A sessant'anni dall'enciclica di Pio XII
"Mediator
Dei"
Sulla liturgia confrontarsi senza alcun pregiudizio
Nicola Bux
È in atto una battaglia sulla liturgia: diversamente da quella che agli
inizi del secolo scorso diede origine al movimento liturgico, la materia del
contendere non è appena il rito romano antico.
Tuttavia il Santo Padre ci rassicura: la lotta per la corretta
interpretazione e la degna celebrazione della sacra liturgia è necessaria in
ogni generazione. È grande la posta in gioco: "giungere ad una
riconciliazione interna nel seno della Chiesa" (Lettera
apostolica circa il Motu proprio
Summorum Pontificum, 7
luglio 2007), anche per portare a compimento la riforma liturgica. Lasceremo
cadere l'invito, se amiamo veramente la Chiesa e la sacra liturgia?
Ora, se quanti amano o scoprono la precedente tradizione liturgica devono
anche convincersi "del valore e della santità del nuovo rito", tutti gli
altri dovrebbero riflettere sul fatto che "nella storia della
liturgia c'è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le
generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non
può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato
dannoso".
Le parole di Benedetto XVI richiamano queste altre: "Se da una
parte constatiamo con dolore che in alcune regioni il senso, la conoscenza e
lo studio della liturgia sono talvolta scarsi o quasi nulli, dall'altra
notiamo con molta apprensione che alcuni sono troppo avidi di novità e si
allontanano dalla via della sana dottrina e della prudenza. Giacché
all'intenzione e al desiderio di un rinnovamento liturgico, essi frappongono
spesso principi che, in teoria o in pratica, compromettono questa santissima
causa, e spesso la contaminano di errori che toccano la fede cattolica e la
dottrina ascetica".
Chi le ha scritte è Pio XII, nell'Introduzione dell'enciclica
Mediator Dei. La
logica è la medesima: la tradizione è necessaria e l'innovazione
ineluttabile, ed entrambe sono nella natura del corpo ecclesiale come del
corpo umano.
Non si oppongono ma sono complementari e interdipendenti. Pertanto non
ha senso essere ad oltranza innovatori o tradizionalisti. Semmai bisogna
incontrarsi e confrontarsi senza pregiudizio e con grande carità, ancora
sotto la guida della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei
Sacramenti e con l'aiuto dell'ordine di san Benedetto, entrambi menzionati
nell'enciclica.
Cominciamo proprio dalla Mediator Dei, pubblicata il 20 novembre 1947, dal
servo di Dio Pio XII: il documento dottrinale più importante sulla liturgia
prima del concilio Vaticano II, senza del quale la
costituzione sulla
sacra liturgia, emanata solo sedici anni dopo, il 4 dicembre
1963, non si comprende appieno. Ne è la fonte principale quanto ad
impostazione classica e a contenuti dottrinali e un termine di paragone con
le istanze antiche e nuove della liturgia. Leggendo l'enciclica a
sessant'anni dalla sua promulgazione, si viene aiutati a superare il
pregiudizio verso la Chiesa preconciliare ed anche verso un Papa, definito
dal suo successore Giovanni XXIII: Doctor optimus, Ecclesiae sanctae
lumen, divinae legis ad monitor nella prima enciclica Ad Petri Cathedram.
Sono i tre titoli che un'antifona liturgica del Messale romano conferisce
ai dottori della Chiesa.
Pio XII non si limitò ad enunciare la dottrina mediante l'enciclica, ma fece
seguire le riforme: il permesso di usare le lingue locali accanto al latino
per alcune parti dei riti liturgici in quei paesi europei e latino-americani
dove l'unità cattolica non era a rischio; il permesso a determinate
condizioni di celebrare la messa vespertina (1957), riscoprendo il giorno
liturgico; la revisione delle norme sul digiuno eucaristico (1953) e le
indicazioni per il rinnovamento della musica sacra sulle orme di san Pio X.
È noto che già nel 1946 "Pio XII aveva istituito una commissione per la
riforma generale della liturgia, che avrebbe iniziato i propri lavori nel
1948 e che, nel 1959, sarebbe confluita nella commissione preparatoria del
concilio per la liturgia.
Non è dunque fuori luogo affermare che la costituzione sulla liturgia del
Vaticano II aveva cominciato ad essere predisposta fin dal 1948, prendendo
spunto dall'enciclica" (Andrea Tornelli, Pio XII. Eugenio Pacelli, un
uomo sul trono di Pietro, Milano, 2007, pagina 510). L'approfondito
lavoro preparatorio eviterà al progetto di costituzione conciliare, a
differenza di tutti gli altri, la bocciatura. Tutto questo prende avvio
dall'enciclica Mediator Dei, e farebbero attribuire al grande pontefice
anche il titolo di divini cultus instaurator.
Culmine e fonte
Il culto o la liturgia avviene soltanto per, con e in Gesù Cristo:
diversamente non arriva a Dio Padre per adorarlo e nemmeno a noi per
santificarci. Quindi non la facciamo noi e ciò spiega l'esordio
dell'enciclica: ""Il Mediatore tra Dio e gli uomini" (1 Timoteo, 2, 5), il
grande pontefice che penetrò i cieli, Gesù Figlio di Dio (cfr Ebrei, 4, 14)
assumendosi l'opera di misericordia con la quale arricchì il genere umano di
doni soprannaturali (...) attese a procurare la salute delle anime con il
continuo esercizio della preghiera e del sacrificio, finché, sulla Croce, si
offrì vittima immacolata a Dio per mondare la nostra coscienza dalle opere
morte onde servire al Dio vivo (cfr ivi, 9, 14) (...). Il Divin Redentore
volle, poi, che la vita sacerdotale da Lui iniziata nel suo Corpo mortale
(...) non cessasse nel corso dei secoli nel suo Corpo Mistico che è la
Chiesa; e perciò offrì un sacerdozio visibile per offrire dovunque la
oblazione monda (cfr Malachia, 1, 11), affinché tutti gli uomini,
dall'Oriente e dall'Occidente, liberati dal peccato, per dovere di coscienza
servissero spontaneamente e volentieri a Dio. La Chiesa dunque, fedele al
mandato ricevuto dal suo Fondatore, continua l'ufficio sacerdotale di Gesù
Cristo soprattutto con la Sacra Liturgia". Una simile introduzione fa capire
che nessuno possa parlare di liturgia senza partire da Cristo in quanto
Mediator Dei e senza
intenderla come manifestazione somma e continua di tale mediazione. Egli è
il "luogo" dell'incontro tra Dio e l'uomo e fa della liturgia il culmine
della vita della Chiesa e la fonte di ogni grazia. La liturgia culmen et
fons, l'endiadi ormai celebre della
Sacrosanctum Concilium
che ne sintetizza il concetto, è già nella introduzione della Mediator Dei.
La prima parte dell'enciclica s'intitola
"Natura, origine e progresso della liturgia". L'uomo deve convertirsi a Dio,
orientarsi a lui: questo si manifesta rendendo "il debito culto all'unico e
vero Dio" (I, 1): nell'Antico Testamento è Dio stesso a stabilire le norme
del culto; nel Nuovo Testamento è la rivelazione che Gesù stesso compie con
i fatti della sua vita, morte e risurrezione a diventar offerta o culto
gradito a Dio, finché "entrando, poi, nella beatitudine celeste vuole che il
culto da lui istituito e prestato durante la sua vita terrena continui
ininterrottamente" (I, 1). L'opera della redenzione di Cristo viene in modo
analogo riproposta nella costituzione Sacrosanctum Concilium (cfr 5-6).
Alla volontà del Signore l'enciclica fa
risalire le norme e istituzioni liturgiche: esse hanno in lui l'autore e
perciò vanno trattate con obbedienza gioiosa. L'altare sul quale si presenta
il sacrificio eucaristico è elevato verso l'alto, è un'ara alta e non una
tavola, a significare che la liturgia la riceviamo dall'alto e non la
confezioniamo dal basso.
C'è un secondo elemento essenziale della
liturgia cattolica: "In ogni azione liturgica, quindi, insieme con la Chiesa
è presente il suo Divin Fondatore: Cristo è presente nell'augusto Sacrificio
dell'altare sia nella persona del suo ministro, sia massimamente sotto le
specie eucaristiche; è presente nei sacramenti con la virtù che in essi
trasfonde perché siano strumenti efficaci di santità; è presente infine
nelle lodi e nelle suppliche a Dio rivolte, come sta scritto: "Dove sono due
o tre adunati in nome mio, ivi sono in mezzo ad essi" (Matteo, 18, 20)" (I,
1). Il versetto viene ripreso nel noto paragrafo della costituzione
liturgica sulla presenza di Cristo (n 7) con la sola aggiunta "È presente
nella sua parola, giacché e Lui che parla quando nella Chiesa si legge la
Sacra Scrittura"; in precedenza indica Cristo quale "Mediatore tra Dio e gli
uomini" e "pienezza del culto divino" (n 5).
L'enciclica ha potuto così definire la
liturgia "il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo
e delle sue membra". La liturgia serve ad elevare sempre più l'anima verso
Dio, a con-sacrarla: "così il sacerdozio di Gesù Cristo è sempre in atto
nella successione dei tempi, non essendo altro la liturgia che l'esercizio
di questo sacerdozio" (I, 1). Il sacerdote, vescovo e presbitero, sa che vi
partecipa intimamente lui stesso e che - sacerdozio indica il sacro - deve
aiutare l'uomo a salire sempre di più verso Dio Padre, fonte della santità;
ne sono strumento efficace i riti del culto sacramentale, azioni liturgiche
reiterate secondo un ordine, come un esercizio ginnico per lo spirito. È la
ragione per cui "tutto il complesso del culto che la Chiesa rende a Dio deve
essere interno ed esterno. È esterno perché lo richiede la natura dell'uomo
composto di anima e di corpo; perché Dio ha disposto che "conoscendolo per
mezzo delle cose visibili, siamo attratti all'amore delle cose invisibili"
(Messale romano, prefazio del Natale)" (I, 2).
Il culto non riguarda solo il singolo ma
anche l'umanità; in esso si manifesta in special modo l'unità del Corpo
mistico che è la Chiesa. "Ma l'elemento essenziale del culto deve essere
quello interno; è necessario difatti vivere sempre nel Cristo, tutto a Lui
dedicarsi affinché in Lui, con Lui e per Lui si dia gloria al Padre. La
sacra liturgia richiede che questi due elementi siano intimamente congiunti
(...) Diversamente, la religione diventa un formalismo senza fondamento e
senza contenuto (...) il Divino Maestro stima indegni del sacro tempio ed
espelle coloro i quali credono di onorare Dio soltanto col suono di ben
costrutte parole e con pose teatrali, e son persuasi di poter benissimo
provvedere alla loro salvezza eterna senza sradicare dall'anima i vizi
inveterati (cfr Marco, 7, 6; Isaia, 29, 13)" (I, 2).
L'enciclica, secondo la dottrina classica
dell'ex opere operato e dell'ex opere operantis Ecclesiae,
ricorda "che il culto reso a Dio dalla Chiesa in unione col suo Capo divino
ha la massima efficacia di santificazione" nella messa e nei sacramenti.
Mette in guardia così dalle teorie sulla "pietà oggettiva" che portano a
trascurare la "pietà soggettiva" o personale. Tali teorie rivivono oggi
nell'idea che la "partecipazione comunitaria" alla liturgia sia esclusiva.
Invece, l'efficacia oggettiva della liturgia esige le buone disposizioni
nell'anima del fedele come del prete, non solo durante ma anche in
preparazione ad essa. L'enciclica perciò richiama, in specie dinanzi
all'eucaristia, il paolino "Ciascuno esamini se stesso". Così, viene
ricordato l'atteggiamento giusto per partecipare alla liturgia: "La genuina
pietà, che l'Angelico chiama "'devozione" e che è l'atto principale della
virtù della religione col quale gli uomini si ordinano rettamente, si
orientano opportunamente verso Dio, e liberamente si dedicano al culto" (cfr
san Tommaso, Summa Theol. II.a IIae, q. 82 a. 1). Per questo bisogna
"sottomettere i nostri sensi e le loro facoltà alla ragione illuminata dalla
fede"; per farlo "è necessario tener presente l'insegnamento: "Voi siete di
Cristo e Cristo è di Dio" (cfr 1 Corinzi, 3, 23)". La vera pietà o
devozione, necessaria alla liturgia, discende dall'appartenenza a Cristo e
mediante lui a Dio. La coscienza di appartenere al Signore fa sì che il
culto operi incessantemente "finché il Cristo non sia formato in noi (cfr
Galati, 4, 19)" (I, 2).
Sulla corrispondenza tra la lex orandi
e quella della fede deve vigilare la gerarchia ecclesiastica, perché il
culto che la Chiesa rende a Dio è "una continua professione di fede
cattolica e un esercizio della speranza e della carità" (I, 2).
Manifestazione della Chiesa
Pio XII, riallacciandosi alla costituzione Divini cultus del suo
predecessore Pio XI, osserva che la gerarchia ecclesiastica "non dubitò,
salva la sostanza del sacrificio eucaristico e dei sacramenti, di mutare ciò
che non riteneva adatto, aggiungere ciò che meglio sembrava contribuire
all'onore di Gesù Cristo e della augusta Trinità, all'istruzione e a stimolo
salutare del popolo cristiano" (I, 4). La liturgia infatti è composta di
elementi divini e umani: "Di qui viene che talvolta sono richiamate nell'uso
e rinnovate pie istituzioni obliterate nel tempo" (I, 4). È il criterio che
guiderà il Papa nel restauro dell'Ordo della Settimana Santa, rimettendo in
uso le tradizioni antiche e che sarà recepito dalla costituzione conciliare
(cfr Sacrosanctum
Concilium, n. 50). Papa Paolo VI riusciva ad applicarlo ancora
nell'edizione del messale romano del 1965, quando preservava la messa
antica, alleggerendola da duplicati tardivi.
Esso ritorna in auge col
Motu proprio
di Benedetto XVI.
Quel criterio, secondo la Mediator Dei, presiede all'evoluzione dei
riti, ma senza cadere nell'archeologismo: "La Liturgia dell'epoca antica
è senza dubbio degna di venerazione, ma un antico uso non è, a motivo
soltanto della sua antichità, il migliore (...) Anche i riti liturgici più
recenti sono rispettabili, poiché sono sorti per influsso dello Spirito
Santo" (I, 5). La riforma liturgica - secondo Pio XII - risulta dunque
dalla necessità delle cose, perché la liturgia stessa è una forma che
continuamente tende a ri-formarsi nel senso dello sviluppo organico. Gli
abusi non possono metterla in dubbio; perciò egli rammenta che "per tutelare
la santità del culto contro gli abusi" esiste la Congregazione dei Riti.
La liturgia è manifestazione della
Chiesa corpo e Capo, organismo che produce energie sempre nuove pur
conservando la sua forma fondamentale. Tutto questo sarà ribadito dalla
costituzione liturgica (cfr n. 21).
Ma Pio XII ricorda anche che allo sviluppo
della liturgia ha contribuito notevolmente la pietà del popolo, cioè la
partecipazione "agli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù". Quanti
hanno scritto che prima del concilio la liturgia non favoriva la
partecipazione e che col concilio si è restituita la liturgia al popolo!
Invece, nella seconda parte l'enciclica tocca il culto eucaristico e al suo
interno quello della partecipazione dei fedeli "non con una assistenza
passiva, negligente e distratta ma con tale impegno e fervore da porsi in
intimo contatto col Sommo sacerdote, come dice l'Apostolo: "Abbiate in voi
gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù" (Filippesi, 2, 5), offrendo
con Lui e per Lui, santificandosi con Lui" (II, 2). Si può pensare che la
partecipazione alla liturgia auspicata dal concilio dovrebbe prescindere da
ciò? Cosa sarebbe se non esigesse "di riprodurre in sé, per quanto è in
potere dell'uomo, lo stesso stato d'animo che aveva il Divin redentore
quando faceva il sacrificio di sé: l'umile sottomissione dello spirito, cioè
l'adorazione, l'onore, la lode, il ringraziamento alla somma Maestà di Dio
(...) Esige in una parola, la nostra mistica morte in Croce col Cristo" (II,
2)? Il concilio ha mutato qualcosa in proposito?
Il culmine della partecipazione dei fedeli
- secondo Pio XII - è offrire il sacrificio eucaristico insieme al
sacerdote, in quanto devono offrire se stessi come vittime, e cita in tal
senso la lettera ai Romani: "Vi scongiuro, dunque, o fratelli...di
offrire i vostri corpi come vittima viva, santa, a Dio gradevole, come
vostro culto razionale" (12, 1). A questo punto, ricorda l'enciclica, si può
dire dei fedeli quanto dice il Canone romano: "ti è conosciuta la fede e
nota la devozione" (II, 2). Anche san Leone Magno nel V secolo, si
domandava: "Non è forse funzione sacerdotale consacrare al Signore
una coscienza pura e offrirgli sull'altare del cuore i sacrifici immacolati
del nostro culto?" (Discorsi, 4, 2).
Così la liturgia aiuta il fedele ad attuare
quanto dice l'Apostolo: "Sono confitto con Cristo in croce, e vivo non già
più io, ma è Cristo che vive in me" (Galati, 2, 19-20). Poteva il concilio
sul tema della partecipazione intendere altro? L'enciclica tratta pure dei
mezzi per promuoverla: dalle risposte al sacerdote ai canti. Tuttavia il
prendere parte esteriore non vale quanto la coscienza di essere parte del
Corpo di Cristo, che è il senso vero della partecipazione alla liturgia. La
partecipazione dei fedeli mira "a che la loro vita si arricchisca e cresca
ogni giorno più la gloria del Padre celeste" (II, 2). Allora essa non vuol
dire innanzitutto che tutti possano "fare qualcosa" ma che vi sono prima
altre modalità più profonde, quali il silenzio, la riverenza al mistero,
l'attenzione ai segni.
La partecipazione è inscindibile dalla pietà
perché il culto cristiano deve contribuire alla santificazione dei fedeli; i
riti della liturgia hanno la funzione mistagogica di realizzare l'unione dei
fedeli con Dio, la loro "divinizzazione". Per questo, con grande intuito
pastorale, il Papa mira a renderli più intelligibili: in che senso?
Assicurando la partecipazione "agevole e fruttuosa", che culmini nella
comunione sacramentale e mistica col Signore. Pio XII interverrà ancora
(1957) per precisare il dovere di una partecipazione attiva e cosciente dei
fedeli. La natura della liturgia richiede la partecipazione dei fedeli. Su
tale tema della Mediator Dei farà quasi da contrappunto la
Sacrosanctum Concilium (in specie n. 14; cfr anche n.
11.19.21.26-31.48.50.114.124), declinandolo nel primato della parola di Dio
nella liturgia, nell'uso della lingua locale nei riti affiancando il latino,
nell'adattamento legittimo per favorire i fedeli provenienti da culture
diverse, salva la sostanziale unità del rito romano.
Non tratteremo di quanto dice l'enciclica della comunione eucaristica, se
non per sottolineare l'importanza della preparazione ad essa e del
ringraziamento, in quanto "per mezzo del sacramento dell'Eucaristia, Cristo
dimora in noi, e noi dimoriamo in Cristo; e come Cristo rimanendo in noi
vive ed opera, così è necessario che noi rimanendo in Cristo, per Lui
viviamo e operiamo" (II, 3). Così comincia l'adorazione di Cristo nei nostri
cuori: in essa la partecipazione dei fedeli raggiunge il suo culmine mentre
la stessa liturgia manifesta il suo fine (cfr II, 4).
La propositio numero 6 del Sinodo sull'Eucaristia del 2005, riconosce
che l'adorazione "scaturisce dall'azione eucaristica - che in se stessa è il
più grande atto d'adorazione della Chiesa, che abilita i fedeli a
partecipare pienamente, consapevolmente, attivamente e fruttuosamente al
sacrificio di Cristo secondo il desiderio del Concilio Vaticano II - e ad
essa riconduce". Il collegamento tra celebrazione ed adorazione è stato
rilanciato da Papa Benedetto XVI nel discorso alla Curia romana del 22
dicembre 2005: "Nel periodo della riforma liturgica spesso la Messa
considerata come Cena eucaristica e l'adorazione del SS.mo Sacramento erano
viste come in contrasto tra loro: il Pane eucaristico non ci sarebbe stato
dato per esser contemplato, ma per essere mangiato, secondo un'obiezione
allora diffusa. Nell'esperienza di preghiera della Chiesa si è ormai
manifestata la mancanza di senso di tale contrapposizione. Già Agostino
aveva detto: "nemo autem illum carnem manducat, nisi prius adoraverit...peccemus
non adorando - Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo
se non la adorassimo" (cfr Enarrationes in Psalmos, 98, 9 CCL XXXIX 1385).
Di fatto, non è che nell'Eucaristia riceviamo semplicemente una qualche
cosa. Essa è l'incontro e l'unificazione di persone; la persona, però, che
ci viene incontro e desidera unirsi a noi è il Figlio di Dio. Una tale
unificazione può soltanto realizzarsi secondo le modalità dell'adorazione.
Ricevere l'Eucaristia significa adorare Colui che riceviamo. Proprio così e
soltanto così diventiamo una sola cosa con Lui (...) E proprio in questo
atto personale di incontro col Signore matura anche la missione sociale che
nell'Eucaristia è racchiusa e che vuole rompere le barriere non solo tra il
Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano gli uni
dagli altri".
Questa lunga citazione non è una digressione,
in quanto contiene la frase di sant'Agostino che si trova pure nella
Mediator Dei all'interno del paragrafo sull'adorazione eucaristica (II,
4), segno che non c'è discontinuità tra il magistero di Pio XII e quello
della Chiesa odierna.
L'adorazione richiama la necessità delle
disposizioni per ricevere Cristo con la dovuta riverenza, e in particolare
che l'Eucaristia è ad un tempo sacrificio e sacramento. Anche per questo la
Chiesa sin dall'antichità non ha mai considerato conflittuale la presenza
della custodia eucaristica sull'altare della celebrazione.
La centralità di Cristo
L'enciclica tratta nella terza parte dell'ufficio divino e dell'anno
liturgico, movendo dal principio che l'ideale della vita cristiana è
nell'unione intima con Dio la quale può avvenire solo ""per il Signore
nostro Gesù Cristo", che, mediatore tra noi e Dio, mostra al Padre celeste
le sue stimmate gloriose, "sempre vivente per intercedere per noi" (Ebrei,
7, 25)" (III, 1). Si raccomanda ai fedeli la recita dei salmi e la
partecipazione attiva alla recita del vespro domenicale e festivo. Quanto
all'anno liturgico si ricorda che ha al centro la "persona di Gesù Cristo
(...) il nostro salvatore nei misteri di umiliazione, di redenzione e di
trionfo. Rievocando questi misteri di Gesù Cristo la sacra liturgia mira a
farvi partecipare tutti i credenti in modo che il Divin capo del Corpo
mistico viva nella pienezza della sua santità nelle singole membra" (III,
2). In tale contesto il Papa non manca di stigmatizzare "quanto siano
lontani dal vero e genuino concetto di liturgia quegli scrittori moderni i
quali, ingannati da una pretesa più alta disciplina mistica, osano affermare
che non ci si deve concentrare sul Cristo storico, ma sul Cristo "pneumatico
e glorificato"; e non dubitano di asserire che nella pietà dei fedeli si
sarebbe verificato un mutamento, per cui il Cristo è stato quasi
detronizzato, con l'occultamento del Cristo glorificato che vive e regna nei
secoli dei secoli e siede alla destra del Padre, mentre al suo posto è
subentrato il Cristo della vita terrena. Alcuni, perciò, arrivano a
rimuovere dalle chiese le immagini del Divin redentore che soffre in Croce.
Ma queste false opinioni sono del tutto contrarie alla sacra dottrina
tradizionale. "Credi nel Cristo nato nella carne - così sant'Agostino - e
arriverai al Cristo nato da Dio, presso Dio" (Enarrationes in Psalmos,
123, n. 2). La sacra Liturgia, poi, si propone tutto il Cristo, nei vari
aspetti della sua vita" (III, 2), come ancora fa la liturgia orientale. È il
perdurare dei misteri di Cristo nel mistero della Chiesa, con la Vergine e i
santi (cfr III, 3).
La quarta parte dell'enciclica è dedicata
alle direttive pastorali: dalla raccomandazione delle forme di pietà quali
l'esame di coscienza, alle quali "non può essere estranea l'ispirazione e
l'azione dello Spirito Santo" (IV, 1), a quella di evitare "che le preghiere
liturgiche si riducano a un vano ritualismo". Se ne parla ancora, ma siamo
fuori tempo massimo, perché è il secolarismo ad insidiare oggi il culto
cristiano. Il vero fine da raggiungere resta quello di "essere santi e
immacolati al suo cospetto" (Efesini, 1, 4). Così si promuoverà lo spirito e
l'apostolato liturgico affinché, come aveva detto Pio X nel Motu proprio
Tra le sollecitudini, nella liturgia risplendano "tre ornamenti": "la
santità, cioè, che aborre ogni influenza profana; la nobiltà delle immagini
e delle forme alla quale serve ogni arte genuina e migliore; l'universalità,
infine, la quale, conservando i legittimi costumi e le legittime
consuetudini regionali, esprime la cattolica unità della Chiesa" (IV, 2). E
non manca di deplorare quanti moltiplicano senza giusto motivo le immagini,
espongono reliquie non autentiche e altri abusi.
Sulle orme dei suoi predecessori Pio X e Pio
XI, Pio XII esorta a promuovere la musica sacra e il canto gregoriano anche
nell'uso del popolo, le scholae cantorum, le risposte alle preghiere
in latino e in volgare, senza escludere la musica e il canto moderno, purché
conveniente alla santità del luogo e all'azione sacra e senza ricercare
effetti straordinari e insoliti, infine il canto religioso popolare. In
merito all'arte sacra raccomanda di evitare "con saggio equilibrio
l'eccessivo realismo da una parte e l'esagerato simbolismo dall'altra, e
tenendo conto delle esigenze della comunità cristiana, piuttosto che del
giudizio e del gusto personale degli artisti" e come "assolutamente
necessario dar libero campo anche all'arte moderna, se serve, con la dovuta
riverenza e il dovuto onore, ai sacri edifici e ai riti sacri; in modo che
anch'essa possa unire la sua voce al mirabile cantico di gloria che i geni
hanno cantato nei secoli passati alla fede cattolica" (IV, 2). Questa
raccomandazione, particolarmente urgente nel momento in cui ci si accingeva
a restaurare o riedificare gli edifici di culto distrutti dalla guerra, fu
raccolta poi da Paolo VI e resta attuale.
A essa Pio XII univa la preoccupazione per la
formazione del clero e dei laici che servivano all'altare, perciò rinviava
al tesoro contenuto nella sacra liturgia atta a formare il pensiero e
l'azione dei cristiani nel mondo, senza separarla dalla spiritualità. Da
ultimo egli ricorda che la liturgia sulla terra è preparazione e auspicio di
quella celeste, dove "in compagnia con la eccelsa Madre di Dio e dolcissima
Madre nostra, canteremo: "A Colui che siede sul trono e all'Agnello,
benedizione e onore e potenza nei secoli dei secoli" (Apocalisse, 5, 13)" (IV,
2).
Nella sacra liturgia non si misura né il
tempo, né lo splendore, né la cera, né l'incenso, perché nulla è più
importante dell'opus Dei che essa stessa è, e che ne fa l'anticipo del
paradiso. Itinerario dal sensibile allo spirituale, orienta alla Gerusalemme
di lassù, dove Cristo è il Signore e attende noi pellegrinanti verso il
cielo. La liturgia terrena si svolge in un tempio manufatto e avrà fine;
mentre nell'eterna Gerusalemme "il suo tempio è il Signore Dio onnipotente e
l'Agnello" (Apocalisse, 21, 22). La liturgia costituisce un appello
permanente a entrare nella città celeste. Per i padri della Chiesa la
liturgia è il mistero divino affidato agli uomini, perciò va trattata con le
mani velate, come quelle degli angeli bizantini. "E chi non farà questo -
ammonisce san Francesco - sappia che deve rendere ragione al Signore nostro
Gesù Cristo nel giorno del giudizio" (Epistola al clero, 14).
Nulla veramente cambia della dottrina tradizionale
Annotavamo all'inizio, che la causa remota dell'opposizione al rito romano
antico è altra. In non pochi interventi contrari al Motu proprio si
avanza la tesi di non potersi riconoscere nella Chiesa espressa dal messale
di san Pio V, malgrado abbia conosciuto ancora una riedizione col beato
Giovanni XXIII e con esso si sia celebrato durante il concilio ecumenico
Vaticano II; ora, come combinarla con l'affermazione fatta da Paolo VI
durante l'assise: "nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò
che Cristo volle, vogliamo noi pure. Ciò che era resta. Ciò che la Chiesa
per secoli insegnò, noi insegniamo parimenti"?
Poiché nella sacra liturgia si manifesta la Chiesa una e cattolica,
santa ed apostolica che è la medesima in tutti i tempi, sembra che i
suddetti interventi tradiscano un'idea di Chiesa differente da quella che il
concilio ha definito nella costituzione dogmatica Lumen gentium e che
sottostà alla Sacrosantum Concilium.
Quest'ultima, come abbiamo mostrato, si deve alla preparazione condotta
dall'opera riformatrice di Pio XII e ancor prima alla sua riflessione sulla
Chiesa come corpo mistico di Cristo nell'enciclica Mystici corporis a
sua volta recepita nella Lumen gentium.
La dottrina della Chiesa quale corpo unito a Cristo e quella del culto
integrale, cioè dell'intero corpo di Cristo, capo e membra, sono
inscindibili: merito dell'enciclica Mediator Dei che su tale solida
base ha avviato un equilibrata riforma della liturgia.
(© L'Osservatore Romano - 18 novembre 2007)