Andrea Riccardi, su Avvenire del 3 agosto 2004



Nella foto, accanto alla chiesa, appaiono truppe di occupazione; ma i cristiani hanno chiesto l'intervento della polizia iraqena. Monsignor Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad: «L’aggressione alla comunità cristiana fa parte di un piano più grande ordito dall’esterno che punta a destabilizzare il Paese. È prioritario che vengano chiusi i confini in modo da interrompere il flusso di terroristi»
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Intervista a Mons: Warduni: «Gli attacchi alle chiese non sono opera di iracheni»
>Iraq. Chiese in pericolo - intervista al Patriarca caldeo Delly


Chiesa cristiana a Bagdad

Nella loro folle geopolitica i terroristi islamici non vedono che nemici. Anche i cristiani orientali sono da loro arruolati nell'armata occidentale: forse che non si tratta pur sempre di cristiani? Così hanno colpito le chiese di costoro a Baghdad, dove altri cristiani erano giunti numerosi negli ultimi decenni da un Kurdistan in cui la vita si era fatta ormai impossibile. Li hanno colpiti anche a Mossul, antica capitale cristiana della Mesopotamia, ripartendo in modo equamente macabro i loro colpi: tra caldei, che è la comunità maggioritaria, siriaci e armeni.
Il Novecento - ricordiamo - si era aperto con la tragedia dei cristiani d'Oriente massacrati nell'Anatolia turca, deportati nel deserto siriano, e uccisi in Mesopotamia. Gli armeni allora pagarono un pesante tributo di sangue. Ma anche i caldei, i siriaci, gli assiri furono duramente colpiti. Si infranse allora per sempre un'antica convivenza con i musulmani, mai facile ma resistente nei secoli. Le potenze occidentali si erano arrogate il diritto di protezione verso i cristiani rispetto all'autorità ottomana e avevano così complicato ancora di più la situazione dei loro protetti. Subito dopo la prima guerra mondiale, assiri e caldei dell'Iraq si resero amaramente conto che la Gran Bretagna non avrebbe rispettato le promesse loro fatte durante il conflitto. L'Occidente infatti non aveva - e non ha - interesse per una politica "filo-cristiana". Ma questo i terroristi islamici (che hanno colpito le chiese domenica) nella loro demente semplificazione non lo vogliono capire.

In realtà questi cristiani, in buona parte arabofoni, sono figli del mondo orientale e vivono in quelle terre da prima dell'islam. Sono espressione di un mondo in cui, nonostante le difficoltà, si stava insieme tra musulmani, ebrei e cristiani. 

Gli ebrei risultano completamente scomparsi dal mondo musulmano con la nascita d'Israele e per effetto dell'antisemitismo islamico. Sono rimasti i cristiani, amici del mondo musulmano e tanto identificati con questo Oriente. Hanno avuto una funzione storica di mediatori tra l'Oriente musulmano e l'Occidente. Si pensi al Libano. I cristiani hanno creduto nel nazionalismo arabo, anche quello del Baath: gli sembrava una difesa nei confronti dell'islamizzazione. 

Dagli anni Venti del secolo scorso si incamminavano però sulla via dell'emigrazione: il che sta a dire che sentivano la loro vita in Oriente messa sempre più a rischio. Addirittura il Patriarca assiro vive negli Stati Uniti, e grandi comunità cristiane orientali si sono formate in Occidente. E così gli antichi monasteri e le chiese (dove si celebrava una liturgia, quella siriaca e caldea, vicina alla cultura ebraico-aramaica) risultano non da oggi per buona parte abbandonati. Resistono a tutt'oggi alcune comunità ancora legate a quella terra: i cristiani sono il 3% in Iraq, un po' di più in Egitto e in Siria, ancor meno in Terra Santa.

La loro difesa è stata sempre una priorità per il Papa e la Santa Sede, mentre l'Occidente sembra non porsi affatto il problema delle ricadute delle proprie scelte sulle minoranze cristiane.

Queste stanno diventando un ostaggio? Sono condannate interamente a emigrare? Di certo la situazione di questi figli d'Oriente non è mai stata tanto drammatica. Il che è un pungolo per l'Occidente. Come lo dovrebbe essere per i musulmani, se non vogliono perdere la ricca pluralità da sempre caratteristica dell'Oriente. Pace, democrazia e sicurezza per tutti possono ancora salvare il vero Medio Oriente, quello di una civiltà della convivenza, ed evitare quell'appiattimento folle e totalitario provocato dal terrorismo islamico. La presenza dei cristiani in Iraq ci ricorda che quella società ha una storia tanto più ricca dei fantasmi delle pulizie etniche e religiose.

 
Intervista a Mons. Warduni: «Gli attacchi alle chiese non sono opera di iracheni»                                                                                               
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«I sentimenti di fratellanza con la comunità musulmana sono solidi e forti e sono tante le cose che ci tengono uniti: un solo Dio, la preghiera. I problemi non sono tra la gente, sono altrove. Questi estremisti vogliono solo rendere la vita insopportabile e creare rancore»

Non dobbiamo cadere nella trappola, non dobbiamo fare il loro gioco: monsignor Shlemon Warduni, vescovo ausiliare del Patriarcato di Babilonia dei Caldei a Baghdad, invita allo sforzo, grande nel dolore dopo gli attacchi alle chiese cristiane, di guardare un po' più in là. Il bersaglio, spiega, è il processo di pace, la stabilizzazione del Paese. Non si tratta, sottolinea, di ostilità specifica contro una comunità.
Non i cristiani in quanto tali, dunque. Non i cristiani in quanto occidentali.
Sono convinto che gli attacchi di domenica rientrino in un piano più grande: una strategia diffusa e coordinata dall'esterno che punta ad ostacolare il lavoro del nuovo governo. Seminare disgregazione è l'arma migliore per questo progetto criminale, ecco perché hanno mirato anche alle chiese cristiane.
Nel passato, però, c'erano stati segnali di pericolo: erano stati rapiti bambini cristiani, attaccati negozi gestiti da cristiani.
Certo, abbiamo avuto molte difficoltà. Ma chi vive dentro la comunità, anzi dentro le comunità cristiana e musulmana, ha capito presto che quei segnali non indicavano una minaccia interna e diretta, che si trattava di un altro disegno. Facevano saltare i magazzini cristiani di alcolici, ma probabilmente li avrebbero attaccati lo stesso anche se fossero stati gestiti da musulmani. Questi terroristi vogliono solo rendere la vita insopportabile alla gente irachena, creare rancore.
Di fatto ora la comunità cristiana è spaventata. Si temono rapimenti, nuove aggressioni.
Ma c'è anche fiducia. I sentimenti di fratellanza con la comunità musulmana sono solidi e forti e sono tante le cose che ci tengono uniti: un solo Dio, la preghiera. I problemi non sono tra la gente. Sono altrove.
Per esempio?
Lei lascerebbe l'Italia con i confini aperti per un anno e tre mesi? Ecco: l'Iraq non ha confini dalla fine della guerra, il maggio scorso: entra chiunque. Entrano i terroristi. La comu nità internazionale deve assumersi la responsabilità di proteggere l'Iraq, di chiuderne i confini, come quelli di tutti gli altri Stati: lo chiediamo, inascoltati, da mesi. Cos'ha fatto di male questo Paese per meritare di essere così scoperto? Perché lo lasciano in queste condizioni?
Secondo lei?
Non riesco a spiegarmelo, davvero. Io so solo che questo è un Paese vivo e ricco. Di risorse e di cultura. Seimila anni di storia che stanno per essere sprecati in pochi mesi perché non si vuol fare la cosa più importante: dare all'Iraq l'opportunità di cacciare i terroristi che sono arrivati da fuori e impedire che ne entrino altri.
È utile la permanenza delle truppe straniere?
Solo se i militari si mettono nella prospettiva di servire la popolazione, rispettandola, proteggendola. Come fanno gli italiani a Nasiriyah.
Oltre alla protezione dei confini, quali sono gli altri interventi da attuare subito per aiutare l'Iraq?
Bisogna raccogliere le armi che sono in mano alla gente. E bisogna fare in modo che quando i criminali vengono arrestati, non siano rilasciati dopo qualche giorno.
I leader religiosi musulmani hanno condannato gli attacchi di domenica. È una presa di distanza sincera?
Non posso leggere nei cuori, ma spero di sì. Dopo gli attentati, molti capi musulmani sono venuti a farci le condoglianze, ci hanno espresso sentimenti di grande solidarietà, ci hanno riconfermato la volontà di proseguire sulla strada del dialogo. Questo ci ha commossi e per noi ha significato molto.
Intendete chiedere protezione per la comunità cristiana, adesso?
Credo sia opportuno chiedere qualche misura di sicurezza per le chiese, per i luoghi santi. Ma senza esagerare, questa è la mia più grossa preoccupazione. Dare forma e visibilità alla paura, ingigantirla, significa fare esattamente quello che loro vogliono. Significa offrire loro il terreno adatto per seminare orrore. Significa andare esattamente nella direzione opposta a quella della pace, dell'amicizia. Del perdono.
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[Fonte: Avvenire del 4 agosto 2004]

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