Tradizione e rispetto dei Padri
di Francesco Colafemmina
Le riflessioni di
Martin Mosebach nel suo prezioso volume "L'eresia
dell'informe" ci introducono ad un aspetto completamente obliterato della
riforma liturgica seguita al Concilio. Mi riferisco all'idea che
l'interruzione della tradizione o il suo tradimento, allorché per
"tradizione" intendiamo la trasmissione ereditaria di un "bene", siano da
considerarsi atti "tirannici".
La "trasmissione" di generazione in generazione riposa infatti sul
riconoscimento di un valore supremo al "rispetto per il padre". Da questo
rispetto discende automaticamente la sacralità della trasmissione.
Trasmettere l'eredità dei padri non significa comunque non arricchirla o
incrementarla, ma di certo questo passaggio di mano in mano implica il
reverenziale timore della trasformazione e della negazione di quanto è
trasmesso. Rottura con i padri, negazione del loro operato, rifiuto del loro
"mondo", damnatio memoriae delle loro espressioni: sono tutti
sinonimi della ribellione ai padri e della hybris dei figli!
Gli antichi Greci misuravano la maturità e la sanità di una società in base
al rispetto che veniva tributato ai padri, agli antenati ed agli anziani in
genere. Se infatti una società era sana e solida, formata attraverso le
virtù (aretai), valorosa e prospettata verso la gloria, ciò era
certamente da addebitarsi al rispetto (sebasmos) che i figli (la
generazione vivente) aveva avuto nei riguardi dei padri (coloro che avevano
posto le premesse per lo splendore attuale). Se un figlio nega, rifiuta o
distrugge l'eredità del padre egli nega in qualche modo se stesso, nega la
sua formazione, nega il suo status, calpesta ciò che ha ricevuto e lo fa con
disprezzo ed alterigia.
Questa "tracotanza" era per gli antichi sinonimo di sacrilegio, di
violazione dei patti fra gli dei e gli uomini, una palese deviazione dal
cosmos per entrare nel caos. L'esempio classico del ritorno del
cosmos nel caos aperto dal destino ereditario dell'uomo è quello
dell'Edipo a Colono di Sofocle, dove il rispetto dei padri è esaltato e
rappresentato come valore primario della società.
Allo stesso modo la riforma liturgica e le innovazioni conciliari si sono
sviluppate quali tentativi non di "accrescere" l'eredità del passato, bensì
di "depurarla", svilirla, cancellarla, distruggerla. E ciò è accaduto
spiritualmente nella liturgia e materialmente nell'arte e nell'architettura
sacra. L'iconoclastia postconciliare di cui parla Mosebach, rappresenta un
unicum nella storia dell'occidente (perchè tale iconoclastia è nata in
occidente), proprio per il suo configurarsi non come l'imposizione di una
nuova espressione del culto (come fu in epoca bizantina), bensì quale palese
ed espressa "ribellione" nei riguardi dell'eredità dei "padri".
Mosebach afferma che "nell'antichità l'interruzione di una tradizione da
parte del sovrano era definita come un atto di tirannia. In questo senso
potremmo dire che anche il modernizzatore e progressista Paolo VI sia stato
un tiranno della Chiesa". Questa valutazione scabra e durissima su Paolo VI
non nasce soltanto dalla consapevolezza che la riforma liturgica fu proposta
come una negazione del passato. Essa scaturisce dall'analisi degli effetti
che quella riforma ebbe e continua ad avere sui "piccoli", sui fedeli, sulle
generazioni cristiane che di essa sono state imbevute.
L'uomo ha sempre cercato naturalmente di aderire al suo passato, alle
generazioni, ai padri, ai nonni, agli antenati, perchè essi rappresentano la
sua attualità. Senza la discendenza il nostro essere uomini sarebbe privo di
un significato importante. Ecco perchè anche quegli uomini che per i più
tristi casi della vita crescono privi di genitori o nella assoluta ignoranza
della loro stirpe, un giorno scoprono di avere il febbrile bisogno di
recuperare il proprio passato. Sappiamo tutti infatti che nelle viscere di
chi ci generò è racchiuso anche il senso della nostra vita. E se questa
nostra esistenza odierna è per noi un peso o una ricchezza, in ogni caso nel
rapporto con il passato inteso non come il luogo del nulla, ma il luogo da
cui proveniamo, possiamo trovare il senso sia del peso che della ricchezza
del presente.
Il Tradizionalismo inteso come passatismo, come ambizione ad un ritorno al
passato, è un semplice gioco logico inventato dai detrattori del "sebasmos"
(rispetto) per i padri e la loro eredità. In una realtà ecclesiale che
combatte il suo passato o tenta di rielaborarlo proditoriamente alla luce
del presente, è ben scontato che i rispettosi dei padri possano arroccarsi
nella loro univoca venerazione. Ma sono poi davvero così disprezzabili
questi amanti della tradizione? Qual è il loro peccato di fondo? E' un
peccato ecclesiale? O è forse un peccato umano o umanistico? Propendo per
questa seconda spiegazione. Il peccato dei difensori e degli innamorati
della tradizione, di coloro che sono "veneratori dei padri" è che non hanno
ancora sposato l'idea di un uomo artefice autonomo (autolegislatore) del
proprio destino e della propria realtà. Essi sono ancora legati ad una
dimensione ecclesiale autentica, dove per Chiesa non si intende solo
l'attuale Corpo Mistico di Cristo, ma l'estensione di questo Corpo nel
passato da cui procede, nel passato a partire dal quale ha preceduto gli
uomini in Galilea...
E la Chiesa amata e difesa dagli amanti della tradizione è Chiesa composta
di "semplici", non mai decisa o strattonata dagli intellettuali autonomi,
bensì trasmessa, estesa nel tempo e nello spazio dai tanti fedeli guidati
dalla ricerca del Signore. I gesti iterati dei semplici sono stati un giorno
vietati, proibiti, osteggiati per sempre e ovunque nel mondo. Ed ancor oggi,
nonostante si cerchi di legare la tradizione all'innovazione del Concilio e
della nuova liturgia, resta quell'hybris che è netta ed inestinta cesura.
Come possono gli uomini d'oggi con un salto di due generazioni raccordarsi a
tutte le innumerevoli generazioni precedenti? Dovremmo scavalcare quest'atto
di indipendente vanità dell'uomo che ha calpestato il rito romano, che è
saltato sugli altari e ne ha distrutto la bellezza, che si è arrampicato
sulle chiese e le ha ridotte a vuoti cantieri, che si è introdotto nel cuore
dell'uomo e vi ha scacciato la presenza Reale del Signore? Come e quanto
dovremmo tornare indietro? Dovremmo anche noi rinnegare le due generazioni
che ci hanno preceduto, smascherarne le inconsistenti utopie e condannarci
all'orphanage di una umanità tradita?
E' difficile rispondere a questo quesito, ma nondimeno è opportuno porselo.
Credo, infatti, che sia questo il centro sia della fioritura "tradizionale"
di questi ultimi anni, sia dell'ostilità diffusa e progressista, ma più
spesso inconsapevole e meccanica. Quest'ultima è diffusa eredità di chi non
esita ad accettare supinamente la "neotradizione" degli iconoclasti. La
riforma postconciliare ha anch'essa bisogno di instaurare una
"neotradizione" per vivere, e l'ignoranza di ciò che la precede o la
semplice assuefazione alle nuove consuetudini è il vero bacino di coltura
del progressivismo reazionario (con un palmare capovolgimento di ruoli i
veri "rivoluzionari" sono oggi i tradizionalisti). Ma mentre il
progressivismo realmente bigotto e conformista è promosso da reduci delle
utopie postocnciliari e dai loro zelanti discepoli, la tradizione invece è
oggi difesa e promossa da uomini relativamente giovani, spesso semplicemente
da ragazzi. Sono loro gli eredi di generazioni che hanno vissuto nell'utopia
e che oggi, dopo il crollo di quelle fantasie di libertà e progresso, si
confrontano con la ricerca di una appartenenza. Così questi giovani, tra i
quali ci sono miseramente anch'io, scoprono in quel passato negato, nei gesti
ormai dimenticati dei nonni, il senso di quel "tradere" che dà sostanza e
verità a questo presente plastificato ed opaco.
Concludo citando, a mò di riassunto di quanto finora espresso, un
illuminante passaggio del volume di Mosebach: "La mancanza di riguardo con
cui qualcosa che è venerato, è che ora non lo deve essere più, è profanato,
eliminato, soppresso, gettato via, liquefatto, svenduto, è volgare. Alle
numerose ondate di distruzione che nella storia del nostro Paese si sono
abbattute sui nostri santuari - la riforma, la secolarizzazione con le sue
centinaia di migliaia di profanazioni - ne è seguita una più recente
assolutamente degna dei suoi predecessori per forza distruttiva: si dovrebbe
un giorno compilare una lista di quanti altari in Germania a partire dal
Concilio sono stati distrutti. Le nostre chiese dispendiosamente restaurate
e costosamente sistemate secondo l'architettura d'interni, di volta in volta
alla moda, assomigliano spesso a scheletri preparati con accuratezza, che
vengono predisposti in modo eccellente per un futuro da museo. Nessuno, che
creda realmente alla forza della grazia e della preghiera, oserebbe
disprezzare e distruggere ciò che è stato consacrato attraverso l'uso della
preghiera, e ciò che risulta per così dire caricato elettricamente da molte
grazie."(pag.59).
Martin Mosebach, Eresia dell'Informe, Cantagalli, 2009