La Turchia si può considerare, dopo la Terra Santa,
la seconda culla del cristianesimo. Lì Paolo e i suoi discepoli hanno
camminato, hanno dialogato, si sono confrontati con le culture e la
mentalità del tempo, ricevendo in cambio a volte la conversione e la
nascita di comunità, altre volte indifferenza, altre volte reazioni
violente. Lì il cristianesimo ha mosso i primi passi come religione
giovanissima, è cresciuto, ha prodotto inestimabili tesori spirituali e
artistici, ma anche dolorose divisioni che tanto pesano e incidono sulla
sua credibilità.
Adesso per i cristiani la Turchia è un deserto, oppure - come abbiamo
drammaticamente visto nel caso di don Andrea Santoro, ucciso a
Trebisonda, e del sacerdote francese Pierre Brunissen, ferito a Samsun -
può trasformarsi in trappola micidiale. All'inizio del XX secolo qui i
cristiani erano il 32%, adesso sono meno dello 0,1. Perché questo triste
destino? Perché la culla, duemila anni dopo, è vuota e pericolosa?
Certo, la storia dà alcune risposte. Una è l'imponente, e sotto molti
aspetti incredibile, scambio di popolazioni avvenuto alla caduta
dell'impero ottomano, quando Turchia e Grecia, terminata la guerra,
decisero nel 1923 un esodo forzato dai due Stati, così che più di un
milione di greci e circa 400 mila turchi dovettero abbandonare
rispettivamente la Turchia e la Grecia. Un'altra risposta è data dalla
persecuzione degli armeni, ma sullo sfondo restano domande che
interpellano la fede. Quanto, in questa desolante situazione, è il
risultato del rapporto con l'islam e quanto dipende dalle divisioni
interne dei cristiani? Siamo di fronte a una sconfitta o c'è forse da
cogliere, in questa condizione di minorità e sofferenza, un disegno
provvidenziale che consente ai cristiani di verificare meglio le ragioni
della fede, nel confronto con gli altri?
Giovanni Paolo II nel 1979, come aveva fatto Paolo VI nel 1967, venne
qui, e come sempre parlò a tutti, ai musulmani come ai fratelli della
Chiesa greco-ortodossa, rivolgendo a entrambi pensieri di pace. Ma il
significato di quei giorni sembra perdersi oggi in un passato di cui non
si ha memoria e che appare molto più remoto di quanto non sia nella
realtà, offuscato com'è da tanta violenza, da tanto odio e rancore
seminati e diffusi negli anni, in Oriente come in Occidente, e troppo
spesso proprio in nome della religione.
Papa Benedetto con la sua visita in Turchia del novembre 2006, in
occasione della festa di Sant'Andrea, patrono del Patriarcato di
Costantinopoli, affronta almeno tre grandi questioni: lo stato dei
rapporti tra Chiesa cattolica e greco-ortodossa, il dialogo tra mondo
cristiano e mondo islamico, la credibilità della Turchia come partner
dell'Occidente in vista del suo possibile, ma assai controverso,
ingresso nell'Unione europea. La Turchia è sotto osservazione da parte
della comunità internazionale. Rispetto dei diritti umani e libertà
religiosa sono due temi al centro del dibattito. Eppure dei cristiani di
Turchia si parla pochissimo. Quanti sono? Come vivono? Come si
rapportano fra loro e con il mondo islamico?
A Istanbul ho avuto il privilegio di incontrare e ascoltare il patriarca
Bartolomeo I, uomo di fede e di cultura verso il quale ho sempre provato
stima e simpatia, specialmente per il suo impegno a favore del dialogo
fra le religioni e per la pace. Bartolomeo ha parlato dell'amicizia con
Karol Wojtyla e ha rivelato per la prima volta che nel fascicolo che
raccoglie gli atti per il processo di beatificazione del servo di Dio
Giovanni Paolo II figurerà anche la testimonianza del Patriarca di
Costantinopoli, interpellato da una commissione inviata da Roma. Un
fatto senza precedenti nella storia delle due Chiese, ma reso possibile
da quell'ecumenismo del rapporto personale e della stima che negli
ultimi decenni ha permesso al dialogo di fare comunque passi avanti,
nonostante le difficoltà sia giuridico-istituzionali sia legate ai nuovi
assetti sociali e politici dell'Europa dopo la caduta del muro di
Berlino.
Bartolomeo è oggi il pastore di un gregge assai piccolo, ma sarebbe un
grave errore, oltre che una prova di superbia inaudita da parte di un
cattolico, valutare la portata della missione del Patriarca di
Costantinopoli in base a un calcolo numerico e secondo la logica del
rapporto di forze. Oggi, sempre di più e in modo sempre più evidente per
tutti, è la solidarietà il fondamento dell'ecumenismo. E il mondo,
questo mondo diviso, percorso dalla follia omicida e da una suicida
volontà di sopraffazione, ne ha un gran bisogno.
Ai tempi dell'impero ottomano, per designare il Ministero degli esteri e
più in generale il governo di Istanbul, nel gergo della diplomazia si
usava l'espressione «Sublime porta». Prendeva il nome dal portone che
conduceva al quartier generale del gran visir, dove il sultano dava il
benvenuto agli ambasciatori stranieri. Oggi che l'impero ottomano non
c'è più e la Turchia preme per entrare nell'Unione europea, in questo
mondo che chiamiamo globalizzato, in cui le distanze si sono enormemente
ridotte e la comunicazione viaggia a ritmi sempre più accelerati - e
persone anche molto lontane possono facilmente entrare in contatto -,
possiamo ben dire che quella che fu la «Sublime porta» è diventata per
noi la porta accanto.
v. anche:
Discorso di
Benedetto XVI alla delegazione del Patriarcato Ecumenico di
Costantinopoli
Omelia di Giovanni
Paolo II in occasione dell'incontro con Bartolomeo I
Bartolomeo I in Vaticano,
29 giugno 2004
Dichiarazione Congiunta di
Giovanni Paolo II e Bartolomeo I