L‘icona ritrae la
Vergine con Gesù bambino ed era in origine conservata nel
monastero russo di Kazan, capitale del Tatarstan, regione lungo il
corso centrale del Volga.
Nel 1209, durante l'invasione dei tartari, l'icona sparì, per
ricomparire quasi quattro secoli dopo, nel 1579.
Nel 1904 scomparve di nuovo, rubata, finché nel 1960 fu
acquistata da un collezionista degli Stati Uniti che la donò al
santuario mariano di Fatima.
Nel 1993, grazie a una sottoscrizione di due milioni di dollari da
parte dell'organizzazione cattolica internazionale “Armata
Azzurra”, allora presieduta dal vescovo americano Edward Michael
Egan, l'icona fu data a Giovanni Paolo II.
E ora il papa la riconsegna alla Russia. La riporterebbe là
volentieri di persona – già nel 2003 ci provò, come tappa di
un suo progettato viaggio in Mongolia, poi annullato – ma dal
patriarcato di Mosca il vicepresidente del dipartimento esteri, l’arciprete
Vsevolod Chaplin, ha fatto sapere che “le questioni della visita
del papa in Russia e della restituzione dell’icona alla Chiesa
ortodossa non possono essere confuse”.
Dal patriarcato sono stati espressi dubbi anche sull’autenticità
dell’opera, che sarebbe non l’originale ma una copia del
Cinquecento. E incerta è anche la sua collocazione finale. La
riconsegna avverrà a Mosca. Ma da Kazan il sindaco Kamil Ischakov
reclama l’icona per la cattedrale dell’Annunciazione, in
occasione dei mille anni della fondazione della città che saranno
celebrati nell’agosto 2005.
Ischakov è musulmano, come metà della popolazione del Tatarstan.
Ma la sua venerazione per la Madre di Gesù non deve sorprendere.
Il Tatarstan è oggi un prezioso modello di convivenza pacifica
fra le tre fedi che altrove nel mondo sono quasi ovunque in
contrasto: l’islamica, la cristiana e l’ebraica. E anche di
buon vicinato tra ortodossi e cattolici.
È il modello che trovi descritto in questo reportage di un
viaggiatore italiano, cattolico, che è tornato da poco da quella
regione. L’articolo è apparso sul quotidiano “il Foglio” di
sabato 31 luglio 2004, a firma di Pigi Colognesi:
torna su
Kazan,
Tatarstan, estate 2004. Come islamici, cristiani ed ebrei hanno
fatto pace
Visto dal lato del Volga, il cremlino della città offre l’immagine
immediata ed efficace dell’attuale Tatarstan e dei motivi per i
quali i suoi governanti vanno orgogliosi del proprio modello.
Sullo sfondo del cielo si stagliano a sinistra le cupole azzurre
della cattedrale ortodossa. Come la stragrande maggioranza degli
edifici di culto era stata sottratta ai credenti in epoca
sovietica, e ora è in restauro. Tutti qui sperano che le mura
della cattedrale possano ospitare la più importante e nota icona
della città, quella Madonna di Kazan, oggi in Vaticano, che
Giovanni Paolo II ha donato al patriarcato di Mosca in segno di
riappacificazione e volontà di dialogo con gli ortodossi.
Sulla destra incombe la possente mole della nuova moschea, col suo
cupolone e i quattro minareti al cui culmine brillano mezzalune d’oro.
Prima che arrivasse Ivan il Terribile, dicono gli storici tatari,
qui una moschea c’era già, ed è giusto che si torni a
costruirne una nuova per i fedeli di Maometto. Così come in
cattedrale, anche in moschea fervono i lavori. Entrambe devono
essere pronte per il 30 agosto 2005, giorno in cui si celebrerà
solennemente il millennio di fondazione della città.
Tra la cattedrale e la moschea, vasti edifici di stile
neoclassico. Sono i palazzi del potere statale, uffici e dimora
dell’indiscusso protagonista della vita politica del Tatarstan,
il presidente della repubblica Mintimer Saripovic Saimiev. A lui
si deve la lungimirante politica di equidistanza che mantiene in
rispettoso equilibrio le due principali comunità della
repubblica: i russi di religione ortodossa e i tatari di fede
islamica.
Il Tatarstan è grande circa come l’Irlanda e occupa un
territorio situato pressappoco a ottocento chilometri a est di
Mosca. La popolazione è di meno di 4 milioni di abitanti, dei
quali oltre un milione e centomila vivono nella capitale. La metà
circa sono russi ortodossi, l’altra metà tatari musulmani.
All’inizio degli anni Novanta la convivenza tra le due etnie non
era facile; soprattutto in campo tataro erano forti il desiderio
di indipendenza da Mosca e il revanscismo etnico e religioso. Fu
Saimiev a capire che la situazione sarebbe potuta diventare
esplosiva e portare la repubblica a una crisi di tipo ceceno.
Ottenne da Mosca un’ampia autonomia politica ed economica; andò
incontro a gran parte delle richieste dei nazionalisti tatari (uso
della lingua, insegnamento della cultura tradizionale,
ricostruzione dei luoghi di culto), senza però dimenticare le
esigenze dei russi. Sta di fatto che le frange più estremiste
furono messe a tacere (persino i “missionari” arabi che erano
giunti in Tatarstan per diffondervi il fondamentalismo
abbandonarono l’impresa) e attualmente la convivenza tra le due
maggiori comunità del paese è del tutto pacifica. Come i palazzi
del cremlino, così le leggi e le decisioni politiche tengono in
stabile equilibrio cattedrale e moschea. [...]
Nella centrale via Bauman sorge il cosiddetto “battistero”,
che ricorda la forzata cristianizzazione imposta dai russi dopo la
conquista. Ora ci sono negozi e una piccola sala da concerti. Ai
tatari non piace molto questo ingombrante monumento. Sta a
ricordare un passato fatto di vessazioni e contrasti. Prima i
tatari, convertitisi all’islam nel 922, hanno sottomesso i
cristiani e imposto tributi agli ortodossi per secoli. Poi gli
ortodossi hanno limitato la libertà religiosa degli islamici e
imposto a molti la fede con la forza, fino a quando Caterina II ha
loro ridato un minimo di libertà. Infine i sovietici hanno
azzerato tutto. E ora che una certa pace è stata conquistata
nessuno ha intenzione di riaprire il capitolo delle rivendicazioni
storiche. Anzi, nel segno della più completa riappacificazione,
si vorrebbero riconoscere i torti di tutti per lasciarseli alle
spalle. Così, se in mezzo al fiume Kazanka i russi avevano eretto
un memoriale alle vittime cristiane della conquista di Kazan, ora
il presidente, tataro, vuol farne costruire uno per le vittime
islamiche.
Proprio di questa politica pacificatrice va orgogliosa Ludmila
Andreeva, vice presidente della duma di Kazan con particolari
deleghe ai problemi nazionali e religiosi, che sciorina tutti i
dati che confermano il successo degli sforzi: scuole bilingue,
insegnamenti specifici per ogni entità nazionale, spazi
televisivi per tutti, rispetto delle differenti festività,
restituzione e restauro degli edifici di culto. “Tutti i nostri
visitatori, conclude soddisfatta, sono sorpresi per la tolleranza
che si respira in città. Questo fa di Kazan un esempio per tutto
il mondo”.
Anche Valiulla Chazrat Jakupov, vice presidente dell’organizzazione
che raccoglie tutti i musulmani del Tatarstan, è soddisfatto.
Descrive il proprio paese come un “luogo eccezionale nel mondo,
dove la tolleranza ha superato la prova del tempo e dove da
decenni neppure una goccia di sangue è stata versata per
conflitti interetnici o interreligiosi”.
IL MUFTI MUSULMANO
Il giovane vice mufti, impeccabilmente vestito alla occidentale,
spiega come il miracolo della tolleranza si sia potuto realizzare.
“La prima ragione riguarda la qualità stessa dell’islam che
noi professiamo, che è di carattere tollerante per il fatto che
il nostro popolo ha accettato questa religione in modo del tutto
spontaneo, senza nessuna imposizione. Mentre altri popoli sono
stati forzati ad accettare la fede di Maometto, per noi l’accoglienza
della proposta che ci è arrivata più di mille anni fa dal
califfato di Baghdad è stata del tutto libera, consapevole e di
alto livello intellettuale. Analogamente va ricordato che nei
nostri confronti i russi hanno sì tentato delle conversioni
forzate, ma non hanno mai messo in atto una politica di genocidio
o di deportazione. Il periodo più pesante è stato – per noi
come per gli ortodossi – quello sovietico; delle 14.500 moschee
che c’erano in Tatarstan all’inizio del XX secolo ne
rimanevano, alla fine del dominio bolscevico, solo 80. Certamente
ora il nostro problema è quello educativo: il 90 per cento dei
tatari si ritiene musulmano, ma si tratta più di una tradizione
etnica che di una fede convinta. I frequentatori delle moschee
sono una percentuale notevolmente più bassa. È facile costruire
le moschee, non altrettanto educare la fede della gente. Per
questo stiamo puntando sulle scuole per la formazione dei mullah e
degli insegnanti. I nostri rapporti con gli ortodossi sono
attualmente molto cordiali anche grazie ai buoni uffici del
governo; abbiamo persino dei progetti sociali comuni o, almeno,
concordati. Analogamente siamo in buoni contatti anche con altre
minoranze religiose; solo con le nuove sette finanziate dall’estero
c’è qualche difficoltà. Noi non accettiamo nessun tipo di
fondamentalismo. Qualcuno chiama il nostro ‘euroislam’ perché
noi crediamo che gli insegnamenti del Corano si possano sposare
con la tolleranza e la democrazia. Qualche esempio? Tutte le
nostre cariche sono elettive; questo significa che per noi lo
spirito democratico è insito nella religione che professiamo.
Anche rispetto alle donne noi siamo molto liberali: nessun obbligo
di veli o cose simili; addirittura abbiamo delle scuole per la
formazione delle ragazze”.
Nessuno obietta che questa interpretazione dell’islam sia un po’
eretica? Il vice mufti sorride: “Niente affatto. È il Corano ad
affermare che la religione deve essere libera. Se un musulmano
abbandona la nostra fede per abbracciarne un’altra, noi non ci
opponiamo alla sua scelta; ci interroghiamo su che cosa noi stessi
non abbiamo fatto o abbiamo sbagliato tanto da indurlo a questa
decisione”.
IL METROPOLITA ORTODOSSO
Il pastore della metà ortodossa del paese si chiama Anastasij.
Non vive né nella cattedrale del cremlino in ricostruzione, né
nella storica sede presso la baroccheggiante chiesa dedicata ai
santi Pietro e Paolo, ma nel seminario. Si capisce subito che per
lui il bene più prezioso sono i futuri sacerdoti ai quali è
affidata la responsabilità di rivitalizzare una situazione
religiosa pesantemente compromessa da decenni di ateismo
militante. Qui come in tutto il resto della Federazione la
stragrande maggioranza dei russi si dichiara ortodossa. Ma,
specularmente a quanto accade ai tatari nei confronti dell’islam,
la frequenza ai riti è minima e la rispondenza ai dettami morali
della fede assolutamente insoddisfacente. Anche Anastasij afferma
che la politica governativa ha dato buoni frutti, ma non dipinge
un quadro completamente a tinte pastello. A suo parere un certo
favore verso i musulmani si può registrare. A conferma della sua
tesi espone i numeri delle moschee restaurate o ricostruite:
1.300, a fronte delle chiese ortodosse: 150. “Il problema degli
spazi è decisivo per noi, perché senza strutture non possiamo di
fatto impostare nessun tipo di lavoro educativo, soprattutto verso
i giovani”.
Il vescovo ci accompagna in visita al seminario, la sua creatura
più cara. Ci sono ottanta giovani che si stanno preparando al
sacerdozio (occorrono cinque anni per diventare preti) e si sta
approntando una struttura per le ragazze (molte di esse
diventeranno le mogli dei preti). Ci sono biblioteche (con un
importante deposito di libri antichi), una grande sala conferenze,
persino un’aula computer. Anastasij conferma che i rapporti con
i musulmani sono molto buoni, anche perché “entrambi dobbiamo
affrontare gli stessi problemi legati alla perdita del senso
religioso, al decadimento morale, alle difficoltà sociali ed
economiche. Come loro dobbiamo anche noi opporci all’invadenza
incredibile delle sette”.
Gli chiediamo se sarebbe stato contento di ospitare Giovanni Paolo
II che nel 2003 voleva consegnare di persona l’icona della
Madonna di Kazan. Anastasij si schermisce e sostiene che questi
sono problemi di politica ecclesiastica che ben volentieri lascia
ai suoi superiori di Mosca. A lui basta fare il suo lavoro in
pace. Mosca è lontana e il vescovo di Kazan non ha certamente
nulla di quella prevenzione anticattolica che spesso si respira
nella capitale. Anzi, dichiara di essere molto amico del parroco
cattolico della città e di collaborare con lui molto
fruttuosamente.
IL PARROCO CATTOLICO
Ortodossi e musulmani non occupano per intero il panorama
religioso del Tatarstan. Tra le minoranze spicca la parrocchia
cattolica, da nove anni affidata a un sacerdote argentino, padre
Diogenes Urquiza, della congregazione del Verbo incarnato.
Tradizionalmente la comunità cattolica è composta da stranieri
giunti fin qui per le più svariate ragioni: lavoro, deportazione,
matrimonio, affari. Non possiedono ancora una chiesa, ma il comune
sta deliberando di assegnare loro – in conformità alla politica
generale di equidistante collaborazione con tutte le confessioni
– un terreno nei pressi del centralissimo campo di basket.
Padre Diogenes ci accompagna in mezzo a ruderi di case diroccate
fino a sbucare in uno spiazzo pieno di erbacce in mezzo al quale
campeggia una croce. “Qui sorgeranno la chiesa cattolica e la
casa parrocchiale”, dice soddisfatto. “C’è ancora qualche
opposizione da parte della Chiesa dei Vecchi Credenti (uno scisma
interno all’ortodossia), che hanno una loro chiesa qui di
fianco, ma dovrebbero essere presto superate. Così potremo
migliorare la nostra attuale collocazione, che è francamente
piuttosto disagevole”. Altro che disagevole! L’antica e
spaziosa chiesa cattolica è stata adibita in epoca sovietica a
ospitare una turbina per le simulazioni del vento, che ora non si
può più smontare, e l’attuale chiesa provvisoria è una
cappella collocata all’interno del cimitero. “A parte che si
tratta di una posizione piuttosto scomoda da raggiungere (ci sono
dei fedeli che fanno ore di autobus e tram per arrivarci), il
problema è che lo spazio è esiguo per le numerose attività che
vorremmo fare. E poi, pensi a celebrare un battesimo o un
matrimonio dentro il recinto di un cimitero!”.
DA MUSULMANA A SUORA
Ma non sono certo queste le cose che possono fermare l’iniziativa
del giovane parroco, da qualche anno affiancato da due
confratelli. Nessuna attività di proselitismo (tanto per usare l’aborrita
parola che il patriarcato di Mosca sempre sventola per attaccare i
cattolici), ma neppure rinuncia all’attività missionaria. Ci
sono episodi di conversione, soprattutto dall’islam. Padre
Diogenes ricorda il caso di un funzionario pubblico musulmano che
era andato a trovarlo in visita di cortesia per la festa di
Pasqua. Con la figlia. La quale è stata affascinata dalla
liturgia cattolica e ha cominciato a fare domande su Gesù. Dopo
un periodo di adeguata formazione, ha voluto il battesimo. Il
padre si è comprensibilmente allarmato e ha chiesto al parroco di
soprassedere almeno fino a quando la ragazza non avesse finito gli
studi. Probabilmente pensava a una infatuazione giovanile, che
sarebbe ben presto passata. Quando, però, la giovane ha deciso
definitivamente di battezzarsi, il padre non ha opposto
resistenza. Sarà pure che il “modello di convivenza” del
Tatarstan è un fattore di propaganda del governo; sta di fatto
che una tolleranza di questo tipo nella quasi totalità dei paesi
a maggioranza islamica è del tutto impensabile. La giovane ex
musulmana ora si prepara a diventare suora.
ORTODOSSI E CATTOLICI ASSIEME
Sul fronte dei rapporti cattolico-ortodossi la situazione di Kazan
è lontana mille miglia dalle asprezze che si respirano a Mosca.
Già abbiamo detto dell’amicizia tra padre Diogenes e il
metropolita Anastasij, ma anche a livello parrocchiale succedono
cose sorprendenti. Una sera prendiamo la macchina e con padre
Diogenes ci avviamo al lager. Con questa triste parola in Russia
oggi si indica semplicemente il campeggio estivo dei ragazzi.
Arriviamo a una vecchia struttura sovietica, col ritratto di Lenin
che campeggia sull’entrata. In baracche malamente riadattate a
dormitorio e cucina, una trentina di bambini si prepara alla festa
conclusiva del campeggio. La cosa che colpisce è che sono ragazzi
della parrocchia cattolica e di quella ortodossa assieme. Quando
il programma prevedeva il catechismo, l’hanno fatto assieme se
la lezione non presentava difficoltà dogmatiche, e separati se c’era
qualcosa di specifico da spiegare.
Poco prima della festa attorno al fuoco arriva anche padre Ioann,
il parroco ortodosso, accompagnato dalla biondissima moglie e dall’ultima
dei quattro figli (i primi due – come da tradizione – sono in
seminario e la terza ha partecipato al campeggio). È un fiume in
piena, padre Ioann, e ci tiene a far sapere che lui è orgoglioso
della collaborazione con il prete cattolico ed è ben contento di
riaffermare così un’unità sostanziale tra le due confessioni.
Alla fine vuole sigillare con il più classico dei brindisi russi
la sua amicizia con i cattolici, compresi il giornalista che è
arrivato dall’Italia e chi lo accompagna per le traduzioni. In
una precaria sala da pranzo minacciata da insetti di tutti i tipi,
alza la tazza di plastica che funge da calice e brinda all’amicizia
con padre Diogenes e i suoi confratelli. Se anche i suoi due
figli, futuri preti, saranno come lui, ci saranno più spazi di
dialogo e libertà per tutti.
I DIECIMILA EBREI
Altra minoranza importante di Kazan è quella ebraica. La
sinagoga, con annesso centro culturale, scuola e sala riunioni, è
molto ben tenuta e in stile occidentale. La direttrice del centro
ebraico ci dice che i ragazzi che frequentano la scuola media sono
circa 500, e altrettanti quelli del centro giovanile. In tutto la
comunità ebraica di Kazan assommerebbe a circa diecimila persone.
Ovviamente, commenta il barbuto rabbino capo, di nome di Yitzchak
Gorelik, la frequenza alla sinagoga per molti è solo celebrazione
di momenti centrali dell’esistenza: matrimoni e funerali. Anche
lui è soddisfatto della tollerante politica governativa che
consente ai credenti di tutte le religioni di “sentirsi a Kazan
come a casa propria. Certo, non possiamo pregare assieme ai fedeli
di altre religioni, ma ci rispettiamo vicendevolmente. Sono qui da
sette anni e non ricordo un solo episodio in cui noi ebrei siamo
stati offesi in qualche modo”. [...]
Il nostro viaggio si conclude con l’incontro con Igor Kornilov,
responsabile del “soviet po delam religij” la consulta per gli
affari religiosi. Il suo ufficio è nella torre d’entrata al
cremlino e ci riceve con in mano un sacco di dati statistici sulla
situazione delle religioni in Tatarstan e qualche pubblicazione
scientifica. Anche all’obiezione che ci sia di fatto una
preferenza statale per i musulmani ha una risposta pronta: “Perché
ci sono più moschee che cattedrali? Costruire una moschea è più
facile ed economico. E poi l’organizzazione musulmana è
distribuita più capillarmente di quella cristiana, per cui una
moschea è necessaria per un ambito più ristretto di quanto
richieda l’organizzazione territoriale ortodossa”.
Forse non è proprio così. Ma ciò che importa è che, se il
Tatarstan non è il paradiso in terra, almeno è una strada di
convivenza che finora si è dimostrata percorribile e fruttuosa
per tutti.
___________________
[Fonte: Il Foglio 31 luglio 2004]
L'abbraccio di
Mosca all'icona ritrovata
torna su
Il patriarca
Alessio II ieri (29 agosto ndr) ha accolto l'effige della
Vergine di Kazan nella chiesa della Dormizione a Mosca, affollata
oltre ogni previsione. Caloroso il grazie del popolo russo a
Giovanni Paolo II
Tutti a sporgersi
per vederla. Nonni, e figli, e nipoti. I piccoli, tanti,
tantissimi, in braccio ai grandi. Gli occhi che cercano di
penetrare il muro compatto di telecamere ronzanti e macchine
fotografiche, che sparano scatti come mitragliatrici. Occhi che
diventano lucidi in fretta quando l'icona viene sollevata in alto,
e mostrata alla folla che gremisce la chiesa moscovita
dell'Assunzione, al Cremlino. Che quasi ne scala le colonne per
guadagnarsi un angolo visivo migliore. Un drappo di folla che
quasi la fodera tutta. Per vederla finalmente. È proprio lei.
L'icona di Kazan è tornata. Eccola, la kazanskaya. Spassiba.
Grazie. Si sprecano, i «grazie». Mille volte grazie. C'è quello
«grande», ufficiale, del Patriarca Alessio II, per il «dono»
di un'immagine che «ci ricorda i tempi in cui la cristianità non
era divisa», e che «testimonia - aggiunge "a braccio",
togliendosi gli occhiali e sollevando gli occhi dai fogli del
discorso - la volontà del Vaticano di tornare a rapporti di
rispetto tra le nostre Chiese e anche l'intenzione di aiutarci
l'un l'altro». E ci sono i tanti «grazie» della gente comune,
che all'uscita della lunga cerimonia, durata quattro ore, quasi
rincorreva i membri della delegazione vaticana per stringere loro
la mano: Spassiba, spassiba!
E non solo
credenti. Come l'anziana che, baciata la mano a uno di loro, gli
dice: «Sono atea, ma grazie, grazie per quello che avete fatto».
Basterebbe questo a spiegare che cosa sia stata, ieri, la
cerimonia al termine della quale il cardinale Walter Kasper, capo
della delegazione vaticana, ha portato ad Alessio II il dono di
Papa Wojtyla. Una spiegazione che va al di là dei discorsi e al
di là del ribadito «la visita del Papa avverrà quando ci
saranno le condizioni, che al momento non ci sono» - come ha
detto il Patriarca.
E va al di là dei
problemi che ancora sussistono perché, ha sottolineato Kasper,
l'icona di Kazan ha «radunato le due parti della cristianità»,
anche in presenza di «spiacevoli malintesi». Perché davvero il
dono di Giovanni Paolo II sembra essere andato diritto al cuore di
questo popolo, che «ha recepito nel profondo - ha commentato il
portavoce vaticano Joaquin Navarro Valls - la gratuità del
gesto». Un atto svincolato da ogni tipo di condizione se non
quella, appunto, del dono in sé. Giustamente Navarro ha osservato
come il momento vissuto ieri «è destinato a venire ricordato
come storico».
Che del resto fosse
importante per i Russi lo aveva annunciato chiaramente il contesto
scelto dal patriarcato di Mosca per la cerimonia: intanto il
giorno, 28 agosto, che nel calendario ortodosso corrisponde al
nostro 15 agosto, ossia alla festa dell'Assunzione, e poi la
chiesa, appunto quella dell'Assunzione (o della Dormizione secondo
la dizione ortodossa) all'interno delle mura del Cremlino,
considerata la più importante per la Chiesa e per il popolo
russo. Lo stesso edificio dove venivano incoronati gli zar e si
insediano i patriarchi, e dove molti di questi sono sepolti, tra
cui il predecessore di Alessio II, Pimen. E, tutto ciò, alla
presenza dello stesso Patriarca, che ha presieduto - dovendo farsi
spazio tra la folla, che aveva occupato anche tutti gli spazi
liturgici - il solenne rito cantato, con tutti i celebranti
vestiti con l'azzurro dei colori mariani, durante il quale ha
consacrato un nuovo archimandrita.
Mancava il
presidente Vladimir Putin, che invece avrebbe dovuto esserci,
impedito a partecipare per motivi di sicurezza in una Russia
sempre più pressata dall'incubo del terrorismo. In compenso lo
schieramento dei media russi, dentro e fuori la chiesa, era
davvero impressionate. Si potrebbe dire che tutto, ieri, è stato
un segno di come davvero il «clima è cambiato». Lo ha detto
Alessio II, e già l'aveva detto due settimane fa a Putin, e lo ha
detto Kasper.
Era cambiato prima,
certo, tanto da rendere «maturi i tempi» per far arrivare a
Mosca il dono del Papa; ma tuttavia, a sua volta, lo stesso dono
sembra aver oggi aggiunto un elemento positivo in più. «Dobbiamo
moltiplicare i nostri incontri - ha detto Alessio II dopo
l'incontro privato, al termine della cerimonia, con i cardinali
Kasper e Edgard T. McCarrick - dobbiamo trovarci più spesso,
anche per fronteggiare sfide comuni, come la secolarizzazione e la
perdita dei valori in Europa».
Parole di apertura,
di volontà di "fare" insieme, di andare avanti. Parole
che si aspettavano da tempo, e suffragate adesso da un qualcosa in
più che s'è manifestato anche nell'accoglienza
"privata" riservata alla delegazione vaticana, fatta di
tanti momenti in cui quella volontà, quella apertura, hanno
continuamente trovato occasione per esprimersi.
Davvero un «dono
di grande importanza», come ha ripetuto due volte Alessio II. Che
per il momento «in continuità di devozione» terrà l'icona
della Madre di Kazan - negli ultimi 11 anni custodita nello studio
di Giovanni Paolo II - nella cappella privata della sua residenza
nel monastero di San Danilo. In attesa che si possa definire al
più presto quale dovrà essere la sua sede definitiva, se una
cattedrale a Mosca o forse a Kazan, dove potrebbe tornare anche se
non si tratta dell'originale andata distrutta nel 1904. Di certo,
ovunque andrà nella sua terra finalmente ritrovata, si troverà
bene. Accanto al suo popolo.
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Salvatore Mazza, da Mosca, su
"Avvenire" del 30 agosto 2004