che
essa emerge in un momento in cui Maometto stesso era “senza potere e
minacciato”.
Con il suo piccolo commento, Benedetto XVI sembra suggerire ai
musulmani: dobbiamo leggere il testo nel contesto; e questo è
fondamentale per cominciare un dialogo islamo-cristiano. Occorre
rileggere i libri sacri per vedere “le circostanze della rivelazione”
(asbāb al-tanzīl, come dice la tradizione musulmana). In questo
il papa riprende la sana tradizione dell’interpretazione che era viva
nel IX secolo. Purtroppo nell’Islam contemporaneo questa cosa non si
fa più.
Invece, se si incontrano nel Corano dei versetti violenti – e ci
sono – devo cercare di intenderli nel contesto in cui sono apparsi. È
chiaro che Maometto ha fatto delle guerre; è anche chiaro che egli ha
combattuto non per amore della violenza: seguendo la tradizione
antico-testamentaria, egli ha fatto la guerra “per Dio”, “nello zelo
di Dio”. Tutto questo, mettendolo nella tradizione culturale e
religiosa del Medio Oriente, è naturale e non sorprende.
Ma occorre anche dire: oggi la mentalità è cambiata: Dio ha davvero
bisogno di essere difeso dagli uomini? Da qui segue la necessità che
il Corano venga riletto e interpretato per l’oggi. Da un secolo a
questa parte tutti i riformisti musulmani ripetono che la soluzione
per modernizzare l’Islam sta nell’interpretazione del Corano. Da
almeno 30-40 anni ci troviamo in una fase in cui non c’è più
innovazione nell’interpretazione, ma ripetizione fino alla nausea
delle stesse cose e clichè. Si ripetono sempre le stesse cose imparate
a memoria.
Un giovane dottore musulmano iraniano, laureato in islamistica, mi
ha detto proprio in questi giorni: “Non possiamo più pensare al Corano
come direttamente dettato da Dio a Maometto tramite l’angelo Gabriele.
Occorre interpretarlo. Purtroppo nell’Islam attuale non c’è molta
liberta: un nostro intellettuale, Abdolkarim Soroush (3) alcuni
decenni fa, è stato allontanato dall’insegnamento universitario
proprio per aver insegnato queste cose. Alla fine, per poter vivere ed
esprimersi, ha dovuto emigrare in Europa”. Nell’Islam attuale le idee
si trovano, soprattutto fra riformisti e giovani intellettuali, ma
essi tacciono perché nel mondo islamico la libertà è assai limitata.
Il papa ha avuto il coraggio di identificare i punti chiave: la
ragione, la violenza, l’ermeneutica…E ha messo il dito nella piaga
sulla questione dell’interpretazione del Corano, senza di cui non si
riesce a dialogare.
Questa spinta all’Islam verso l’interpretazione è fatta per amore
stesso dell’Islam. Alcuni teologi cristiani e musulmani hanno
criticato il papa per essere stato troppo duro a Regensburg e lo hanno
invece applaudito in Turchia. In realtà è lo stesso papa che, per
amore dell’Islam, a Regensburg non ha mancato di criticarlo, e a
Istanbul non ha mancato di fraternità spirituale.
La missione cristiana tentata dal relativismo
A Regensburg Benedetto XVI ha osato parlare di violenza, mancanza
di ragione, necessità dell’interpretazione nell’Islam e per questo
molti intellettuali musulmani lo hanno elogiato e hanno sperato che
“il papa non chieda scusa”. In occidente, le richieste di “scuse”
erano innumerevoli, anche fra i cristiani. In realtà è successo che
l’atteggiamento del papa a Regensburg ha sconquassato la concezione
troppo irenica della missione della Chiesa e il perbenismo tollerante
laico. Benedetto XVI ha fatto comprendere che dire la verità, dire
delle cose che fanno male, non è un insulto, ma una strada di
guarigione. Ogni tanto bisogna offrire anche una medicina amara.
Spesso fra cristiani che dialogano con l’Islam si tende a
“nascondere” e a non parlare delle differenze. Questo si può
ammetterlo all’inizio: se devo cominciare un rapporto con te, di certo
non mi metto anzitutto a definire quanto mi divide da te. Ma il
rapporto deve approfondirsi.
Uno dei frutti di questa “chiarezza” suggerita dal papa, è
l’atteggiamento del vescovo di Cordoba. Il prelato, per l’ennesima
volta, ha ricevuto la richiesta da parte di un gruppo di musulmani
(spagnoli convertiti), di poter utilizzare la cattedrale per pregare
insieme e dare una immagine “del vero ecumenismo”. Il vescovo ha
risposto che lui vede in questa possibilità un’ambiguità e non lo ha
permesso. Diversi giornali laici europei hanno criticato il vescovo
perché “ha rigettato la proposta aperta e fraterna”, ecc…
Senza alcuna violenza sta crescendo nei cristiani un senso della
propria cultura e della propria identità e della libertà reale di
religione. In tal modo si comincia a superare quell’atteggiamento
irenico e falsamente multietnico di una “ammucchiata” delle religioni.
Questo è urgente soprattutto in Francia, dove la paura di offendere
l’Islam non permette nemmeno di stilare ogni anno delle statistiche
sui convertiti dall’Islam: i vescovi e i responsabili del dialogo con
i musulmani, si rifiutano di comunicare il numero di musulmani che
chiedono il battesimo.
Per me, io non sono contrario al fatto che vi siano cristiani che
diventano musulmani, purché sia fatto per motivi di fede e non
politici o economici. Ma voglio anche che si comunichi e ci sia la
libertà di sapere quanti musulmani diventano cristiani. In questa
apertura schietta si crea una vera e propria emulazione spirituale.
Musulmani e cristiani hanno l’obbligo della missione. I musulmani
la chiamano “da’wa” ed è un obbligo; i cristiani la chiamano
evangelizzazione, e anch’essa è un obbligo. Purtroppo fra i cristiani
si trovano sempre più persone che si rifiutano di annunciare e di
parlare della propria fede per “rispetto” o per non cadere nel
proselitismo.
I musulmani in ogni paese hanno degli uffici della da’wa.
Essi sono legati ad ogni Stato islamico e nei diversi paesi
costruiscono moschee, diffondono il Corano, predicatori e altro, una
specie di Propaganda Fide per ogni stato islamico. La differenza è che
fra i musulmani è lo Stato a sostenere la missione islamica. Nel caso
dei cristiani, sono le comunità, la Chiesa a sostenere la missione.
Se una Chiesa o un vescovo non ci tengono alla missione, significa
che sono addormentati o ripiegati su se stessi. Finora, nei confronti
dei musulmani, ho visto chiese molto organizzate dal punto di vista
caritativo: aiuto agli immigrati, ospitalità, scuola, ecc. È una
generosità senza annuncio. Si dice che questo avviene per salvare il
dialogo. Ma l’annuncio è necessario proprio perché il dialogo sia un
dialogo nella verità.
Occorre che la Chiesa riprenda coscienza che la sua esistenza – non
solo numerica – è legata all’annuncio del Vangelo anche verso i
musulmani. Se non c’è questa spinta, allora significa che essa ha
perso il senso della bellezza della fede incontrata in Cristo. È lo
scivolamento nel vuoto del relativismo.
NOTE
(1) Come ha fatto – già da cardinale - al Colosseo nel Venerdi’
Santo 2004, parlando della “sporcizia nella Chiesa”.
(2) Va detto che nel Corano si trovano anche semi di non-violenza.
E poiché si trovano l’uno e l’altro - come nella Bibbia ebraica -
occorre un’ermeneutica, un’interpretazione dei testi sacri per
discernerne il significato autentico per noi oggi. Ed è questa una
delle idee importanti del Papa, come ho avuto occasione di sentire da
lui all’incontro di Castel Gandolfo nei primi di settembre 2005.