Sulla Rivista
Ufficiale del Distretto italiano della
Fraternità S. Pio X, La Tradizione
Cattolica, 2009, 1, p. 7 ss., è
pubblicata la lunga "Lettera aperta" a
mons. Bux - della quale segue il testo - in pratica un commento al suo
libro sulla Riforma liturgica di Papa
Benedetto.
Ad un esame superficiale
si potrebbe propendere più per la tesi di
Mons. Bux, ossia del mutuo arricchimento dei due riti, e
per ragioni innanzitutto pratiche più
che teoretiche: perché sembra irrealistico
pensare che la riforma liturgica
postconciliare
possa essere cancellata; l’unica
possibilità praticabile potrebbe
apparire quella di cercare di emendarla
con gradualità
e pazienza. Quel che sta facendo il
Papa, tra molti ostacoli, anche per colmare lo iato
generazionale che si è creato.
Apprezziamo molto nella
lettera l’analisi chiara e approfondita,
e inevitabilmente critica, degli
elementi salienti che contraddistinguono
il nuovo rito rispetto all’antico.
E, oggi, la compresenza del Rito
Gregoriano molto conforta la nostra fede.
Rev.do don Nicola Bux,
ci è sembrato doveroso prendere in seria
considerazione la sua ultima
pubblicazione La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e
tradizione, che appare come la
continuazione dell’appello che lanciò
sull’Osservatore Romano il 18 novembre
dello scorso anno, quando invitò a
«confrontarsi senza alcun pregiudizio»
sulla liturgia. Da allora i suoi sforzi
sono sempre andati nella direzione di
offrire un contributo di verità per
uscire dalla crisi liturgica (e
dottrinale) che sta attraversando la
Chiesa cattolica. È un appello che non
si può lasciar cadere, perché
finalmente, dopo anni di riduzione al
silenzio di quanti non fossero d’accordo
con la vulgata liturgica, una voce
autorevole, a seguito di quella del
Sommo Pontefice, esce dagli schemi
patrocinati sembra dalla corte celeste:
almeno da Sant’Anselmo e Santa Giustina.
Lei è un uomo di spirito: siamo certi
che saprà sorridere, senza vedere in
questa battuta alcuna polemica.
Il primo grande merito del suo libro:
aver portato all’attenzione del grande
pubblico, rinunciando a stile e
dimensioni accademiche, i dissensi
intestini alla riforma liturgica,
particolarmente accennando
all’opposizione del Cardinale Ferdinando
Antonelli ai diktat di Bugnini. La
liturgia è oggi «un campo di battaglia»,
per usare una sua espressione, perché
tale è stata fin dall’inizio della sua
riforma. Il secondo merito e non lo
affermiamo per una mera captatio
benevolentiae è racchiuso nei capitoli
primo (La sacra e divina liturgia),
secondo (A chi ci avviciniamo con il
culto divino) e sesto (Come incontrare
il mistero), che costituiscono una bella
e profonda introduzione all’essenza
dello spirito liturgico. Sono questi dei
capitoli che ogni sacerdote ed ogni
fedele dovrebbe leggere e meditare. E
non possono che allietare le
considerazioni sull’essenziale
verticalità della liturgia, da
riguadagnare anche a partire dalla vexata quaestio del
versus liturgico,
quell’orientamento verso oriente tutt’uno
con l’orientamento verso la croce, per
significare nuovamente la centralità di
Nostro Signore Gesù Cristo e del Suo
Sacrificio. Ora, lei riconosce, ed il
suo libro ne è chiara testimonianza, che
il Rito tridentino ha saputo incarnare
in modo eccellente l’autentico spirito
liturgico; tuttavia una delle sue tesi
di fondo è che anche «la riforma
liturgica nel suo insieme, comprese le
parti già attuate, possono essere
riesaminate alla luce del vero spirito
della liturgia» (p. 59). Lei auspica
dunque un movimento degli estremi verso
il centro: «Se quanti amano o scoprono
la precedente tradizione liturgica
devono anche convincersi del valore e
della santità del nuovo rito, tutti gli
altri dovrebbero riflettere sul fatto
che nella storia della liturgia c’è
crescita e progresso, ma nessuna
rottura» (pp. 45-46). È su questo punto
che vorremmo soffermarci e confrontarci,
partendo dalle sue affermazioni e
cercando di seguirne la logica interna,
che ci porterà però ad una conclusione
diversa dalla sua, riconoscendo nel
contempo che la sua conclusione sia
naturale per un buon cattolico, al quale
ripugna a ragione l’idea di una rottura
nello sviluppo della liturgia. Ma sono i
fatti, che lei ha mostrato e che noi
semplicemente riproporremo e
arricchiremo, sono i fatti dunque a
mostrare il vero volto del nuovo rito.
Ed una precisazione previa è d’obbligo:
non prenderemo in esame gli abusi
illegali, come le messe rock, o quelle
stile pic-nic o altre pagliacciate di
questo genere. Non ci soffermeremo
troppo nemmeno sugli abusi legalizzati,
ossia la Comunione ricevuta in piedi,
sulla mano, l’uso esclusivo della lingua
volgare, etc. Sappiamo bene che tutto
questo non è contemplato nel Novus Ordo,
ma è frutto di aggiustamenti successivi
e di un dinamismo liturgico che pretende
essere sempre vivo e operante. Tuttavia
anche questi elementi devono essere
considerati come il frutto della riforma
liturgica, così come è stata concepita e
di fatto realizzata da Bugnini & C.
Rimandiamo al seguito della lettera per
argomentare quest’ultima affermazione,
grave senz’altro, ma non frutto di
fantasia né di pregiudizio.
Il principio guida
Nelle nostre considerazioni ci facciamo
guidare dalla sua brillante spiegazione
del termine riforma: «Si sa che non c’è
contenuto senza forma; da quando Dio si
è fatto uomo, non c’è verità che non
abbia una forma che lo richiami.
Ri-forma vuol dire migliorare la forma o
cambiarla? Non sembra univoco il senso.
Secondo i Padri della Chiesa è da
rinnovare sempre. Ma la riforma non può
essere intesa nel senso di una
ricostruzione secondo i gusti del tempo.
La riforma, secondo Michelangelo, è
quella dell’artista che libera
l’immagine dal materiale da cui è
ostruita; l’immagine è già presente nel
marmo e non c’è che da eliminare le
incrostazioni che si sono depositate nei
secoli. Riforma è togliere ciò che
offusca affinché divenga visibile la
forma nobile, il volto della Chiesa e
insieme con essa anche il volto di Gesù
Adottato per la liturgia il termine
riforma può essere accettabile o meno:
accettabile se la forma corrisponde al
contenuto, non se la forma indica un
altro contenuto» (p. 49). In questo
brano c’è tutto: riformare significa
fare in modo che la forma esprima il
contenuto nel modo migliore possibile,
tenendo fermo che tale contenuto non è a
disposizione dei gusti del tempo. Il
volto della Chiesa e di Gesù Cristo non
sono vendibili sul mercato dei gusti e
delle sensibilità storiche. Il suo
principio guida è perfettamente sulla
scia di quello che diede Pio XII nella
meravigliosa enciclica
Mediator Dei: «La
gerarchia ecclesiastica ha sempre usato
di questo suo diritto in materia
liturgica disponendo ed ordinando il
culto divino ed arricchendolo di sempre
nuovo splendore e decoro a gloria di Dio
e per il vantaggio dei fedeli. Non
dubitò inoltre salva la sostanza del
sacrificio eucaristico e dei sacramenti
di mutare ciò che non riteneva conforme,
aggiungere ciò che meglio sembrava
contribuire all’onore di Gesù Cristo e
della Trinità augusta, e all’istruzione
e stimolo salutare del popolo
cristiano». Non abbiamo nessuna remora a
sottoscrivere questo testo; noi
riconosciamo alla gerarchia il diritto
di intervenire in materia liturgica e
tale riconoscimento è stato da noi
mostrato nei fatti. Quella di san Pio V
non fu una riforma? Anche gli stessi
interventi più recenti in materia
liturgica, quali quelli da lei stesso
ricordati, fino al messale del 1962,
sono stati da noi accolti con filiale
obbedienza. Il problema non è dunque
nella liceità della riforma liturgica,
ma nella riforma specifica che è seguita
al Concilio e si è concretizzata nel
messale di Paolo VI. Questa riforma non
è in linea con il principio guida
ammesso sia da noi che da lei e pertanto
non può essere paragonata alle altre
riforme che l’hanno preceduta. Non
possiamo concordare quando,
richiamandosi alla lettera del Santo
Padre che ha accompagnato il
Motu
Proprio Summorum Pontificum, lei afferma
che il messale del 1962 e quello di
Paolo VI sono «due stesure conseguenti,
come altre volte è avvenuto nei secoli,
allo sviluppo dell’unico rito, infatti
chi conosce la storia dei libri
liturgici sa che in occasione della loro
ristampa sono stati emendati e
arricchiti di formulari per messe,
benedizioni ecc.» (p. 62). Non possiamo
essere d’accordo, perché non possiamo
negare la realtà, quella realtà che lei
stesso ha richiamato in più punti del
suo libro e che ora intendiamo
ripercorrere.
«Una riforma decisamente radicale»
Citiamo dal suo libro: «Purtroppo il
messale di Paolo VI non contiene tutto
quello di Pio V - se si sta alle
edizioni nelle lingue nazionali -
inoltre lo ha mutato in più punti
aggiungendo nuovi testi» (p. 72). E poco
oltre: «È vero che il papa Paolo VI
intendeva restaurare semplicemente il
rito di san Pio V ovvero la liturgia di
san Gregorio, ma, purtroppo gli esperti
in una prima fase presero il sopravvento
fabbricando un’altra cosa. Quando il
Papa se ne accorse, abbiamo visto cosa
accadde; intanto, come si suol dire, i
buoi erano scappati dalla stalla.
Proprio questo svarione ha prodotto la
frattura perché ha svelato che non tutto
era andato per il verso giusto» (pp.
72-73). Ecco, appunto. Quello che Paolo
VI corresse è in definitiva il noto
paragrafo 7 dell’Institutio generalis
del 1969, forse a seguito del Breve
esame critico degli eminentissimi
cardinali Ottaviani e Bacci o di un
intervento presso Paolo VI del Cardinal
Journet. Certamente si trattò di una
correzione importante; ma a cosa servì
cambiare quella definizione di Messa se
si lasciò inalterato il nuovo messale
che di quella definizione è
l’espressione? Il summenzionato Breve
esame critico non rivolse la propria
denuncia solo verso quel punto dell’Institutio,
ma verso il Novus Ordo «sia nel suo
insieme come nei particolari»,
affermando che si trattava di «un
impressionante allontanamento dalla
teologia cattolica della Santa
Messa»(1). I buoi erano ormai scappati,
come lei ci ricorda, ed il messale di
Paolo VI è il frutto di questa fuga che
non è stata fermata in tempo. È tempo di
mostrare che la forma del nuovo messale
non corrisponde al contenuto cattolico,
ma ad un altro contenuto e dunque,
seguendo il principio guida che lei ci
ha fornito, non si è trattato di una
riforma ma di una rivoluzione. In
un’intervista(2) rilasciata da Andrea
Rose, Canonico titolare della cattedra
di Namur (Belgio) e consultore del
Consilium ad exequendam constitutionem
de sacra liturgia, il cui segretario era
mons. Annibale Bugnini, abbiamo la
conferma che la mente della riforma
liturgica fu proprio Bugnini: «Ciò che
so, è che mons. Martimort non era molto
d’accordo con lui [Bugnini]. Egli lo
criticava tutte volte che era assente.
Mi diceva: "Questo Bugnini fa ciò che
vuole!". Un giorno mi ha detto: "Sapete,
Bugnini ha fatto una buona scuola
media". Era questo il giudizio di
Martimort su Bugnini. All’inizio credevo
che esagerasse, ma poi mi sono reso
conto che aveva ragione. Bugnini non
aveva alcuna profondità di pensiero. Fu
una cosa grave designare per un posto
simile una persona che era come una
banderuola. Ma si rende conto? La cura
della liturgia lasciata a un pover’uomo
come quello, un superficiale». Ed
aggiunge: «Bugnini era sempre dal Papa,
per informarlo. Un giorno, era
all’inizio, quando i problemi non erano
ancora così gravi, ero in piazza San
Pietro col Padre Dumas. Abbiamo
incontrato Bugnini, che ci ha indicato
le finestre dell’appartamento di Paolo
VI, dicendo: "pregate, pregate perché ci
sia conservato questo Papa!". E questo
perché egli manovrava Paolo VI. Andava
da lui per fargli rapporto, ma gli
raccontava le cose come piaceva a lui.
Poi ritornava, dicendo: "Il Santo Padre
desidera così, il Santo Padre desidera
cosà". Ma era lui che, sottobanco...».
Affermazioni pesanti, certamente, ma che
collimano con quelle del Cardinale
Antonelli da lei riportate e che
rivelano principalmente il peso
determinante che ebbe Bugnini nella
compilazione del nuovo messale. Ma
Bugnini non era certamente il solo; il
Cardinale Antonelli non fa mistero che
il clima che prevaleva nel Consilium era
tutt’altro che rassicurante: spirito di
critica ed insofferenza verso la Santa
Sede, razionalismo, nessuna
preoccupazione per la vera pietà,
impreparazione teologica Non stupisce
allora il risultato, che ha solo la
maschera di un ritorno alle fonti
liturgiche, come rivela ancora don Rose:
«Certuni, nel Consilium, volevano il
ritorno alla tradizione principale
quando faceva loro comodo. Francamente,
che si potessero effettuare delle
piccole riforme, d’accordo, ma ciò che
si è fatto è stato decisamente
radicale». La riforma detta di Paolo VI
non ha precedenti nella storia
liturgica; nemmeno la riforma di Lutero,
a detta di Mons. Klaus Gamber, fu così
radicale: «La nuova organizzazione della
liturgia, e soprattutto le profonde
modifiche del rito della messa sorte
sotto il pontificato di Paolo VI, e sono
anzitempo divenute obbligatorie sono
state molto più radicali della riforma
liturgica di Lutero - almeno in ciò che
riguarda il rito esteriore - ed hanno
tenuto meno conto della sensibilità
popolare»(3).
La Messa, vero e proprio sacrificio e la
transustanziazione
Dicevamo che la forma deve esprimere il
contenuto. Le proponiamo una rapida
ricognizione della riforma liturgica per
verificare se la forma del Novus Ordo
corrisponde ai contenuti fondamentali
della dottrina sul santo Sacrificio
della Messa. «L’augusto sacrificio
dell’altare non è, dunque, una pura e
semplice commemorazione della Passione e
Morte di Gesù Cristo, ma è un vero e
proprio sacrificio, nel quale,
immolandosi incruentamente, il sommo
Sacerdote fa ciò che fece una volta
sulla croce, offrendo al Padre tutto Se
stesso, Vittima graditissima»(4). Il
Messale di San Pio V richiama
incessantemente questo aspetto, tanto
fondamentale in quanto esso esprime
l’essenza della Santa Messa. E lo fa
principalmente nell’Offertorio e nel
Canone.
1. La sostituzione dell’Offertorio.
L’Offertorio ha precisamente la funzione
di anticipare non l’effetto della
consacrazione, ma il suo significato,
richiamando così il sacerdote ed i
fedeli all’offerta di loro stessi, in
unione alla Vittima divina. Il tutto
nell’antichità veniva espresso con la
sola presentazione del pane e del vino e
la santificazione delle oblate. Nei
secoli questo significato si è tradotto
in una molteplicità di riti. San Pio V,
nell’intento di unificare e regolare le
cerimonie del culto pubblico, scelse
quelle formule che meglio esprimevano il
gesto dell’offerta, significato nel
sollevare la patena ed il calice. Nel
nuovo Offertorio non è rimasto più nulla
di tutto questo, neppure il nome
Offertorio, sostituito da Presentazione
dei doni ; ed effettivamente la nuova
formulazione non ha nulla a che vedere
con l’intenzione offertoriale. Se ne
accorse lo stesso Paolo VI, ma non
apportò alcuna modifica. Egli fece
notare che le formule «sono due belle
espressioni eucologiche, ma che non
hanno alcuna intenzionalità oblativa, se
si tolgono i due incisi [proposti dal
Papa, n.d.A.]: quem tibi offerimus ,
quod tibi offerimus; non sono, senza di
essi, formule dell’offertorio. Perciò
sembra che tali due incisi diano valore
specifico d’offerta al gesto e alle
parole». Ma, a riprova della dittatura
di Bugnini e del Consilium, il Papa
aggiunse: «Tuttavia si rimette la
decisione circa la loro permanenza o la
loro soppressione al giudizio collegiale
del Consilium»(5). Dunque anche Paolo VI
è concorde con noi nel dire che
l’Offertorio del Novus Ordo
semplicemente non è un offertorio
L’aggiunta delle due formule suggerite
dal Papa ha finito per aggravare la
situazione: pane e vino sono offerti a
Dio in luogo dell’unica offerta a Lui
gradita, quella del Corpo e del Sangue
del suo Figlio, e l’uomo si dichiara
capace di offrire a Dio i frutti del
proprio lavoro; l’Eucaristia come
sacrificio non è contemplata nelle due
formule di presentazione dell’ostia e
del vino, che invece rinviano subito
l’attenzione sull’Eucaristia come
sacramento («perché diventi per noi cibo
di vita eterna»; «perché diventi per noi
bevanda di salvezza»). L’elemento
sacrificale risulta così non negato, ma
certamente posto in ombra, a grave danno
della fede di chi celebra e di chi
assiste. L’Offertorio romano è stato
devastato con delle pseudo-motivazioni,
che manifestano l’assenza di formazione
teologica e sensibilità liturgica da
parte di molti membri del Consilium. È
ancora don Andrea Rose a dirci come
andarono i fatti: «Coloro che si sono
occupati della Messa sono stati ancora
più radicali di quanto lo fummo noi
nell’Ufficio Divino. Basta vedere come è
stato quasi eliminato l’Offertorio. Dom
Capelle non voleva alcun Offertorio. Si
parla come se il sacrificio fosse già
compiuto. Si rischia di credere che
tutto è stato già fatto , diceva. Non si
rendeva conto che tutte le liturgie
contengono una anticipazione come
quella, Ci si pone già nella prospettiva
del compimento. Domanda: Non si tratta
della mancanza di una prospettiva
finalista? Risposta: Sì, e allora si è
finito col sopprimere tutto, tutto
quello che era preghiera
nell’Offertorio, perché, si diceva, non
si tratta ancora del sacrificio. Ma,
insomma, qui siamo di fronte a delle
posizioni molto razionaliste! Una
mentalità da scolaresca! Domanda: Nella
sua esperienza pastorale ha notato che i
fedeli avessero creduto che le oblate
fossero già state consacrate? Vale a
dire: ha constatato la concretizzazione
dei pericoli sottolineati da dom Capelle?
Risposta: Ma no, ma no. Mai! E poi,
basta guardare come si svolgono i riti
orientali. Là è la stessa cosa. E
sarebbe interessante comparare tutte
queste cose».
2. Dal Canone alle Preghiere
eucaristiche
Si è riuscito a far di peggio per quanto
riguarda le Preghiere eucaristiche.
Accanto al Canone, riproposto nella
Preghiera eucaristica I, ma con delle
variazioni significative che vedremo più
avanti, sono state poste altre anafore
(quattro, più due dette della
riconciliazione). Tutte queste preghiere
sono state fatte a tavolino, compresa la
seconda, che del Canone di Ippolito ha
si è no l’ispirazione. E per quale
profondo motivo teologico? Per porre
fine «a secoli di fissismo»(6)! Lei ha
ragione quando dice che «la liturgia è
un processo vitale, non il prodotto di
erudizione specialistica» (p. 50). Ora,
le nuove Preghiere eucaristiche sono
precisamente il frutto delle mani di una
commissione che, secondo il giudizio del
Cardinale Antonelli da lei riassunto,
era caratterizzato dall’«incompetenza di
molti, sete di novità, discussioni
affrettate, votazioni caotiche pur di
approvare al più presto» (p. 50). È
sensato, secondo lei, mettere fine al
Canone (perché di fatto il Canone non è
più canone, norma) che raccoglie oltre
1500 anni di tradizione liturgica, che,
secondo il Concilio tridentino, è
«talmente puro da ogni errore, da non
contenere niente che non profumi di
grande santità e pietà e non innalzi a
Dio la mente di quelli che lo
offrono»(7), perché nelle adunanze del Consilium «c’era chi sottolineava le
difficoltà che l’attuale Canone
comportava per la nuova epoca e
mentalità moderna»(8)? C’è un altro
rilievo da fare: Bugnini affermò che
nelle tre Preghiere eucaristiche
aggiunte, «per quanto possibile, si è
evitato di ripetere concetti, parole e
frasi del canone romano»(9). Ma allora
che cosa si esprime in quelle preghiere
eucaristiche? Se il Canone raccoglie ed
esprime la tradizione liturgica sul
Santo Sacrificio, armonizzando
meravigliosamente l’impetrazione, il
ringraziamento, la supplica,
l’espiazione, che cosa resta nelle altre
Preghiere eucaristiche?
3. L’abominazione nel luogo sacro: la
modifica della formula di consacrazione
C’è un altro aspetto, che interessa
anche la Preghiera eucaristica I e che
colpisce direttamente l’azione
sacrificale della consacrazione. Si
tratta della modifica della forma della
consacrazione; anche in questo caso,
Bugnini agì di testa sua, contrariamente
all’indicazione del Papa, che chiese di
lasciare immutato il Canone e di
aggiungere altre due o tre anafore da
usare in alcuni tempi(10). In primis,
quella che veniva chiamata
consacrazione, nel nuovo messale è
divenuta il racconto dell’istituzione ;
ed il nuovo titolo ci fornisce,
purtroppo, l’autentica chiave di lettura
delle modifiche della formula
consacratoria. L’aggiunta delle parole:
«Prendete e mangiatene tutti» e
«Prendete e bevetene tutti», che nel
Messale di san Pio V sono chiaramente
distinte dalla vera e propria formula di
consacrazione sia per il punto fermo che
le segue che per la differenza dei
caratteri tipografici, permettono di
considerare la consacrazione più come
memoriale narrativo che come vero e
proprio sacrificio reso presente
esattamente per mezzo della formula
pronunciata dal sacerdote. Anche l’«hunc
praeclarum calicem» è divenuto
semplicemente «il calice»; ma mentre nel
primo caso si sottolinea l’azione in
persona Christi, per cui quel calice
dell’ultima cena è questo calice, nel
secondo caso questa sottolineatura è
omessa, favorendo ancora una volta lo
stile narrativo. Lei sa bene come nella
liturgia ogni parola, usata o non usata,
ogni gesto, ogni silenzio hanno un
valore e veicolano un’idea teologica.
Bugnini & C. sono passati come un
uragano, mettendo sottosopra una formula
consacratoria che mai nessuno aveva
osato alterare. Veramente qualcuno
l’aveva mutata: i protestanti; e se si
va a prendere il loro testo di racconto
della Cena, essi hanno precisamente il
medesimo testo presente nel nuovo
Messale. È veramente incredibile la
presunzione di Bugnini quando afferma
che la formula consacratoria presente
nel Canone «è per se stessa gravemente
incompleta dal punto di vista della
teologia della messa»(11)! Non meno
incredibili sono le motivazioni addotte
per la rimozione del «mysterium fidei»
dalla formula consacratoria, prima
dell’acclamazione dell’assemblea: «non è
biblica; si trova solo nel canone
romano; è di origine e significato
incerti; gli stessi periti discutono sul
senso preciso di queste parole. Anzi,
alcuni le intendono in senso addirittura
pericoloso perché la traducono: segno
per la nostra fede; interrompe la frase
e ne rende difficile il senso e la
traduzione»(12). E invece quel «mysterium
fidei» posto immediatamente dopo la
consacrazione del vino, ha un valore
enorme, perché afferma che è appena
avvenuta l’immolazione, per mezzo della
doppia consacrazione, che è il mistero
dei misteri della nostra santa fede. C’è
poi l’aggiunta delle acclamazioni
dell’assemblea, secondo tre differenti
formulari. A parte l’inopportunità di
inserire in questo punto
un’acclamazione, che interrompe la
sacralità del silenzio, occorre notare
che le prime due formule («Annunciamo la
tua morte...», e «Ogni volta che
mangiamo...») sono davvero molto
pericolose, perché spostano l’attenzione
dei fedeli alla «seconda venuta del
Cristo alla fine dei tempi proprio nel
momento in cui Egli è veramente,
realmente e sostanzialmente presente
sull’altare»(13), allorché si parla
dell’«attesa della tua venuta». Inoltre
la formula «Ogni volta che mangiamo...»
è del tutto inadeguata e nociva al senso
del sacrificio appena compiuto. Infatti
non sottolinea che è la consacrazione ad
«annunciare (nel senso di rendere
presente) la tua morte, Signore», bensì
il «mangiare il pane e bere il calice».
Questa acclamazione ha un sapore
fortemente protestante.
4. Ancora modifiche
A tutte queste modifiche si aggiungano
anche l’eliminazione della quasi
totalità dei segni di croce fatti dal
celebrante sulle oblate, sulle e con le
specie consacrate, per indicare che le
specie che si hanno davanti sono
realmente la Vittima di cui si parla. Le
genuflessioni sono state ridotte da sei
a due e sono state tolte quelle tanto
importanti che il sacerdote fa appena
terminate le parole di consacrazione del
pane e del vino. Non è più presente
nemmeno la preservazione delle dita del
sacerdote dopo la consacrazione e la
loro purificazione nel calice, il che
affievolisce ancora di più il senso
della presenza sostanziale di Cristo in
ogni frammento eucaristico. Sono state
omesse anche le precise e riverenti
prescrizioni nel caso in cui l’Ostia
consacrata abbia a cadere. La
purificazione dei vasi sacri può essere
posticipata E si potrebbe continuare. È
chiaro che la nuova forma non esprime
più in modo adeguato l’essenza
sacrificale della Messa e la presenza
sostanziale di Nostro Signore. Non
diciamo che neghi questi aspetti, ma
certamente non li significa più in modo
adeguato, aprendo così la strada a ciò
che di fatto è avvenuto e che è
denunciato da lei stesso.
La glorificazione di Dio
E dopo l’essenza della Messa, passiamo a
considerarne le finalità, la prima delle
quali è senza dubbio la glorificazione
della SS.ma Trinità per mezzo di Nostro
Signore Gesù Cristo. La liturgia ha
principalmente e sostanzialmente una
dimensione verticale e tutto il rito
deve esprimere e favorire questo
orientamento. Nel nuovo messale la
finalità ultima della liturgia (e di
ogni cosa) è quasi scomparsa. Il Gloria
Patri nell’antifona all’Introito è stato
omesso; il Gloria in excelsis Deo è
recitato meno frequentemente; solo la
Colletta termina con la formula
trinitaria («Per il nostro Signore Gesù
Cristo...»), mentre le altre orazioni
concludono semplicemente con «Per Cristo
nostro Signore»; la medesima conclusione
è stata tolta anche dopo le tre
preghiere che preparano alla Santa
Comunione e dopo il Libera nos Domine
che segue il Pater noster; la bellissima
preghiera dell’Offertorio Suscipe,
Sancta Trinitas, bellissimo compendio
della finalità del santo Sacrificio è
abolita; il Prefazio della SS.ma Trinità
non è più recitato tutte le domeniche ma
solo il giorno della Solennità della
SS.ma Trinità; è stato rimosso anche il
Placeat tibi, Sancta Trinitas, al
termine della Messa. Anche in questo
caso siamo di fronte ad una vera e
propria devastazione che priva i
sacerdoti ed i fedeli di quell’abituale
riferimento alla gloria della SS.ma
Trinità, che è il fine della vita e di
tutte le cose.
La propiziazione e l’espiazione
«L’aspetto più evidente di questa
rielaborazione [delle orazioni, n.d.A.]
è la quasi totale soppressione delle
espressioni relative al peccato e al
male (peccata nostra, imminentia
pericula, mentis nostrae tenebrae), e di
quelle relative alla necessità di
redenzione e perdono (puriores, mundati,
reparatio nostra, purificatis mentibus)»(14).
È la necessaria conseguenza del
principio di Bugnini, riportato più
sopra, di rivedere ciò che non è
conforme ai tempi moderni. L’idea di
essere peccatori, profondamente debitori
verso Dio, meritevoli dei Suoi castighi,
radicalmente incapaci di riparare da noi
stessi il debito contratto dai nostri
peccati è quanto di meno accettato
dall’uomo di sempre, e particolarmente
quello moderno. E così i tagli fioccano!
Prima vittima è l’implorazione «Deus tu conversus vivificabis nos» nelle
preghiere ai piedi dell’altare, seguita
dalle due orazioni che il sacerdote
recita quando è salito all’altare (Aufer
a nobis e Oramus te, Domine), nelle
quali domanda a Dio di allontanare le
proprie iniquità e perdonare i propri
peccati. Il Confiteor non è più recitato
dal sacerdote profondamente inchinato e
dai fedeli in ginocchio, entrambe
espressioni di umiltà e supplica. Con
l’abolizione dell’Offertorio, sono
sparite anche le due suppliche di
accettazione dell’offerta immacolata
«pro innumerabilibus peccatis et
offensionibus et negligentiis meis»,
come pure l’espressione «tuam
deprecantes clementiam». Il gesto di
stendere le mani sull’ostia ed il
calice, che indica il gesto del Sommo
Sacerdote che caricava dei nostri
peccati la vittima che stava per essere
immolata, nelle Preghiere eucaristiche
del nuovo Messale viene associato
all’invocazione dello Spirito Santo,
smarrendo così il significato espiatorio
del Sacrificio di Cristo. Anche i riti
appena precedenti la Santa Comunione,
che aiutano il sacerdote ed i fedeli a
ravvivare disposizioni interiori di
contrizione sono stati sensibilmente
modificati. Per entrambi il Domine non
sum dignus oltre alla variazione del
testo è stato ridotto da tre ad uno
soltanto, laddove invece la ripetizione
permette una sempre maggior
consapevolezza della propria indegnità
dinanzi a tanto mistero.
La sacralità
Anche su questo aspetto ci sarebbe molto
da dire. Ci basti in questa lettera
trarre qualche spunto da quanto lei
scrive in quel bel primo capitolo sulla
Sacra e divina liturgia: «Il sacro nella
messa antica è presente e si esprime
anche nei segni di croce e nelle
genuflessioni. Nel silenzio dei fedeli
durante la preghiera eucaristica, non
gridata ma pronunciata submissa voce a
voler così significare anche il gesto di
sottomissione e di umiliazione, dinanzi
a Dio, della nostra voce» (p. 23). E poi
aggiunge profonde considerazioni sulla
lingua sacra. Lei sa come tutto questo è
sparito. Se c’è un rimprovero generale
che si può fare alla Messa riformata è
che essa vuol far capire troppo. Il
leitmotiv è che tutti devono capire
tutto e subito. Il sacerdote deve sempre
parlare ad alta voce, i fedeli devono
parlare, le letture devono essere
moltiplicate, la lingua deve essere
capita, ecc. E c’è sempre meno spazio
per il silenzio ed il canto sacro, le
due espressioni somme della preghiera e
dell’adorazione. «Razionalità nella
liturgia e nessuna pietà»(15): era
questa l’accusa precisa che muoveva il
Cardinal Antonelli. Nulla di più vero.
Su questo aspetto ci sarebbero veramente
molte considerazioni da fare, a partire
dai paramenti, i vasi sacri, gli
edifici, il canto, la lingua, gli
atteggiamenti del corpo, etc.
Il sacerdozio
Una delle vittime privilegiate della
riforma liturgica è il sacerdozio (e
conseguentemente l’identità degli stessi
sacerdoti e la fedeltà alla loro
vocazione). Le annotazioni
precedentemente fatte sullo slittamento
in senso narrativo della formula di
consacrazione incidono fortemente
sull’intenzione del sacerdote che le
pronuncia. Anche a causa delle carenti
indicazioni rubricali circa la
posizione, il tono della voce, ecc., il
sacerdote è sempre meno condotto ad
intendere la celebrazione come actio
sacrificalis operata in persona Christi.
Il suo ruolo di insostituibile e
necessario mediatore e sacrificatore è
stato poi posto in ombra dalla riforma
liturgica sia per la rimozione di alcuni
elementi, che ben sottolineano la
differenza essenziale tra il sacerdote e
l’assemblea dei fedeli, sia per
l’eccessiva e imprecisa insistenza sul
sacerdozio comune. Per quanto riguarda
il primo aspetto - l’unico che
esamineremo - si veda quello che si è
verificato con l’atto penitenziale. Il
Confiteor, laddove non è sostituito dai
formulari alternativi, viene recitato
comunemente dal sacerdote e dai fedeli,
senza alcuna distinzione; il sacerdote
da Pater, diventa uno dei fratres.
Inoltre è stata omessa la formula di
assoluzione, atto esclusivamente
sacerdotale, che anche i protestanti
tolsero nella loro messa riformata.
Anche nelle nuove Preghiere eucaristiche
non si afferma più la distinzione tra il
sacrificio offerto dal sacerdote a cui
si associano i fedeli («pro quibus tibi
offerimus vel qui tibi offerunt»), ma
dice in generale «ti offriamo», oppure
nella Preghiera eucaristica III si parla
di «un popolo che da un confine
all’altro della terra offra al tuo nome
un sacrificio perfetto». La formula di
Comunione del sacerdote è divenuta meno
specifica ed è unita a quella dei
fedeli. Da due orazione si è passati ad
una; il sacerdote poi insieme ai fedeli
recita per una sola volta «O Signore,
non sono degno» (tralasciamo per brevità
la modifica della formula) e quindi si
comunica con le sole formule «Il Corpo [vel
Sangue] di Cristo mi custodisca per la
vita eterna». Quindi amministra subito
la comunione dei fedeli. In tal modo si
distingue sempre di meno il fatto che la
comunione del Sacerdote è necessaria per
il compimento del Sacrificio, mentre
quella dei fedeli, certamente
importante, non è essenziale. Nella
nuova impostazione la comunione del
sacerdote è semplicemente prima di
quella dei fedeli, mentre dovrebbe
risultare come parte strutturale e
conclusiva del Sacrificio, poiché è la
consumazione della Vittima divina.
La forma della ri-forma
Alla luce di tutte queste ed altre
modifiche (come la soppressione della
Chiesa trionfante, il biblicismo
dell’attuale Lezionario, etc.) non ci si
può esimere dal chiedersi che cosa sia
rimasto della dottrina cattolica sul
Santo Sacrificio della Messa. Si resta
ancor più attoniti allorché si confronti
il Novus Ordo con le modifiche delle
liturgie protestanti e gianseniste. Di
fronte alla realtà dei fatti non
possiamo seguire la sua indicazione per
cui «la riforma liturgica non deve
essere messa in dubbio...» (p. 68). È
invece doveroso per la custodia del
tesoro più prezioso che Nostro Signore
ci ha lasciato, per la conservazione del
Sacerdozio cattolico ed infine per la
salvaguardia e l’incremento della fede e
pietà dei fedeli, che si abbia il
coraggio di rivedere una riforma che
dimostra di essere fallita. Lei ha
affermato un po’ eufemisticamente: «Se
non si può dire che la riforma liturgica
non sia decollata, di certo ha volato
basso, Dunque, restano ombre da
dissipare sul come fu fatta. Si era
andati oltre le intenzioni del concilio?
Perciò, si faccia tregua nella
battaglia: ora l’usus antiquior della
messa è tornato a mo’ di specchio
accanto al nuovo. Se alcune nuove forme
rituali sono sembrate un cedimento allo
spirito del mondo, un pacato
approfondimento e una revisione o
restituzione delle antiche potrà
allontanare ogni timore» (p. 59). Se è
veramente così, se cioè c’è stato
bisogno di far ritornare la Messa
tridentina perché la nuova potesse
ritrovare la sua identità, ciò significa
semplicemente che la riforma ha fallito.
Non è stata ri-forma nel senso da lei e
da noi auspicato, ma è stato il
conferimento di una nuova forma alla
Messa, una forma che costituisce «un
impressionante allontanamento dalla
teologia cattolica della Santa
Messa»(16). Non è mai capitato nella
storia della liturgia che un Messale
riformato dovesse rifarsi al precedente
per poter recuperare l’autentico spirito
liturgico. Noi celebriamo con il Messale
del 1962 e sebbene abbiamo in somma
stima le precedenti edizioni, non
abbiamo bisogno di riferirci ad esse
come ad uno «specchio accanto al nuovo»,
perché il Messale del 1962 ha conservato
lo stesso spirito - e anche la lettera!
- dei precedenti. Con tutto ciò non
vogliamo affermare che sia eretico chi
celebra secondo il nuovo rito; ma quel
che è chiaro è che esso favorisce uno
spirito ed una pietà che non sono
autenticamente cattoliche. Piano piano
si assorbe una mentalità che non è più
cattolica. E se può essere possibile che
chi celebra la Messa secondo il Novus
Ordo o vi assiste riesca a conservare
uno spirito cattolico, è però realistico
ammettere che ciò avviene non grazie a
quella Messa, ma nonostante essa. In
altri termini se anche la fede cattolica
può essere mantenuta nell’intimo, il
rito liturgico non ne è più
l’espressione esterna. È un po’ come
quando si entra nelle nuove chiese di
pessima architettura: teoricamente in
esse si può pregare, ma è bene chiudere
gli occhi... Non c’è nulla in queste
chiese che aiuta l’anima ad elevarsi, la
mente a raccogliersi, il cuore a
scaldarsi di fuoco soprannaturale. Per
questo motivo non possiamo essere
d’accordo con lei quando afferma che
«chi celebra secondo l’uso antico deve
evitare di delegittimare l’altro uso, e
viceversa. Quindi non è ammesso un
diniego a celebrare il nuovo per partito
preso, non sarebbe segno di comunione
rifiutarsi, per esempio, di concelebrare
con un vescovo che intendesse farlo
secondo il nuovo messale...» (p. 64).
Non possumus! Davvero è impossibile
coniugare questa riforma con la
tradizione; e sottolineiamo ancora il
dimostrativo, perché non è lo sviluppo
storico che neghiamo, non è la saggezza
dell’et-et cattolico in quella
meravigliosa sintesi tra «rinnovamento e
tradizione, innovazione e continuità,
attenzione alla storia e consapevolezza
dell’Eterno...» (p. 10), messo in luce
da Vittorio Messori nella Prefazione.
Non è questo. Non è forse vero che il
Patrono della nostra Fraternità, cioè
san Pio X, è stato uno dei più grandi
riformatori (anche in ambito liturgico)
della storia della Chiesa? Quello che
noi non possiamo accettare è che questo
et-et sia dato hegelianamente, come
sintesi di contraddittori, in una
identità tra il reale ed il razionale.
«Salvare i fenomeni»! Era questo,
secondo la profonda lettura di Taylor(17),
l’imperativo della filosofia di Hegel:
salvare razionalmente la storia ed i
suoi momenti, affermando
idealisticamente che ognuno di essi è
tappa di uno stadio ulteriore. E così
Hegel perde l’essenza delle cose,
smarrisce il criterio di verità o
falsità. «Salvare la riforma» sembra
essere il motto di quel nuovo movimento
liturgico che lei auspica nell’ultimo
capitolo. Ma non si era detto di
confrontarsi sulla liturgia «senza alcun
pregiudizio»?
Rev.do don Bux, tiriamo le fila di
questa lunga lettera, anzitutto con un
invito alla speranza. Per lei e per noi.
Non è impossibile uscire da questa
situazione e forse su questo lei sarà
d’accordo con noi; Nostro Signore non
abbandona mai chi cerca la Sua gloria ed
il bene delle anime. Ma forse non sarà
sulla nostra stessa linea d’onda,
allorché le confessiamo che siamo certi
che il ritorno al sacro non si farà
cercando di mettere insieme il Vetus ed
il Novus Ordo. Umanamente può sembrare
l’unica via percorribile per non
provocare rotture, a scandalo della fede
di tanti credenti già largamente
provata. Ma non è così. La situazione
liturgica nella Francia del XVIII ed
inizio del XIX secolo non era meno
drammatica della nostra. L’anarchia
liturgica era all’ordine del giorno e si
diffondevano riti fai da te , con lo
scopo più che nobile di ritrovare
l’autentico spirito liturgico. Dom
Prosper Guéranger, il grande abate di
Solesmes, dopo aver presentato
l’incredibile situazione di quel momento
così conclude: «Tale era dunque lo
sconvolgimento di idee nel diciottesimo
secolo che vide dei prelati combattere
gli eretici e nello stesso tempo, per
uno zelo inspiegabile, attaccare la
tradizione nelle sacre preghiere del
messale; confessare che la Chiesa ha una
voce propria, e far tacere questa voce
per dare la parola a qualche dottore
senza autorità. Tale fu la sciocca
tracotanza dei nuovi liturgisti, che non
si proponevano niente meno, e ne
convenivano, che di ricondurre la Chiesa
del loro tempo al vero spirito di
preghiera; di purgare la Liturgia dagli
elementi poco puri, poco esatti, poco
misurati, piatti, difficili da capire
correttamente, che la Chiesa, nei pii
moti della sua ispirazione, aveva
sventuratamente prodotto ed adottato.
Per il più giusto di tutti i giudizi,
tale era la barbarie entro la quale
erano caduti i francesi riguardo al
culto divino, essendo stata distrutta
l’armonia liturgica, che la musica, la
pittura, la scultura, l’architettura,
che sono le arti tributarie della
Liturgia, la seguirono in una decadenza
che non ha fatto altro che accrescersi
negli anni»(18). Tale era dunque la
situazione, che ha una rassomiglianza
impressionante con la nostra. E come si
uscì da questa situazione? Con il rito
romano di sempre, puro e semplice. Lei
chiede una "tregua" sulla liturgia ora
che il Rito tradizionale "è ritornato a
casa"; tuttavia pur cogliendo il suo
intento ci sembra che su questa
ipotetica tregua gravi ufficialmente
proprio uno di quei pregiudizi che lei
invita ad evitare: quello di far
soffrire al Messale del 1962 condizioni
di inferiorità rispetto al messale di
Paolo VI. Le facciamo notare che, mentre
oggi si parla di forma "ordinaria" e
"straordinaria", perfino Mons. Gamber,
molti anni or sono, nel libro già citato
(che poté godere della prefazione di
quattro illustri prelati: Mons. Nyssen,
i Cardinali Stickler e Oddi e l’allora
Cardinal Ratzinger) proponeva una tregua
in termini diversi (e in un certo senso
opposti) ai suoi: «La forma della messa
attualmente in vigore non potrà più
passare per rito romano in senso
stretto, ma per un rito particolare ad experimentum. Solo l’avvenire mostrerà
se questo nuovo rito potrà un giorno
imporsi in modo generale e per un lungo
periodo. Si può supporre che i nuovi
libri liturgici non resteranno per molto
tempo in uso, perché gli elementi
progressisti della Chiesa nel frattempo
avranno certamente sviluppato nuove
concezioni riguardo l’ organizzazione
della celebrazione della messa»(19). In
ogni caso restiamo profondamente
convinti che il Rito tridentino, con
l’impianto dottrinale su cui si fonda,
che esprime e che veicola non possa che
evidenziare la sostanziale
incompatibilità del rito di Paolo VI con
la dottrina cattolica. Riteniamo che i
due riti possano coesistere solo se non
se ne coglie l’opposta valenza
dottrinale, oppure se ci si basa su una
filosofia che coniuga i contraddittori;
una liturgia infatti presuppone sempre,
attraverso e al di là dei segni che
utilizza, una precisa dimensione
dottrinale e spirituale che non può
essere in alcun modo dissociata dal rito
stesso. Celebrare in un modo, credendo
in qualcosa di diverso non è normale e
in ultima analisi non sarebbe nemmeno
onesto. Illustriamo la cosa con un
esempio semplice e alla portata di
chiunque. Come può un medesimo sacerdote
offrire sullo stesso altare "La Vittima
Immacolata" e il "pane frutto della
terra e del lavoro dell’uomo", credendo
e facendo credere che le due espressioni
si equivalgano? Come può la medesima
istituzione fare suoi due segni così
manifestamente opposti illudendosi di
spiegare l’uno attraverso l’altro senza
perdere ulteriormente la propria
identità e senza aumentare ulteriormente
la confusione dei semplici? Che ci
sarebbe in comune tra questo nuovo
linguaggio liturgico e il sì sì-no no
evangelico? Non c’è in noi alcun dubbio
che chiunque si accosti senza pregiudizi
al Messale romano tradizionale possa
ripetere l’esperienza che ebbe dom
Guéranger, quando per la prima volta, da
semplice prete, si accostò
accidentalmente al rito romano, egli che
di quel rito fino ad allora era tutt’altro
che simpatizzante: «Malgrado la mia poca
simpatia per la liturgia romana, che
d’altronde non avevo mai studiato
seriamente, mi sentii subito penetrato
dalla grandezza e dalla maestà dello
stile impiegato in questo messale. L’uso
della Sacra Scrittura, così grave e così
pieno d’autorità, il profumo di
antichità che emana questo libro, i suoi
caratteri rosso e nero, tutto ciò mi
trascinava a capire che stavo scoprendo
dentro questo messale l’opera ancora
vivente di questa antichità
ecclesiastica per la quale ero
appassionato. Il tono dei messali
moderni mi parvero allora sprovvisti
d’autorità e di unzione, avvertendo
l’opera di un secolo e di un paese e nel
contempo di un lavoro personale»(20). È
l’esperienza che auguriamo di cuore a
Lei e a tutti i confratelli del mondo!
Con stima.
Note
(1) Lettera a Paolo VI dei Cardinali
Ottaviani e Bacci, 1.
(2) L’intervista, pubblicata in lingua
francese da Courrier de Rome del giugno
2004, è integralmente consultabile sul
sito www.unavox.it.
(3) K. Gamber, La Réforme liturgique en
question, 1992, p.42.
(4) Pio XII, Mediator Dei, 20 novembre
1947.
(5) M. Barba, La riforma conciliare
dell’«Ordo Missae», Roma, 2002, p. 214.
(6) A Bugnini, La riforma liturgica
(1948-1975), Roma, 1997, p. 443.
(7) Concilio di Trento, Sessione XXIII,
17 settembre 1562, Decreto e canoni
sulla Messa, c. IV:
(8) M. Barba, La riforma conciliare …,
cit., p. 137.
(9) A Bugnini, La riforma liturgica…,
cit., p. 446.
(10) Cfr. ibid., p. 444.
(11) ibid., p. 448.
(12) ibid., pp. 448-449.
(13) Breve esame critico del Novus Ordo
Missae, Le formule consacratorie.
(14) L. Bianchi, Liturgia. Memoria o
istruzioni per l’uso?, Milano, 2002, p.
59.
(15) N. Giampietro, Il Card. Ferdinando
Antonelli e gli sviluppi della riforma
liturgica dal 1948 al 1970, Roma, 1988,
p. 234.
(16) Lettera a Paolo VI dei Cardinali
Ottaviani e Bacci, 1.
(17) Cfr. C. Taylor, Hegel, Cambridge,
1975, p. 494.
(18) P. Guéranger, Institution
liturgique, t. II, c. XX, pp. 393-394.
(19) K. Gamber, La Réforme liturgique…,
cit., p.76.
(20) P. Guéranger, Mémoires
autobiographiques (1805-1833), Solesmes,
2005, p. 81
7/4/2009 (la
premessa è stata rielaborata dal
redattore del sito)