Il Novecento - ricordiamo - si era aperto con la
tragedia dei cristiani d'Oriente massacrati nell'Anatolia turca,
deportati nel deserto siriano, e uccisi in Mesopotamia. Gli armeni
allora pagarono un pesante tributo di sangue. Ma anche i caldei, i
siriaci, gli assiri furono duramente colpiti. Si infranse allora per
sempre un'antica convivenza con i musulmani, mai facile ma resistente
nei secoli. Le potenze occidentali si erano arrogate il diritto di
protezione verso i cristiani rispetto all'autorità ottomana e avevano
così complicato ancora di più la situazione dei loro protetti. Subito
dopo la prima guerra mondiale, assiri e caldei dell'Iraq si resero
amaramente conto che la Gran Bretagna non avrebbe rispettato le promesse
loro fatte durante il conflitto. L'Occidente infatti non aveva - e non
ha - interesse per una politica "filo-cristiana". Ma questo i
terroristi islamici (che hanno colpito le chiese domenica) nella loro
demente semplificazione non lo vogliono capire.
In realtà questi cristiani, in buona parte arabofoni,
sono figli del mondo orientale e vivono in quelle terre da prima
dell'islam. Sono espressione di un mondo in cui, nonostante le
difficoltà, si stava insieme tra musulmani, ebrei e cristiani.
Gli ebrei risultano completamente scomparsi dal mondo
musulmano con la nascita d'Israele e per effetto dell'antisemitismo
islamico. Sono rimasti i cristiani, amici del mondo musulmano e tanto
identificati con questo Oriente. Hanno avuto una funzione storica di
mediatori tra l'Oriente musulmano e l'Occidente. Si pensi al Libano. I
cristiani hanno creduto nel nazionalismo arabo, anche quello del Baath:
gli sembrava una difesa nei confronti dell'islamizzazione.
Dagli anni Venti del secolo scorso si incamminavano
però sulla via dell'emigrazione: il che sta a dire che sentivano la
loro vita in Oriente messa sempre più a rischio. Addirittura il
Patriarca assiro vive negli Stati Uniti, e grandi comunità cristiane
orientali si sono formate in Occidente. E così gli antichi monasteri e
le chiese (dove si celebrava una liturgia, quella siriaca e caldea,
vicina alla cultura ebraico-aramaica) risultano non da oggi per buona
parte abbandonati. Resistono a tutt'oggi alcune comunità ancora legate
a quella terra: i cristiani sono il 3% in Iraq, un po' di più in Egitto
e in Siria, ancor meno in Terra Santa.
La loro difesa è stata sempre una priorità per il
Papa e la Santa Sede, mentre l'Occidente sembra non porsi affatto il
problema delle ricadute delle proprie scelte sulle minoranze cristiane.
Queste stanno diventando un ostaggio? Sono condannate
interamente a emigrare? Di certo la situazione di questi figli d'Oriente
non è mai stata tanto drammatica. Il che è un pungolo per l'Occidente.
Come lo dovrebbe essere per i musulmani, se non vogliono perdere la
ricca pluralità da sempre caratteristica dell'Oriente. Pace, democrazia
e sicurezza per tutti possono ancora salvare il vero Medio Oriente,
quello di una civiltà della convivenza, ed evitare quell'appiattimento
folle e totalitario provocato dal terrorismo islamico. La presenza dei
cristiani in Iraq ci ricorda che quella società ha una storia tanto
più ricca dei fantasmi delle pulizie etniche e religiose.
Intervista a Mons. Warduni: «Gli attacchi alle chiese non sono opera di iracheni»
torna su
«I sentimenti di fratellanza con la comunità musulmana sono solidi e forti e
sono tante le cose che ci tengono uniti: un solo Dio, la preghiera. I problemi non sono tra la gente, sono altrove.
Questi estremisti vogliono solo rendere
la vita insopportabile e creare rancore»
Non dobbiamo cadere nella trappola, non dobbiamo fare il loro gioco: monsignor Shlemon
Warduni, vescovo ausiliare del Patriarcato di Babilonia dei Caldei a Baghdad, invita allo sforzo, grande nel dolore dopo
gli attacchi alle chiese cristiane, di guardare un po' più in là. Il bersaglio, spiega, è il processo di pace, la
stabilizzazione del Paese. Non si tratta, sottolinea, di ostilità specifica contro una comunità.
Non i cristiani in quanto tali, dunque. Non i cristiani in quanto occidentali.
Sono convinto che gli attacchi di domenica rientrino in un piano più grande: una strategia diffusa e coordinata
dall'esterno che punta ad ostacolare il lavoro del nuovo governo. Seminare disgregazione è l'arma migliore per questo
progetto criminale, ecco perché hanno mirato anche alle chiese cristiane.
Nel passato, però, c'erano stati segnali di pericolo: erano stati rapiti bambini cristiani, attaccati negozi gestiti
da cristiani.
Certo, abbiamo avuto molte difficoltà. Ma chi vive dentro la comunità, anzi dentro le comunità cristiana e
musulmana, ha capito presto che quei segnali non indicavano una minaccia interna e diretta, che si trattava di un altro
disegno. Facevano saltare i magazzini cristiani di alcolici, ma probabilmente li avrebbero attaccati lo stesso anche se
fossero stati gestiti da musulmani. Questi terroristi vogliono solo rendere la vita insopportabile alla gente irachena,
creare rancore.
Di fatto ora la comunità cristiana è spaventata. Si temono rapimenti, nuove aggressioni.
Ma c'è anche fiducia. I sentimenti di fratellanza con la comunità musulmana sono solidi e forti e sono tante le
cose che ci tengono uniti: un solo Dio, la preghiera. I problemi non sono tra la gente. Sono altrove.
Per esempio?
Lei lascerebbe l'Italia con i confini aperti per un anno e tre mesi? Ecco: l'Iraq non ha confini dalla fine della
guerra, il maggio scorso: entra chiunque. Entrano i terroristi. La comu nità internazionale deve assumersi la
responsabilità di proteggere l'Iraq, di chiuderne i confini, come quelli di tutti gli altri Stati: lo chiediamo,
inascoltati, da mesi. Cos'ha fatto di male questo Paese per meritare di essere così scoperto? Perché lo lasciano in
queste condizioni?
Secondo lei?
Non riesco a spiegarmelo, davvero. Io so solo che questo è un Paese vivo e ricco. Di risorse e di cultura. Seimila
anni di storia che stanno per essere sprecati in pochi mesi perché non si vuol fare la cosa più importante: dare
all'Iraq l'opportunità di cacciare i terroristi che sono arrivati da fuori e impedire che ne entrino altri.
È utile la permanenza delle truppe straniere?
Solo se i militari si mettono nella prospettiva di servire la popolazione, rispettandola, proteggendola. Come fanno
gli italiani a Nasiriyah.
Oltre alla protezione dei confini, quali sono gli altri interventi da attuare subito per aiutare l'Iraq?
Bisogna raccogliere le armi che sono in mano alla gente. E bisogna fare in modo che quando i criminali vengono
arrestati, non siano rilasciati dopo qualche giorno.
I leader religiosi musulmani hanno condannato gli attacchi di domenica. È una presa di distanza sincera?
Non posso leggere nei cuori, ma spero di sì. Dopo gli attentati, molti capi musulmani sono venuti a farci le
condoglianze, ci hanno espresso sentimenti di grande solidarietà, ci hanno riconfermato la volontà di proseguire sulla
strada del dialogo. Questo ci ha commossi e per noi ha significato molto.
Intendete chiedere protezione per la comunità cristiana, adesso?
Credo sia opportuno chiedere qualche misura di sicurezza per le chiese, per i luoghi santi. Ma senza esagerare,
questa è la mia più grossa preoccupazione. Dare forma e visibilità alla paura, ingigantirla, significa fare
esattamente quello che loro vogliono. Significa offrire loro il terreno adatto per seminare orrore. Significa andare
esattamente nella direzione opposta a quella della pace, dell'amicizia. Del perdono.
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[Fonte: Avvenire del 4 agosto 2004]
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