Una riflessione alla luce del magistero ecclesiale
Il sacerdote, per celebrare con arte il servizio liturgico, non deve
ricorrere ad accorgimenti mondani ma concentrarsi sulla verità
dell'eucaristia. L'Ordinamento generale del messale romano stabilisce:
"Anche il presbitero...quando celebra l'eucaristia, deve servire Dio e il
popolo con dignità e umiltà, e, nel modo di comportarsi e di pronunziare le
parole divine, deve far percepire ai fedeli la presenza viva di Cristo". Il
prete non escogita nulla, ma col suo servizio deve rendere al meglio agli
occhi e agli orecchi, ma anche al tatto, al gusto e all'olfatto dei fedeli,
il sacrificio e rendimento di grazie di Cristo e della Chiesa, al cui
mistero tremendo possono avvicinarsi quanti si sono purificati dai peccati.
Come possiamo avvicinarci a lui se non abbiamo il sentimento di Giovanni il
precursore: "è necessario che egli cresca e io diminuisca" (Gv 3, 20)? Se
vogliamo che il Signore cammini con noi, dobbiamo recuperare questa
consapevolezza, altrimenti priviamo dell'efficacia il nostro atto devoto:
l'effetto dipende dalla nostra fede e dal nostro amore.
Non è il sacerdote padrone dei misteri
Il sacerdote è ministro, non padrone, amministratore dei misteri: li serve e
non se ne serve per proiettare le proprie idee teologiche o politiche e la
propria immagine, al punto che i fedeli si fermerebbero a lui invece che
guardare a Cristo che è significato dall'altare e presente sull'altare, e in
alto sulla croce. Come ha ammonito recentemente il Santo Padre, la cultura
dell'immagine in senso mondano segna e condiziona anche i fedeli e i
pastori; la televisione italiana, a commento del discorso inquadrava una
concelebrazione nella quale alcuni sacerdoti parlavano al telefonino. Dal
modo di celebrare la messa si possono dedurre molte cose: la sede del
celebrante in molti luoghi ha decentrato croce e tabernacolo occupando il
centro della chiesa, talvolta sovrastando per importanza l'altare, finendo
per assomigliare ad una cattedra episcopale che nelle chiese orientali sta
fuori dell'iconostasi, ad un lato ben visibile. Era così anche da noi prima
della riforma liturgica.
L'ars celebrandi consiste nel servire con amore e timore il Signore:
per ciò si esprime con baci alla mensa e ai libri liturgici, inchini e
genuflessioni, segni di croce e incensazioni di persone e oggetti, gesti di
offerta e di supplica, ostensioni dell'evangelario e della santa eucaristia.
Ora, tale servizio e stile del prete celebrante o, come si ama dire, del
presidente dell'assemblea - termine che porta a fraintendere la liturgia
come un atto democratico - si vede dal suo prepararsi alla vestizione in
sacristia nel silenzio e raccoglimento per l'atto grande che si appresta a
fare; dall'incedere all'altare, che deve essere umile, non ostentato, senza
indulgere nello sguardo a destra e a manca, quasi a cercare l'applauso.
Infatti, il primo atto è l'inchino o la genuflessione davanti alla croce e
al tabernacolo, in sintesi la presenza divina, seguito dal bacio riverente
dell'altare ed eventualmente dall'incensazione; il secondo atto è il segno
di croce e il saluto sobrio ai fedeli; il terzo è l'atto penitenziale, da
compiere profondamente e con gli occhi bassi, mentre i fedeli potrebbero
inginocchiarsi, come nell'antico rito, - perché no? - imitando il pubblicano
gradito al Signore. Le letture saranno proclamate come parola non nostra,
perciò con tono chiaro e umile. Come il sacerdote inchinato chiede di
purificare le labbra e il cuore per annunziare degnamente il vangelo, perché
non potrebbero farlo i lettori, se non visibilmente come nel rito
ambrosiano, almeno in cuor loro? Non si alzerà la voce come in piazza e si
manterrà un tono chiaro per l'omelia ma sommesso e supplice per le
preghiere, solenne se in canto. Il sacerdote si appresterà inchinato a
celebrare l'anafora ancora "in spirito di umiltà e con animo contrito".
Lo stupore eucaristico
Toccherà i santi doni con stupore - lo stupore eucaristico di cui ha parlato
spesso Giovanni Paolo ii - e con adorazione, e i vasi sacri purificherà con
calma e attenzione, secondo il richiamo di tanti padri e santi. Si inchinerà
sul pane e sul calice nel dire le parole di Cristo consacrante e
nell'invocare lo Spirito Santo alla supplica o epiclesi. Li eleverà
separatamente fissando in essi lo sguardo in adorazione e poi abbassandolo
in meditazione. Si inginocchierà due volte in adorazione solenne. Continuerà
con raccoglimento e tono orante l'anafora fino alla dossologia, elevando i
santi doni in offerta al Padre. Reciterà il Padre nostro con le mani alzate
e non tenendo per mano altri, perché ciò è proprio del rito della pace; il
sacerdote non lascerà il sacramento sull'altare per dare la pace fuori del
presbiterio, invece frazionerà l'ostia in modo solenne e visibile, quindi
genufletterà davanti all'eucaristia e pregherà in silenzio chiedendo ancora
di essere liberato da ogni indegnità per non mangiare e bere la propria
condanna e di essere custodito per la vita eterna dal santo corpo e prezioso
sangue di Cristo; poi presenterà ai fedeli l'ostia per la comunione,
supplicando Domine non sum dignus, e inchinato si comunicherà per
primo. Così sarà di esempio ai fedeli.
Dopo la comunione il ringraziamento nel silenzio, meglio che seduti si può
fare in piedi in segno di rispetto o inginocchiati, se è possibile, come ha
fatto fino all'ultimo Giovanni Paolo II, col capo inchinato e le mani
congiunte; al fine di chiedere che il dono ricevuto ci sia rimedio per la
vita eterna, come si dice mentre si purificano i vasi sacri. Molti fedeli lo
fanno e ci sono di esempio. Il sacerdote, dopo il saluto e la benedizione
finale, salendo l'altare per baciarlo, ancora alzi gli occhi alla croce e si
inchini o genufletta al tabernacolo. Quindi torni in sacristia, raccolto,
senza dissipare con sguardi e parole la grazia del mistero celebrato.
Così i fedeli saranno aiutati a comprendere i santi segni della liturgia,
che è una cosa seria, e in cui tutto ha un senso per l'incontro col mistero
presente.
Paolo VI, nell'istruzione
Eucharisticum
mysterium richiama una verità centrale esposta da san Tommaso:
"Questo Sacrificio, poi, come la stessa passione di Cristo, sebbene sia
offerto per tutti, "non ha effetto se non in coloro che si uniscono alla
passione di Cristo con la fede e la carità... Ad essi tuttavia giova più o
meno secondo la misura della loro devozione"". La fede è condizione della
partecipazione al sacrificio di Cristo con tutto me stesso. In che cosa
consiste l'azione dei fedeli, diversamente dal sacerdote che consacra? Essi,
memori, rendono grazie, offrono e, convenientemente disposti, si comunicano
sacramentalmente. L'espressione più intensa è nella risposta all'invito del
sacerdote poco prima dell'anafora: "Il Signore riceva dalle tue mani questo
sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la
sua santa Chiesa".
Senza fede e devozione del sacerdote non sussiste l'ars celebrandi e
non viene favorita la partecipazione del fedele, innanzitutto la percezione
del mistero. Perché il Signore, di noi "conosce la fede e la devozione"
(Canone romano) che si esprimono nei sacri gesti, gli inchini, le
genuflessioni, le mani giunte, lo stare inginocchiati. La mancanza della
devozione nella liturgia, spinge molti fedeli ad abbandonarla e a dedicarsi
a forme di pietà secondarie, allargando la divaricazione tra l'una e le
altre. Poiché la sacra liturgia è un atto di Cristo e della chiesa, non
l'esito della nostra bravura, non prevede il successo a cui applaudire. La
liturgia non è nostra ma sua.
La tradizione della Chiesa
La congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti
nell'istruzione
Redemptionis sacramentum ricorda al sacerdote la promessa
dell'ordinazione, rinnovata di anno in anno nella messa crismale, di
celebrare "devotamente e con fede i misteri di Cristo a lode di Dio e
santificazione del popolo cristiano, secondo la tradizione della Chiesa" (n.
31).
Egli è chiamato ad agire nella persona di Cristo, deve perciò imitarlo
nell'atto sommo della preghiera e dell'offerta, non deve deformare la
liturgia in una rappresentazione delle sue idee, cambiare e aggiungere
alcunché arbitrariamente: "Troppo grande è il mistero dell'eucaristia perché
qualcuno possa permettersi di trattarlo con arbitrio personale, che non ne
rispetterebbe il carattere sacro e la dimensione universale" (Ivi, n. 11).
La messa non è proprietà del prete o della comunità. L'istruzione declina
abbondantemente come va celebrata rettamente la messa cioè l'ars
celebrandi: i seminaristi per primi devono apprenderla attentamente
affinché possano attuarla da sacerdoti.
Benedetto XVI, nella
Sacramentum caritatis dedica attenzione all'ars celebrandi
(n. 38-42), intesa come l'arte di celebrare rettamente, e ne fa la
condizione della partecipazione attiva dei fedeli: "L'Ars celebrandi
scaturisce dall'obbedienza fedele alle norme liturgiche nella loro
completezza, poiché è proprio questo modo di celebrare ad assicurare da
duemila anni la vita di fede di tutti i credenti"(38). In nota 116 la
Propositio n. 25 specifica che "un'autentica azione liturgica esprime la
sacralità del mistero eucaristico. Questa dovrebbe trasparire nelle parole e
nelle azioni del sacerdote celebrante, mentre egli intercede presso Dio
Padre sia con i fedeli sia per loro". Poi l'esortazione ricorda che "L'ars
celebrandi deve favorire il senso del sacro e l'utilizzo di quelle forme
esteriori che educano a tale senso, come, ad esempio, l'armonia del rito,
delle vesti liturgiche, dell'arredo e del luogo sacro" (40). Trattando
dell'arte sacra, richiama l'unità tra altare, crocifisso, tabernacolo,
ambone e sede (41): attenti alla sequenza che rivela l'ordine d'importanza.
Con l'immagine, anche il canto deve servire ad orientare la comprensione e
l'incontro col mistero.
Il vescovo e il presbitero, tutto questo sono chiamati a esprimere nella
liturgia che è sacra e divina, in modo che manifesti davvero il credo della
Chiesa.
(©L'Osservatore Romano - 4-5 agosto 2008)