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Nota dolente: Veglie Separate
Un sacerdote ci chiede documenti per far desistere il suo parroco,
neocatecumenale, dal celebrare due Veglie Pasquali separate nella sua
parrocchia.
Gli abbiamo dato i seguenti riferimenti:
1. «Le azioni liturgiche non sono mai azioni private, ma celebrazioni della
Chiesa, sacramento di unità» (cfr SC, 26) .
2. La nota pastorale della Cei "Il giorno del Signore" (1984)... «Al di là
delle buone intenzioni» questa prassi delle «messe "concorrenziali" e
comunque contemporanee [lo stesso vale naturalmente per la veglia pasquale]
risulta di grave pregiudizio per la cura pastorale» e rischia di
«compromettere la verità della celebrazione festiva» (n. 32).
3. Per quanto riguarda in particolare la veglia pasquale, la
Congregazione per il culto divino, con una lettera circolare del 1988 sulla
"Preparazione e celebrazione delle feste pasquali", ha stabilito, n.
94: «Si favorisca la partecipazione dei gruppi particolari alla celebrazione
della veglia pasquale, in cui tutti i fedeli, riuniti insieme, possano
sperimentare in modo più profondo il senso di appartenenza alla stessa
comunità ecclesiale».
4. C'è anche una nota della Conferenza episcopale pugliese che così applica
il documento sopra citato:
"Uno dei punti di frizione più frequenti è la celebrazione della Veglia
pasquale. Gli aderenti al “Cammino” sin dall'inizio hanno elaborato una
forma celebrativa particolare più ampia, arricchita di ulteriori elementi,
prolungata per l'intera notte fino all'alba, e dichiarano che essa
costituisce per loro un momento fondamentale, praticamente insostituibile.
Questa esigenza però entra in conflitto con l'altra non meno importante di
non frazionare la comunità cristiana in gruppi separati, in eucaristie
“parallele”, proprio nel momento culminante di tutto l'anno liturgico, nella
celebrazione di quel mistero di salvezza che ci fa Chiesa introducendoci
nella comunione con Dio e con i fratelli. La Congregazione del Culto divino,
nella lettera Paschalis sollemnitatis del 16.1.1988, così si esprime: “Si
favorisca la partecipazione dei gruppi particolari alla celebrazione della
Veglia pasquale, in cui tutti i fedeli riuniti insieme, possano sperimentare
in modo più profondo il senso di appartenenza alla stessa comunità
ecclesiale.
Pertanto, in ogni Parrocchia, dopo aver celebrato una sola Veglia pasquale,
i gruppi neocatecumenali (senza escludere altri fedeli eventualmente
disponibili) potranno intrattenersi ancora fino all'alba, però senza
ripetere nessuno dei quattro momenti liturgici essenziali previsti dal
Messale romano (la liturgia della luce, della parola, dell'acqua - con
eventuali battesimi - e della eucaristia), ma solo aggiungendo altri
elementi celebrativi e didattici, preghiere, canti, meditazione personale,
scambio di esperienze, momenti di festa e di fraternità. Non dunque due
Veglie successive, ma dopo l'unica Veglia liturgica vera e propria un
prolungamento celebrativo.
Il vero problema è che ci sembra francamente impossibile far valere il
Magistero di fronte ad un parrocco neocatecumenale che, paradossalmente (per
noi), è solito obbedire a Kiko piuttosto che al Papa (lettera Arinze docet)
Ci preme rilevare che non si tratta di una questione "giuridica", ma di
un dato che sancisce una sensibilità liturgica e spirituale "altra".
A questo proposito è opportuno conoscere le differenze.
La Pasqua cristiana
Il nesso tra Pasqua giudaica e Pasqua cristiana si situa a un livello
ben più profondo della coincidenza cronologica, ovvero nella comprensione
dell'evento Cristo in chiave storico-salvifica attraverso la griglia di
lettura fornita dalla Pasqua storica dell'Esodo, memoriale del riscatto del
popolo di Israele dalla schiavitù d'Egitto. Qui troviamo le ragioni non più
solo della continuità tra la Pasqua di Israele e quella della chiesa, ma
anche e soprattutto dello scarto che separa la seconda dalla prima, scarto
la cui misura è data dalla tipologia, cioè dalla struttura binaria che ora
taglia l'intera storia dell'umanità e che ha il suo punto discriminante in
Cristo.
La realtà non è più univocamente orientata e determinata, ma è ora
suddivisa in due versanti (due "economie'), quello della figura (typos)
e quello della verità, quello dell’immagine e quello della realtà, quello
del preannuncio e quello del compimento, quello della Legge e quello del
Verbo. Tutto questo presuppone che le realtà della storia di Israele perdano
consistenza propria e assumano significato solo in rapporto a Cristo. Questo
trasferimento, quanto alla Pasqua di Es12, è già presente nella perentoria
proclamazione dell’Apostolo Paolo: "Cristo, nostra Pasqua (Pascha nostrum)
è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio né
con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di
verità" (1 Cor 5, 7-8)
Quindi gli elementi rituali della Pasqua di Es 12 appaiono risignificati e
trasferiti su Cristo come Pascha, qui da intendere nel senso di
"agnello pasquale" immolato, l'agnello il cui sangue valse agli ebrei la
salvezza dal flagello di sterminio" con cui Dio colpì l'Egitto (Es 12,
7-13). Anche il Vangelo di Giovanni legge la morte di Cristo in croce (il
giorno di Pasqua, nell'ora in cui nel tempio i sacerdoti uccidevano gli
agnelli) come immolazione dell'agnello pasquale, al quale "non sarà spezzato
alcun osso" (Es 12, 46, citato in Gv 19, 36).
Anche altrove nel Nuovo Testamento - in particolare 1 Pt 1,19 ("foste
liberati ... con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti
e senza macchia": cf. Es 12, 5; ma anche 1 Pt 2, 9: "Vi ha chiamati dalle
tenebre alla sua ammirabile luce", da confrontare con Pesachim e
Melitone) - si segnalano tracce di una haggadah pasquale cristiana,
cioè di una illustrazione/spiegazione del significato della Pasqua (era una
delle componenti del rito ebraico) in una prospettiva cristologica. Questa
haggadah diviene la struttura stessa delle più antiche omelie
pasquali cristiane, che poggiano sulla trasposizione tipologica delle
prescrizioni di Es 12, la cui lettura durante la liturgia è esplicitamente
attestata.
Ma sono gli stessi racconti evangelici della passione a mettere in risalto
la natura "pasquale" del sacrificio di Cristo (e non stupirà, dunque, che
per l'intero Vangelo di Marco - definito, com'è noto, un racconto della
passione con una lunga introduzione - sia stata avanzata l'ipotesi di
un'origine come 'haggadah pasquale cristiana").
Non è escluso, anzi, che proprio questa comprensione - e la sua traduzione
liturgica nelle prime comunità cristiane - si sia imposta sul resoconto
storico-cronachistico degli eventi della passione e sia quindi all'origine
della discordanza cronologica tra i racconti sinottici e quello di Giovanni.
Per quest'ultimo, come abbiamo visto, Gesù muore il 14 del mese di Nisan,
giorno della Pasqua giudaica (Gv 18, 28: i giudei non entrano nel pretorio
"per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua"); per i Sinottici, invece,
l'ultima cena di Gesù è per l'appunto un banchetto pasquale tenuto la sera
del 14 Nisan (Mc 14, 12-16; Lc 22, 15: "Ho ardentemente desiderato mangiare
questa Pasqua con voi prima di patire").
Per Giovanni, dunque, Cristo stesso è l'agnello pasquale immolato, cui non
viene "spezzato alcun osso": questa prospettiva diviene il motivo guida
della primitiva teologia pasquale: "Al posto dell'agnello il Figlio di Dio"
(Melitone, Pseudo Ippolito, Apollinare di Gerapoli); nella prospettiva dei
Sinottici, invece, la risignificazione dell'immolazione pasquale avviene a
livello rituale, nel cenacolo, ma ha comunque come centro la morte
redentrice di Cristo (Lc 22, 19: "Questo è il mio corpo dato per voi: fate
questo in memoria di me"). La chiesa antica ha mantenuto un filone che
collega la notte di Pasqua con la Pasqua-eucaristia dell'Ultima Cena. Canta
un inno di Efrem Siro:
Beata sei tu, o notte ultima, perché in te si è compiuta la notte
d'Egitto. Il Signore nostro in te mangiò la piccola Pasqua e divenne lui
stesso la grande Pasqua: la Pasqua si innestò sulla Pasqua, la festa sulla
festa. Ecco la Pasqua che passa e la Pasqua che non passa; ecco la figura e
il suo compimento.
È stato ipotizzato che i racconti sinottici della cena pasquale siano la
storicizzazione delle prime liturgie pasquali dei cristiani, cioè del
memoriale con cui i cristiani riconoscevano nella immolazione in croce di
Cristo la nuova Pasqua redentrice del (nuovo) popolo di Dio. Come che sia, i
Sinottici e Giovanni ci ammettono da punti di inserzione diversi in quella
piena circolarità tra l'evento originario e la sua traduzione/attualizzazione
sacramentale che può forse confondere i termini dell'esatto decorso storico
ma non meno realmente pone la croce e l'eucaristia al centro della Pasqua
dei cristiani.
Come crediamo appaia da quanto siamo venuti illustrando, la pasqua non
rappresenta nella chiesa antica esclusivamente - e nemmeno primariamente -
la festa della risurrezione, bensì la festa della salvezza nella sua
globalità e onnicomprensività. I termini del mistero pasquale sono i termini
del disegno salvifico di Dio, il mistero di Pasqua è tout-court il mistero
di Cristo, come recita Melitone nella sua omelia pasquale (§ 65). La Pasqua,
proclama lo Pseudo Ippolito, è "Dio apparso come uomo e l'uomo asceso ai
cieli come Dio". Perno di questo movimento è, casomai, la croce piuttosto
che la risurrezione, secondo una correlazione amplificata dai cristiani
attraverso il nesso etimologico che vollero instaurare tra Pascha e
páschein (in greco patire), cioè tra Pasqua e passione.
Questo nesso, però, si estese fino a mettere in relazione il patire di
Cristo con il patire dell’uomo, dilatando il mistero pasquale fino alle
origini stesse dell’umanità, allorché Adamo cadde preda del peccato e della
morte; a supporto intervenne la stessa comprensione tipologica della Pasqua
storica di Es 12, sotto la cui figura (liberazione degli ebrei dalla
schiavitù d'Egitto e del faraone) si vide adombrata la realtà del riscatto
dell'umanità dalla schiavitù del mondo e del demonio, facendo della Pasqua
di Israele il paradigma della liberazione dell'uomo dal male e dalla morte.
Dunque, così lo Pseudo Ippolito mirabilmente fonde Pasqua, croce ed
eucaristia:
Questa era la Pasqua che Gesù desiderava patire per noi. Con la passione
ci ha liberati dalla passione, con la morte ha la morte e per mezzo dei suo
cibo visibile ci ha elargito la sua vita immortale.
Melitone risponde in questo modo alla domanda: cos'è la Pasqua?
Apprendete dunque chi è colui che patisce (l'uomo) e chi è colui che ha
compatito con chi patisce (Cristo) e apprendete perché il Signore è venuto
sulla terra, per rivestire colui che pativa e trascinarlo verso la sommità
dei cieli.
I confini della Pasqua sono quelli della storia della salvezza, il suo
baricentro è la morte redentrice di Cristo, che porta alla Risurrezione.
La Pasqua neocatecumenale
Queste coordinate sembrano perse di vista dai NC, a giudicare dall'esempio
sotto riportato, riferito alla "spiegazione ai bambini della Pasqua",
infarcita di ritualità ebraica (!?) che fa capire anche il perché della loro
scelta di riprodurre nella Veglia, l'haggadah giudaica, sia pure
integrata da alcuni brani del Nuovo Testamento, piuttosto che la ritualità
celebrata dalla Chiesa.
Sapete quali sono i punti e i motivi della scelta, ciò che li rende così
attenti e "attaccati" ai testi giudaici, ma non abbastanza rispettosi da non
stravolgere anche questi, tanto che ne risulta un fritto misto che non ha
niente di cristiano, forse un po' più di ebraico (salvo che
le aggiunte di brani del Nuovo Testamento ne fanno un'anomalia assurda)?
Li identifichiamo nelle osservazioni sulle due benedizioni, cui seguiranno
altre osservazioni su altri momenti significativi
del lungo e articolato 'rituale' che viene usato a cura dei didascali per
l'insegnamento ai bambini (!):
MAESTRO DEL SEDER:
barùck atta, adonhaj elohenu
BENEDETTO TU, O SIGNORE, DIO NOSTRO, RE DEI. MONDO che hai fatto di noi
un regno di sacerdoti, re e profeti.
UOMINI:
barùck atta, adonhaj elohenu
BENEDETTO TU, O SIGNORE, DIO NOSTRO, che da un'accozzaglia di schiavi e
una genìa di ribelli, hai fatto di noi "non-popolo" il tuo popolo,
popolo eletto tra tutti i popoli, uniti, legati dalla tua fedeltà.
Questo rafforza il senso di elezione, il loro forte elitarismo, ma non
tiene conto che il cristianesimo ha interiorizzato e insegna questa stessa
realtà presente in ogni cristiano che la riceve dal Signore Gesù (non dal
maestro del coro che invoca il Dio dell'Antico Testamento, quando QUEL DIO
ci ha mandato il SUO FIGLIO ed è LUI che ogni cristiano conosce e invoca!)
VOCE GUIDA: Terminata la ricerca. l'HAMETZ (cibo lievitato) viene
portato all'aperto e viene gettato per terra in un braciere, dove sarà
bruciato insieme ai LULAV (le palme) dell'anno passato.
Sapete cosa viene fatto qui? La scimmiottatura di una bella e
significativa usanza ebraica, ma non si tiene in alcun conto che nel
cristianesimo queste cose sono superate: il "lievito" = il male cercato
fuori di noi e bruciato nel bracere, nel cristianesimo viene individuato con
l'esame di coscienza (che non sanno nemmeno cos'è anche perché Carmen lo
critica in maniera feroce) e poi "rimosso" con il "perdono ottenuto
direttamente da Dio attraverso il Sacramento della riconciliazione, grazie
al fatto che ogni nostro peccato è già stato redento dal Sangue del Suo
Figlio!
E dicono i rabbini che, a ben guardare, tutte le lettere sono
uguali, l'unica differenza che separa la MATZAH dall'essere HAMETZ è
solo un puntino, ad indicare che quando Israele uscì dall'Egitto era
così degenerato per la dura schiavitù che solo un puntino lo separava
dalla morte eterna, dallo stato in cui Dio - secondo i saggi - non può
più salvare l'uomo perché si è così degradato da aver perso ogni
sensibilità spirituale e, nella sua libertà, non vuole più nemmeno
essere salvato. Se Dio non fosse intervenuto in tutta fretta a
liberarlo. Israele sarebbe rimasto in Egitto.
Ecco perché bisogna eliminare il lievito, perché quando passa il Signore
a liberare Israele c'è fretta, non c'è tempo per aspettare, mentre il
pane per levitare ha bisogno di tempo.
E bisogna eliminarlo tutto, perché "la minima quantità di lievito, rende
HAMETZ tutta la pasta" (1Cor. 5,6).
Capite che questo rende possibile a noi di eliminare il male individuato
all' "esterno" e personalizzato sì successivamente, ma con atti collettivi
che escludono il rapporto intimo personale col Signore anche a questo
riguardo!
E l'eliminazione del male avviene attraverso una ritualità ebraica - a noi
estranea e comunque superata - e non attraverso il perdono sacramentale
della Riconciliazione e la Grazia Santificante ricevuta
anche nell'Eucaristia! Con la mediazione e grazie alla morte salvifica di
Cristo e alla sua Risurrezione! Che fine hanno fatto questi insegnamenti
cristiani? E non è QUESTO che insegnano ai bambini! Sappiamo che hanno le
penitenziali e che ogni tanto le confessioni avvengono; ma sia questa 'ritualità'
artefatta che la
predicazione kikarmeniana sul peccato non sviluppano certo il 'sensus
fidei' della Chiesa!
Siamo rimasti a quello che dicono i rabbini e che fine fa quello che dice la
Chiesa nel suo Magistero ricco di tesori e per loro, nemmeno tanto illustre,
sconosciuto?
Altro che sincretismo e stravolgimento. Né ebraismo né cristianesimo. Pura
follia. Un non senso immane! Però ha la sua suggestione su menti e anime e
soprattutto sulla emotività di persone che non conoscono gli insegnamenti
della Chiesa e il vero Volto di Cristo e che trovano 'scialba' la VERA
Veglia vissuta nella Chiesa perché non è dato loro coglierne il senso più
sobrio sì, ma più profondo e più vero!!
Quando parliamo di liturgia parliamo di qualcosa di sacro, non
affidato alla creatività del primo pinco pallino che si presenta con tante
suggestive, o meglio suggestionanti, innovazioni che hanno sovvertito il
significato delle verità della nostra Fede... parliamo di qualcosa di serio e
di grande che va custodito e vissuto con partecipazione e rispetto perché è
Opera di Dio, non opera nostra come sembrano credere loro... è la Santa e
Divina Liturgia, non è una Cena e nemmeno uno show!
E se, com'è ormai una costante, il Cammino oppone a qualunque critica o
richiesta di adeguamento la speciale approvazione della Chiesa, non si può
nascondere un vero turbamento spirituale davanti a regole generali (che più
che regole sono prassi liturgiche che connotano l'identità cattolica) nella
Chiesa, così solennemente affermate e contemporaneamente così clamorosamente
vanificate, con una permissività che di fatto sconvolge la vita delle
comunità parrocchiali. Quelle stesse che dovrebbero essere il terreno di
nascita e crescita del cammino e che i suoi appartenenti dovrebbero fin dal
principio imparare ad amare come la casa comune di tutti. Altrimenti, perché
non andarsene in una casa propria, senza invadere quella degli altri?
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