A
Rocca di Papa, presso il Centro Mondo Migliore Conferenza 11-13
novembre 2004
Il decreto
sull’ecumenismo – una nuova lettura dopo 40 anni
Il 21 novembre 1964, il
Concilio Vaticano II promulgava solennemente il Decreto
sull’ecumenismo, "Unitatis
redintegratio". Fin dall’introduzione il documento
afferma che "da Cristo Signore la Chiesa è stata fondata una e
unica", che la divisione si oppone alla volontà del Signore, è
"di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la
predicazione del Vangelo". "Promuovere il ristabilimento
dell'unità fra tutti i cristiani è uno dei principali intenti del
sacro Concilio ecumenico Vaticano II" (UR
1).
Da allora sono
trascorsi quarant’anni durante i quali il documento ha avuto
ripercussioni senza precedenti, il cui impatto si estende ben al di là
della Chiesa cattolica. Quarant’anni sono una misura di tempo
biblica. Abbiamo allora buoni motivi per chiederci: quale era lo scopo
del Decreto ? Quale effetto ha avuto ? A che punto siamo oggi con
l’ecumenismo? Quale è il cammino che l’ecumenismo deve ancora
compiere? L’ecumenismo quo vadis?
Il Concilio è la Magna
Charta del cammino della Chiesa nel XXI secolo (Tertio
millennio adveniente, 18). Il Papa ha ribadito più volte che
la via ecumenica è irreversibile (UUS
3 e.a.), e che l’ecumenismo è una delle priorità pastorali del
suo pontificato (UUS
99). Dobbiamo allora chiederci : quali sono i principi cattolici
dell’ecumenismo così come essi sono stati formulati nel Decreto "Unitatis
redintegratio"?
I. La preparazione del
Decreto sull’ecumenismo
Il Decreto
sull’ecumenismo non è venuto fuori dal nulla. Esso s’inscrive nel
contesto del movimento ecumenico che, nato nel XX secolo al di fuori
della Chiesa cattolica (UR
1; 4), ha segnato una svolta decisiva nel 1948 con la creazione del «Consiglio
Ecumenico delle Chiese». Questo movimento è stato a lungo guardato
con sospetto dalla Chiesa cattolica. Tuttavia, la sua ricezione da
parte del Concilio Vaticano II ha radici che risalgono già alla
teologia cattolica del XIX secolo. Johann Adam Möhler e John Henry
Newmann in particolare vanno citati come precursori e pionieri.
Ma anche a livello
ufficiale si annoverano eventi che hanno preparato la strada. Già
prima del Concilio Vaticano II, i Pontefici avevano incoraggiato la
preghiera per l’unità e la «Settimana di Preghiera per l’Unità
dei Cristiani». Leone XIII e Benedetto XV prepararono l’apertura
ecumenica. Pio XI approvò esplicitamente le «Conversazioni di
Malines» (1921-26) con gli Anglicani1.
Pio XII compì un
ulteriore passo. In una Istruzione del 1950 egli appoggiò
espressamente il movimento ecumenico, sottolineando che alla sua
origine vi era l’opera dello Spirito Santo. Questo Papa ha inoltre
pubblicato una serie di Encicliche innovatrici. Sarebbe pertanto
sbagliato ignorare questa continuità fondamentale, e considerare il
Concilio come una radicale rottura con la Tradizione ed identificarlo
con l’avvento di una nuova Chiesa.
II. Ecumenismo -
espressione della dinamica escatologica della Chiesa
Tuttavia, con il
Concilio ha inizio qualcosa di nuovo: non una nuova Chiesa, ma una
Chiesa rinnovata. Papa Giovanni XXIII ha dato l’impulso iniziale.
Egli può essere giustamente considerato il padre spirituale del
Decreto sull’Ecumenismo: è lui che ha voluto il Concilio e che ne
ha definito lo scopo: il rinnovamento all’interno della Chiesa
cattolica e l’unità dei cristiani.
Non è mia intenzione
tracciare qui la genesi movimentata di "Unitatis
redintegratio"2, con cui si è finalmente
abbandonata la visione ristretta della Chiesa della Controriforma e
post-tridentina, ed è stato promosso non un "modernismo",
ma un ritorno alla tradizione biblica, patristica e altomedievale, che
ha permesso una nuova e più limpida comprensione della natura della
Chiesa.
Il Concilio ha potuto
assumere il movimento ecumenico poiché esso ha inteso la Chiesa come
un movimento, cioè come il popolo di Dio in cammino (LG
2 fine; 8; 9; 48-51; UR
2 fine; e.a.). In altre parole, il Concilio ha rivalorizzato la
dimensione escatologica della Chiesa, mostrando che quest’ultima non
è una realtà statica, ma dinamica, è il popolo di Dio in
pellegrinaggio tra il "qui" e il "non ancora". Il
Concilio ha integrato il movimento ecumenico in questa dinamica
escatologica. Così compreso, l’ecumenismo è la via della Chiesa (UUS
7). Non è né un’aggiunta, né un’appendice, ma è parte
integrante della vita organica della Chiesa e della sua attività
pastorale (UUS
20).
In questa prospettiva escatologica, il movimento ecumenico è
strettamente legato al movimento missionario. Ecumenismo e missione
sono come due gemelli3.
La missione è un
fenomeno escatologico grazie al quale la Chiesa assume il patrimonio
culturale dei popoli, lo purifica e lo arricchisce, arricchendo così
anche se stessa e raggiungendo la pienezza della sua cattolicità (AG
1 s; 9 e.a.). Allo stesso modo, nel movimento ecumenico, la Chiesa
partecipa ad uno scambio di doni con le Chiese separate (UUS
28; 57), le arricchisce e al tempo stesso fa propri i loro doni, le
porta alla pienezza della loro cattolicità e, così facendo, realizza
pienamente la propria cattolicità (UR
4). Missione ed ecumenismo sono le due forme del cammino escatologico
e della dinamica escatologica della Chiesa.
Il Concilio non è
stato tanto ingenuo da ignorare il pericolo che poteva comportare
l’integrazione del movimento ecumenico nella dinamica escatologica
della Chiesa. Questa dinamica – come si è spesso verificato nella
storia della Chiesa – avrebbe potuto essere erroneamente
interpretata come un movimento progressista, secondo il quale il
retaggio delle antiche tradizioni è percepito come desueto ed è
rifiutato in nome di una concezione per così dire progressista della
fede. Laddove ciò avviene, esiste un reale pericolo di relativismo e
di indifferentismo, di un "ecumenismo a buon mercato", che
finisce per rendersi superfluo. In questo modo il movimento ecumenico
è stato a volte preda di movimenti critici nei confronti della Chiesa
ed è stato strumentalizzato contro di essa.
Il lassismo dogmatico
porta a disconoscere l’essenza della dimensione escatologica della
Chiesa. Infatti, l’eschaton non si riferisce ad una realtà
futura che si situa al di fuori della storia. Con Gesù Cristo e con
l’effusione dello Spirito Santo, esso è entrato definitivamente
nella storia ed è presente nella Chiesa. La Chiesa stessa è fenomeno
escatologico; l’unità, la sua caratteristica essenziale, non è
quindi una mèta che si situa in un futuro lontano, né a maggior
ragione essa è una mèta escatologica; la Chiesa è già "Una
Sancta Ecclesia" (UR
4; UUS
11-14). Il cammino ecumenico non è un viaggio verso l’ignoto. La
Chiesa sarà nella storia ciò che è, ciò che è sempre stata, e ciò
che sempre sarà. Essa è in cammino per realizzare pienamente e
concretamente questa sua natura nella vita.
I principi cattolici
dell’ecumenismo enunciati dal Concilio e più tardi da Papa Giovanni
Paolo II, sono chiaramente ed inequivocabilmente opposti ad un
irenismo e ad un relativismo che tendono a banalizzare tutto (UR 5;
11; 24; UUS 18; 36; 79). Il movimento ecumenico non getta via
nulla di ciò che fino ad ora è stato prezioso ed importante per la
Chiesa e nella sua storia; esso rimane fedele alla verità che nella
storia è riconosciuta e definita come tale e non vi aggiunge nulla di
nuovo. Il movimento ecumenico, e lo scopo che esso si prefigge, ovvero
la piena unità dei discepoli di Cristo, restano inscritti nel solco
della Tradizione.
Tuttavia la Tradizione,
nello spirito dei due grandi precursori del Concilio, J. A. Möhler e
J. H. Newman, non è un’entità pietrificata; è una tradizione
vivente. È un evento nello Spirito Santo che guida la Chiesa alla
verità tutta intera, secondo la promessa del Signore (Gv
16,13), svelandoci incessantemente il Vangelo, che ci è stato
trasmesso una volta per tutte, e facendoci progredire nella
comprensione della verità rivelata una volta per tutte (DV
8; cfr. DS 3020). Secondo il Vescovo martire Ireneo di
Lione, è lo Spirito di Dio a mantenere giovane e fresco il patrimonio
apostolico che ci è stato trasmesso una volta per tutte4.
In questo senso, il
movimento ecumenico è un fenomeno carismatico e una "operazione
dello Spirito Santo". La Chiesa, infatti, non ha soltanto una
dimensione istituzionale, ma – come ha sottolineato il Concilio -
anche una dimensione carismatica (LG 4; 7; 12; 49; AA 3;
AG
4; 29). L’ecumenismo è dunque un nuovo inizio, suscitato e
guidato dallo Spirito di Dio (UR
1; 4). Lo Spirito Santo, anima della Chiesa (LG 7), dona
l’unità e la diversità dei doni e dei ministeri (LG 7; UR
2). Il Concilio ha quindi potuto affermare che l’ecumenismo
spirituale è il cuore dell’ecumenismo. Ecumenismo spirituale
significa conversione interiore, rinnovamento dello spirito,
santificazione personale della vita, carità, abnegazione, umiltà,
pazienza, ma anche rinnovamento e riforma della Chiesa. E,
soprattutto, la preghiera è il cuore del movimento ecumenico (UR
5-8; UUS
15 s; 21-27).
In quanto movimento
spirituale, il movimento ecumenico non sradica la Tradizione. Al
contrario, esso propone una comprensione nuova e più profonda della
Tradizione trasmessaci una volta per tutte; grazie ad esso, si fa
strada la nuova Pentecoste, preannunciata da Giovanni XXIII nel suo
discorso d’apertura al Concilio; con esso si prepara una nuova
fisionomia storica della Chiesa, non una nuova Chiesa, ma una Chiesa
spiritualmente rinnovata e arricchita. Con la missione, l’ecumenismo
è la via della Chiesa nel XXI secolo e nel terzo millennio.
III. "Subsistit
in" – espressione di un’ecclesiologia storicamente concreta
La dinamica
escatologica e pneumatologica necessitava di una delucidazione
concettuale. Questa chiarificazione è stata fornita dal Concilio
nella Costituzione sulla Chiesa, con la formula molto discussa del
"subsistit in": la Chiesa di Gesù Cristo sussiste nella
Chiesa cattolica (LG
8). Il redattore principale della Costituzione sulla Chiesa, G.
Philips, è stato abbastanza lungimirante da prevedere che sul
significato del "subsistit in" molto inchiostro sarebbe
stato ancora versato.5 In effetti, questo flusso
d’inchiostro continua ad essere versato e probabilmente ne occorrerà
ancora dell’altro prima di chiarire le questioni sollevate.
Durante il Concilio, il
"substit in" ha sostituito il precedente "est"
6. Esso contiene in nuce l’intero problema
ecumenico7. L’"est" affermava che la
Chiesa di Gesù Cristo "è" la Chiesa cattolica.
Questa stretta identificazione della Chiesa di Gesù Cristo con la
Chiesa cattolica è stata ribadita in seguito anche dalle Encicliche
"Mystici corporis" (1943) e "Humani
generis" (1950)8. Tuttavia, la stessa "Mystici
corporis" riconosce che vi sono persone che, seppur non
battezzate, appartengono alla Chiesa cattolica per loro desiderio (DS
3921). Per questo motivo, Papa Pio XII, già nel 1949, aveva
condannato un’interpretazione esclusiva dell’assioma "Extra
ecclesiam nulla salus"9.
Il Concilio ha potuto
fare un notevole passo avanti grazie al "subsistit in".
Si è voluto rendere giustizia al fatto che, al di fuori della Chiesa
cattolica, non vi sono soltanto singoli cristiani, ma anche
"elementi di Chiesa"10, ed anche Chiese e Comunità
ecclesiali che, pur non essendo in piena comunione, appartengono di
diritto all’unica Chiesa e sono per i loro membri mezzi di salvezza
(LG
8; 15; UR
3; UUS
10-14). Il Concilio sa dunque che, al di fuori della Chiesa cattolica,
esistono forme di santità che vanno fino al martirio (LG 15; UR
4; UUS 12; 83). Di conseguenza, la questione della salvezza
dei non cattolici non è più risolta a livello individuale a partire
dal desiderio soggettivo di un individuo, come è indicato da "Mystici
corporis", ma a livello istituzionale ed in modo
ecclesiologico oggettivo.
La nozione del "subsistit
in" significa, nell’intenzione della Commissione teologica
del Concilio, che la Chiesa di Cristo ha il suo ‘luogo concreto’
nella Chiesa cattolica; nella Chiesa cattolica, si incontra la Chiesa
di Cristo ed è lì che essa si trova concretamente11. Non
si tratta di un’entità puramente platonica o di una realtà
meramente futura; essa esiste concretamente nella storia e si trova
concretamente nella Chiesa cattolica12.
Compreso in tal modo,
il "subsistit in" assume l’istanza essenziale
dell’"est". Tuttavia, non descrive più il modo
secondo il quale la Chiesa cattolica intende se stessa in termini di "splendid
isolation" , ma prende atto della presenza operante
dell’unica Chiesa di Cristo anche nelle altre Chiese e Comunità
ecclesiali (UUS
11), sebbene esse non siano ancora in piena comunione con lei. Nel
formulare la sua identità, la Chiesa cattolica stabilisce un rapporto
dialogico con queste Chiese e Comunità ecclesiali.
Di conseguenza, il "subsistit
in" è erroneamente interpretato quando si fa di esso il
fondamento di un pluralismo e di un relativismo ecclesiologico,
affermando che l’unica Chiesa di Cristo sussiste in numerose Chiese
e che la Chiesa cattolica è semplicemente una Chiesa accanto ad
altre. Simili teorie di pluralismo ecclesiologico contraddicono la
comprensione della propria identità che la Chiesa cattolica – come
d’altronde anche le Chiese ortodosse – ha sempre avuto nel corso
della sua Tradizione, comprensione che lo stesso Concilio Vaticano II
ha voluto fare sua. La Chiesa cattolica rivendica per sé, nel
presente come nel passato, il diritto di essere la vera Chiesa di
Cristo, nella quale è data tutta la pienezza dei mezzi di salvezza (UR
3; UUS
14), ma adesso essa prende coscienza di ciò in modo dialogico,
tenendo conto delle altre Chiese e Comunità ecclesiali. Il Concilio
non afferma nessuna nuova dottrina, ma motiva un nuovo atteggiamento,
rinuncia al trionfalismo e formula la tradizionale comprensione della
propria identità in modo realistico, storicamente concreto e, si
potrebbe dire, addirittura umile. Il Concilio sa che la Chiesa è in
cammino nella storia, per realizzare concretamente nella storia ciò
che è ("est") la sua natura più profonda.
Si ritrova questa
visione umile e realistica principalmente in Lumen gentium 8,
laddove il Concilio, con il "subsistit in", fa spazio
non solo ad elementi della Chiesa al di fuori della sua struttura
visibile, ma anche a membri e a strutture di peccato nella Chiesa
stessa13. Il popolo di Dio conta anche peccatori tra le sue
fila, con la conseguenza che la natura spirituale della Chiesa non
appare chiaramente ai fratelli separati ed al mondo, la Chiesa ha la
sua parte di responsabilità nelle divisioni esistenti, e la crescita
del Regno di Dio è ritardata (UR 3 s.). D’altra parte, le
Comunità separate a volte hanno sviluppato meglio alcuni aspetti
della verità rivelata, cosicché, nella situazione di divisione, la
Chiesa cattolica non può sviluppare pienamente e concretamente la
propria cattolicità (UR 4; UUS 14). Per questo, la
Chiesa ha bisogno di purificazione e di rinnovamento, e deve
incessantemente percorrere la via della penitenza (LG
8; UR 3s; 6 s; UUS 34 s; 83 s).
Questa visione
autocritica e penitente costituisce il fondamento del cammino del
movimento ecumenico (UR
5-12). Essa comprende la conversione ed il rinnovamento, senza i quali
non può esservi ecumenismo, ed il dialogo, che, più di uno scambio
di idee, è uno scambio di doni.
In questa prospettiva
escatologica e spirituale, lo scopo dell’ecumenismo non può essere
concepito come un semplice ritorno degli altri nel seno della Chiesa
cattolica. La meta della piena unità può essere raggiunta soltanto
attraverso l’impegno animato dallo Spirito di Dio e la conversione
di tutti all’unico capo della Chiesa, Gesù Cristo. Nella misura in
cui siamo uniti a Cristo, saremo anche uniti gli uni agli altri e
realizzeremo concretamente ed in tutta la sua pienezza la cattolicità
propria della Chiesa. Questo obiettivo è stato definito
teologicamente dal Concilio come unità-communio.
IV. L’ecumenismo
sotto il segno dell’ecclesiologia di comunione
L’idea fondamentale
del Concilio Vaticano II, ed in particolare del Decreto
sull’ecumenismo, si riassume in una parola: communio14.
Il termine è importante per comprendere correttamente la questione
degli "elementa ecclesiae". Tale espressione
suggerisce una dimensione quantitativa, quasi materialistica, come se
si potessero quantificare, contare questi elementi, verificando se il
loro numero è completo. Una tale "ecclesiologia degli
elementi" è stata criticata già durante i dibattiti conciliari
e soprattutto dopo il Concilio 15. "Unitatis
redintegratio" tuttavia non si è fermato là. Il Decreto
sull’ecumenismo considera le Chiese e le Comunità ecclesiali
separate non come entità che hanno conservato un residuo di elementi,
di diversa consistenza a seconda dei casi, ma come entità integrali
che mettono in luce questi elementi all’interno della loro
concezione ecclesiologica globale.
Ciò avviene grazie al concetto di "communio". Con
questa nozione, presente nella Bibbia e utilizzata dalla Chiesa
primitiva, il Concilio definisce il mistero più profondo della
Chiesa, che è ad immagine della communio trinitaria, come
icona della Trinità (LG 4; UR 2). Originariamente, communio
e communio sanctorum non designavano la comunità dei cristiani
tra loro, ma la partecipazione (participatio) ai beni di
salvezza, ai sancta, cioè ai sacramenta.
Fondamentale in tutto
ciò è il battesimo. Esso è il sacramento della fede, tramite il
quale i battezzati appartengono all’unico corpo di Cristo, che è la
Chiesa. I cristiani non cattolici dunque non sono al di fuori
dell’unica Chiesa, ma, al contrario, appartengono già ad essa in
modo fondamentale (LG
11; 14; UR
22). Sulla base dell’unico battesimo comune, l’ecumenismo va
ben oltre la mera benevolenza e la semplice amicizia; non è una forma
di diplomazia ecclesiale, ma ha un fondamento ontologico ed una
profondità ontologica; è un evento dello Spirito.
Il battesimo è,
evidentemente, soltanto il punto di partenza e la base (UR
22). L’incorporazione nella Chiesa giunge alla sua pienezza con l’eucarestia,
che è sorgente, fulcro ed apice della vita cristiana ed ecclesiale (LG
11; 26; PO 5; AG 39). Così, l’ecclesiologia
eucaristica ha già il suo fondamento nella Costituzione liturgica e
nella Costituzione sulla Chiesa (SC 47; LG 3; 7; 11; 23;
26)."Unitatis
redintegratio" afferma che nell’Eucarestia "l'unità
della Chiesa è significata ed attuata" (UR
2). Dice in seguito, a proposito della Chiese ortodosse: "con la
celebrazione dell'eucaristia del Signore in queste singole Chiese, la
Chiesa di Dio è edificata e cresce, e con la concelebrazione si
manifesta la comunione tra di esse" (UR 15). Ovunque è
celebrata l’Eucarestia, là è la Chiesa. Come si evidenzierà tra
breve, questo assioma è di capitale importanza per comprendere le
Chiese orientali e la distinzione esistente tra queste ultime e le
Comunità ecclesiali protestanti.
Quanto appena detto
significa che ogni Chiesa particolare che celebra l’Eucarestia è
Chiesa nel senso pieno del termine, ma non è tutta la Chiesa (LG
26; 28). Poiché vi è un solo Cristo ed una sola Eucarestia, ogni
Chiesa che celebra l’Eucarestia è in un rapporto di comunione con
tutte le altre Chiese. L’unica Chiesa esiste in tutte le Chiese
particolari ed a partire da esse (LG
23) e, inversamente, le Chiese particolari esistono nell’unica
Chiesa e a partire da essa (Communiones notio, 9).
Trasferendo questo
concetto di unità al problema ecumenico, l’unità ecumenica verso
cui tendiamo significa qualcosa di più di una rete di Chiese
confessionali che, entrando in comunione d’Eucaristia e di pulpito,
si riconoscono reciprocamente. La comprensione cattolica
dell’ecumenismo presuppone ciò che già esiste, ovvero l’unità
nella Chiesa cattolica e la comunione parziale con le altre Chiese e
Comunità ecclesiali, per giungere, partendo da questa comunione
incompleta, alla piena comunione (UUS 14), che comprende
l’unità nella fede, nei sacramenti e nel ministero ecclesiastico (LG
14; UR 2 s.).
L’unità nel senso
della piena communio non significa uniformità, ma unità nella
diversità e diversità nell’unità. All’interno dell’unica
Chiesa vi è posto per una diversità legittima di mentalità,
di usi, di riti, di regole canoniche, di teologie e di spiritualità (LG
13; UR 4; 16 s.). Possiamo anche dire che l’essenza
dell’unità concepita come comunio è la cattolicità nel suo
significato originario che non è confessionale ma qualitativo; essa
indica la realizzazione di tutti i doni che le Chiese particolari e
confessionali possono apportare.
Pertanto, il contributo
di "Unitatis
redintegratio" alla soluzione del problema ecumenico non
è l’"ecclesiologia degli elementi", ma la distinzione tra
piena comunione e comunione non piena (UR
3)16. Da questa distinzione deriva il fatto che
l’ecumenismo non mira a creare associazioni, ma a realizzare una communio,
che non significa né assorbimento reciproco né fusione17.
Questa formulazione del problema ecumenico è il contributo teologico
più importante dato dal Concilio alla questione ecumenica.
V. Oriente ed Occidente
- due forme dello stesso movimento ecumenico
L’integrazione della
teologia ecumenica nell’ecclesiologia di communio permette di
distinguere due tipi di divisione nella Chiesa: la scissione
tra Oriente ed Occidente e le divisioni all’interno della Chiesa
d’Occidente dal XVI secolo in poi. Tra le due, la differenza non è
soltanto geografica o temporale; si tratta di scismi di diversa
natura. Mentre con la frattura tra Oriente ed Occidente la struttura
ecclesiale che si era fondamentalmente sviluppata a partire dal II
secolo è rimasta invariata, con le Comunità derivate dalla Riforma
ci troviamo di fronte ad un altro tipo ecclesiale18.
Lo scisma d’Oriente ingloba sia le antiche Chiese d’Oriente
separatesi dalla Chiesa imperiale nei secoli IV e V, sia lo scisma tra
Roma ed i Patriarcati orientali, la cui data simbolica è stata
fissata all’anno 1054.
Il Concilio non riduce
certo le differenze a semplici fattori politici e culturali. Fin
dall’inizio, Oriente ed Occidente hanno accolto in modo diverso lo
stesso Vangelo ed hanno sviluppato diverse forme di liturgia, di
spiritualità, di teologia e di diritto canonico. Tuttavia, essi
concordano in ciò che concerne la struttura fondamentale, sia
eucaristica-sacramentale che episcopale. I dialoghi nazionali ed
internazionali avviati dopo il Concilio hanno confermato questa
profonda comunione nella fede, nei sacramenti e nella struttura
episcopale.
Il Concilio parla
dunque di relazioni tra Chiese locali come tra Chiese sorelle (UR
14). Questa formulazione, ancora abbastanza vaga nel Decreto
sull’ecumenismo, è stata ripresa e sviluppata nello scambio di
messaggi tra Papa Paolo VI ed il Patriarca ecumenico Athenatoras, il "Tomos
agapis"19.
Il ristabilimento della
piena comunione presuppone una attenta considerazione dei diversi
fattori della divisione (UR
14) ed il riconoscimento delle differenze legittime (UR
15-17). Il Concilio costata che, per quanto riguarda le differenze, si
tratta spesso di elementi complementari più che di opposte
divergenze (UR
17)20. Esso pertanto dichiara che "tutto questo
patrimonio spirituale e liturgico, disciplinare e teologico, nelle
diverse sue tradizioni, appartiene alla piena cattolicità e
apostolicità della Chiesa" (UR
17)21. Per ristabilire l’unità, dunque, occorre non
imporre altro peso fuorché le cose necessarie (Atti 15,28) (UR
18).
Il vero problema nelle
relazioni tra Oriente ed Occidente è la questione del ministero
petrino (UUS
88). Papa Giovanni Paolo II ha invitato ad un dialogo fraterno
sull’esercizio futuro di questo ministero (UUS
95). Non è possibile esporre qui le complesse questioni storiche
legate al problema, né le possibilità attuali di una
ri-interpretazione e di una ri-ricezione dei dogmi promulgati dal
Concilio Vaticano I. Ricordiamo soltanto che un simposio organizzato
nel maggio del 2003 dal Pontificio Consiglio per la promozione
dell’unità dei cristiani con le Chiese ortodosse ha portato ad
un’apertura da entrambe le parti22. Ci auguriamo che il
dialogo teologico internazionale potrà presto riprendere e
soprattutto dedicarsi allo studio di questo tema.
Lo scisma
d’Occidente, originato dalla Riforma del XVI secolo, è di
un’altra natura. Come riconosce chiaramente il Decreto
sull’ecumenismo, si tratta di un fenomeno complesso e differenziato,
di carattere tanto storico quanto dottrinale. Anche alle Comunità
nate dalla Riforma siamo legati da molti ed importanti elementi della
vera Chiesa, tra i quali soprattutto l’annuncio della Parola di Dio
ed il battesimo. In numerosi documenti di dialogo post-conciliari
questa comunione viene ampliata ed approfondita23.
Esistono tuttavia anche
"importanti divergenze, non solo di carattere storico,
sociologico, psicologico e culturale, ma soprattutto
nell'interpretazione della verità rivelata" (UR 19).
Secondo il Concilio, queste divergenze riguardano in parte la dottrina
di Gesù Cristo e della redenzione, e soprattutto la Sacra Scrittura
nella sua relazione con la Chiesa, il magistero autentico, la Chiesa
ed i suoi ministeri, il ruolo di Maria nell’opera della redenzione (UR
20s; UUS
66), ed in parte anche questioni morali (UR 23). Queste ultime
sono recentemente balzate in primo piano ed hanno creato problemi sia
all’interno delle Comunità ecclesiali riformate che nei rapporti
tra queste e la Chiesa cattolica.
A differenza di ciò
che avviene nella situazione dello scisma d’Oriente, con le Comunità
derivate dalla Riforma siamo in presenza non solo di divergenze
dottrinali, ma anche di un’altra struttura fondamentale e di un
altro tipo di Chiesa. Benché con accentuazioni diverse e spesso
notevoli nelle loro posizioni, i riformatori concepiscono la Chiesa
come creatura verbi a partire soprattutto dalla Parola di Dio24
e non dall’Eucaristia.
La differenza
s’accentua quando si tratta della questione dell’Eucaristia. Come
afferma il Concilio, le Comunità ecclesiali derivate dalla Riforma
"per la mancanza del sacramento dell'ordine, non hanno conservato
la genuina ed integra sostanza del mistero eucaristico" (UR
22).
Nel senso
dell’ecclesiologia eucaristica, la distinzione tra le Chiese e le
Comunità ecclesiali risulta da questa mancanza di sostanza
eucaristica. La dichiarazione "Dominus
Iesus" (DI 16) ha ulteriormente sottolineato tale
distinzione a livello di concetti e, così facendo, ha sollevato aspre
critiche da parte di cristiani protestanti. Sarebbe stato possibile
formulare in modo più comprensibile quanto si intendeva
esprimere; tuttavia, per ciò che riguarda il contenuto effettivo, non
si possono chiudere gli occhi sulle divergenze che esistono nel modo
di concepire la Chiesa. I protestanti non vogliono essere Chiesa nel
senso in cui la Chiesa cattolica intende se stessa; essi rappresentano
un altro tipo di Chiesa e, per tale motivo, secondo il criterio
d’identità cattolico, non sono una Chiesa in senso proprio.
A motivo delle
differenze esistenti, il Concilio mette in guardia contro ogni
leggerezza e zelo imprudente. "L’azione ecumenica non può
essere se non pienamente e sinceramente cattolica, cioè fedele alla
verità che abbiamo ricevuto dagli apostoli e dai Padri, e conforme
alla fede che la Chiesa cattolica ha sempre professato" (UR
24). Ma il Concilio mette in guardia anche contro le polemiche. È
significativo che il termine "dialogo" sia ripetuto come un
ritornello al termine delle varie sezioni di questa parte del decreto
(UR
19; 21; 22; 23). Ciò esprime, una volta di più, il nuovo spirito
col quale il Concilio intende superare le differenze.
VI. Quanta est nobis
via?
Il Decreto costituiva
un inizio. Nondimeno, esso ha avuto ampie ed importanti ripercussioni,
sia all’interno della Chiesa cattolica che a livello ecumenico, ed
ha profondamente cambiato la situazione dell’ecumenismo nel corso
degli ultimi quarant’anni25.
Certamente "Unitatis
redintegratio" ha anche lasciato alcune questioni aperte;
ha affrontato critiche ed ha conosciuto ulteriori sviluppi. Ma
i problemi incontrati non devono farci dimenticare i ricchi
frutti che esso ha recato. Il Decreto ha dato avvio ad un processo
irrevocabile ed irreversibile, per il quale non esiste
un’alternativa realistica. Il Decreto sull’ecumenismo ci mostra il
cammino nel XXI secolo. è volontà del Signore che intraprendiamo
questo cammino, con prudenza, ma anche con coraggio, pazienza e
soprattutto con incrollabile speranza.
In ultima analisi,
l’ecumenismo è un’avventura dello Spirito. Per questo, concludo
prendendo a prestito le parole con le quali si conclude anche Unitatis
redintegratio : "La speranza non delude, poiché l'amore
di Dio è largamente diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito
Santo che ci fu dato" (Rm 5,5) (UR 24).
___________________________
1
Per
gli antecedenti del movimento ecumenico nella Chiesa cattolica, vedi:
H. Petri, Die römisch-katholische Kirche und die Ökumene, in:
Handbuch der Ökumenik, vol. 2, Paderborn 1986, 95-135.
2 Cfr. W. Becker, in: LThK Vat. II, vol. 2 (1967), II-39; L.
Jaeger, Das Konzildekret über den Ökumenismus, Paderborn
1968, 15-78; Storia del Concilio Vaticano II, par G. Alberigo,
vol. 3, Bologna 1998, 277-365; vol. 4, Bologna 1999, 436-446.
3 J. Le Guillou, Mission et unité. Les exigeances de la
communion, Paris 1959; Y. Congar, Diversité et communion, Paris 1982,
239 s. Anche Papa Giovanni Paolo II ha sottolineato questo legame
nella sua Enciclica sulla missione, "Redemptoris missio"
(1990) (n. 36 e 50).
4 Ireneo di Lione, Adversus haereses III, 24, 1 (Sources
chrétiennes, n. 211, Paris 1974, 472).
5 G. Philips, L’Église et son mystère aux deuxième
Concile du Vatican, tome 1, Paris 1967, 119.
6 Visione d’insieme in Synopsis historica a cura di G.
Alberigo- F. Magistretti, Bologna 1975, 38; 439 s; 506 s.
7 G. Philips, ibid.
8 AAS 35, 1943, 199; 42, 1950, 571.
9 Lettera della Santa Sede all’Arcivescovo di Boston (1949),
in: DS 3866-73.
10 Questo concetto risale in fondo a G. Calvino; ma, mentre per
Calvino il termine si riferiva a tristi residui della vera Chiesa, nel
dibattito ecumenico esso è compreso in senso positivo, dinamico e
orientato verso il futuro. Fa la sua comparsa per la prima volta con
Yves Congar come proseguimento della posizione antidonatista di S.
Agostino (cfr. A. Nichols, Yves Congar, Londra 1986, 101-106).
Con la dichiarazione di Toronto (1950) è entrato anche nel linguaggio
del Consiglio Ecumenico delle Chiese.
11 Synopsis historiae, 439; G. Philps op. cit.119; A.
Grillmeier, LThK, Vat. II, vol. 1, 1966, 175; L. Jaeger, op. cit.
214-217.
12 Vedi la Dichiarazione della Congregazione per la dottrina
della fede, "Mysterium ecclesiae" (1973), n.1, e
ancora la Dichiarazione "Dominus Iesus" (2000) n. 17.
13 Sulla nozione di "strutture del peccato", cfr. la
lettera apostolica di Papa Giovanni Paolo II "Reconciliatio et
paenitentia" (1984) 16, così come UUS 34.
14 Vedi a questo proposito il sinodo straordinario dei vescovi
del 1985 (II C 1). Il Pontificio Consiglio per la promozione
dell’unità dei cristiani ha trattato questo tema in modo
dettagliato durante la sua Assemblea Plenaria del 2001. Cfr. la
Prolusio del Cardinale Kasper, Communio. The Guiding Concept of
Catholic Ecumenical Theology. The Present and the Future Situation of
the Ecumenical Movement, in: Information Service n. 109,
2002/I-II, 11-20.
15 Cfr. soprattutto H. Mühlen, Una mystica persona,
Monaco-Paderborn 1968, 496-502; 504-513.
16 Questa distinzione non è ancora chiaramente indicata nella
terminologia dei testi conciliari. In UR 3 si dice "plena
communio" e "quaedam communio, etsi non perfecta".
17 Giovanni Paolo II, Enciclica "Slavorum apostoli"
(1985) 27.
18 J. Ratzinger, Die ökumenische Situation – Orthodoxie,
Katholizismus und Reformation, in: Theologische Prinzipienlehre,
Monaco 1982, 203-208.
19 Ibid. 386-392 (n. 176). Questa espressione è stata ripresa
nella dichiarazione comune di Papa Giovanni Paolo II e del Patriarca
ecumenico Bartolomeo del 1995.
20 Il "Catechismo della Chiesa cattolica" (n. 248)
include anche la questione del filioque tra i problemi che
indicano una differenza complementare piuttosto che contraddittoria.
21 Questa idea si ritrova anche nel Decreto "Orientalium
ecclesiarum", 1, e nell’enciclica "Orientale
Lumen" (1995) 1.
22 Cfr. W. Kasper (ed.), Il ministero petrino. Cattolici e
ortodossi in dialogo, Roma 2004.
23 Citiamo soprattutto i documenti di Lima, "Battesimo,
Eucarestia e ministero" (1982), i documenti d’ARCIC con la
Comunione Anglicana, i documenti di convergenza con i luterani
("La cena del Signore", "Il ministero spirituale nella
Chiesa", ecc.), in particolare la "Dichiarazione comune
sulla dottrina della giustificazione" (1999).
24 M. Luther, De captivitate Babylonica ecclesiae praeludium
(1520): WA 560 s.
25 Cfr. Il Concilio Vaticano II. Ricezione e attualità alla
luce del Giubileo, ed. R. Fisischella, Roma 2000, 335-415, con
contributi di E. Fortino, J. Wicks, F. Ocáriz, Y. Spiteris, V. Pfnür.