Nell’Omelia agli artisti del 17 maggio 1964 Papa Paolo VI rilevava: «E se Noi
mancassimo del vostro ausilio [artistico], il ministero diventerebbe balbettante
ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso
stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza di
espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere
il sacerdozio con l’arte».
Benedetto XVI non mancò di sottolineare, ricordandola nella riflessione
rivolta agli artisti da lui riuniti nella Cappella Sistina il 21 novembre
scorso, «l’arditezza» dell’espressione. Ne scrissi qui il 4 febbraio, ma il
concetto richiede di essere ulteriormente scavato.
Paolo VI infatti esprime con chiare parole il nerbo alla base della adorante
costruzione di artisticità sviluppata nella Chiesa fin dalle sue origini intorno
all’Ostia consacrata: si alza in modo misterioso un intreccio sublime tra
magistero propriamente ministeriale e magistero artistico o visivo, intreccio
per il quale il primo rappresenta in un certo senso le colonne della stabilità e
il secondo si slancia «nello sforzo di diventare profetico».
I fedeli, garantiti dalle colonne della fede, si lasciano naufragare nella
felice speranza aperta dall’arte. Vogliamo dirlo con altre parole? Ecco che il
dogma, le verità arcane ma reali nascoste nell’Ostia consacrata, insegnate dalla
Chiesa nel suo bimillenario ministero a partire dai due misteri principali della
fede, Trinità e Incarnazione, vengono illustrate in tutta la loro vastità e
pregnanza dagli edifici innalzati intorno alla Transustanziazione e da tutte le
più significanti figure con cui l’arte poteva manifestare «l’espressione lirica
della bellezza intuitiva».
Così la sapienza del magistero ministeriale si espande nel vibrante afflato
«profetico» dell’arte, che altro non è che la pulchritudo delle verità
insegnate. Viene tessuto nella Chiesa l’unicum del soprannaturale ordito che si
diceva: quasi che Papi, vescovi e teologi srotolino nei secoli la trama del
divino Annuncio nel gran disegno che via via si forma nella Traditio, e artisti
e architetti tessano poi il disegno così preparato coi fili d’oro e di ogni
altro più fragrante colore nell’audacia di figure di incantata bellezza. Mi si
permetta di poter affermare di aver individuato nel distico «tradizione e
audacia» ciò che, di quest’impalpabile ordito con cui di secolo in secolo si è
andato costruendo e rafforzando l’incontro tra magistero e arte, potremmo
chiamare il criterio normativo, il metodo paradigmatico e universale. E oltre
ciò di poterne far riemergere, di questo casto e sublime incontro tra parola
sacra e immagine sacra, la causa metafisica e ultima, da tempo stranamente e da
gran tempo lasciata sepolta – e di ciò, non solo i più accorti si stupiranno non
poco –.
Ora vedremo da vicino, del sacro ordito, il criterio normativo; in un
prossimo articolo la causa metafisica. E qui ringrazio «L’Osservatore Romano»
per la cortesia di ospitarmi, dandomi così modo di esporre un pensiero la cui
stesura dovrebbe permettere di disegnare con chiarezza ciò che potremmo chiamare
gli assi cartesiani più certi di quell’incontro tra Bellezza e Verità che è
sulla bocca di tanti innamorati perdutamente dell’una e dell’altra.
Il concetto di «tradizione e audacia» comparve su queste pagine per la prima
volta il 13 luglio scorso, in concomitanza del Seminario su Architettura e Arte
sacra alla luce del pensiero di Benedetto XVI, tenuto nella Biblioteca della
Pontificia Commissione dei Beni Culturali, aperto dal suo Prefetto,
l’arcivescovo Gianfranco Ravasi; sono grato a Monsignore per aver voluto
cogliere in detto binomio, come esposto dalla mia relazione che egli lì volle
citare, la chiave per aprire ancora una volta le porte della Chiesa alla
Pulchritudo, «definendo in queste due parole – disse – di “tradizione” e
“audacia”, l’orizzonte entro cui l’artista deve agire per ben confrontarsi con
le esigenze del sacro».
Il punto di partenza del percorso che ci porterà al concetto raccolto da
monsignor Ravasi è capire bene cos’è una «novità», cos’è quella cosa che
facciamo tutti i giorni e che manda quotidianamente avanti la storia.
Una «novità», dice il vocabolario, nasce dalla sintesi di due opposti: 1):
«qualcosa che nasce e viene dalla storia», 2): «con una sfumatura di
originalità»; sfumatura più o meno accentuata, secondo il genius.
Va sottolineato che «storia» e «originalità» appartengono entrambe
all’essere: in primo luogo abbiamo dunque la «storia», o «esperienza», o
«memoria», o «tradizione» dell’essere, che ci precede appunto essendoci, ci
rassicura, ci garantisce e ci offre i mezzi per fare le cose grandi e piccole
che facciamo ogni giorno: regole, leggi, consuetudini, insegnamenti, tecniche,
codici (di comportamento, del gusto, del senso comune, del religioso, eccetera),
governano il «come si fa»; in secondo abbiamo l’«originalità», per ottenere la
quale ci vuole almeno un pizzico di audacia, che guizza e sguscia
nell’invenzione, a volte persino in una sorta di «disobbedienza» alle leggi e
agli standard normativi, nella latina inventio (lett.: scoperta), fino a trovare
il pertugio da cui far scaturire in tutta la sua fragranza il bagliore magari
anche splendido della pulchritudo.
La «novità» è riposta in ciò che facciamo tutti i giorni per andare avanti:
comprare un chilo di pane, pregare con fede Dio già lodandolo per un miracolo
non ancora compiuto, dipingere un’Annunciazione come non se n’era mai viste,
sono tutte azioni accomunate dalla medesima duplice spinta: spinta della
«tradizione» perché si sa cos’è il chilogrammo, cos’è il pane, a cosa serve
mangiare, poi cos’è pregare, chi è Dio, cos’è un miracolo, cosa una pittura,
cosa l’Annunciazione, cosa un dialogo soprannaturale, uno sguardo, un incarnato,
eccetera; spinta poi, garantiti in tutte queste mille conoscenze dal bene
dell’essere delle cose già fatte e che ci servono a modello per poterci
regolare, nell’«audacia» del nostro fare comprando effettivamente un chilo di
pane magari con gli ultimi spiccioli rimasti e confidando nel Signore, pregando
contro ogni speranza e anzi ringraziando Dio in antecedenza come il centurione,
dipingendo il volto della Vergine tutto raccolto in una tenerezza che nemmeno
Giovanni Bellini.
L’equilibrio delle due spinte dipende dal genius del facente con cui sono
raccolte, oltre che elaborate sapendosi disbrigare nelle minute circostanze, per
esempio possedendo una tecnica pittorica superiore. Le «novità» attuate
entreranno a loro volta nel circuito della «tradizione», e tanto maggiore sarà
la risonanza della loro bellezza tanto più numerose saranno state in campo le
forze della «tradizione» viste sopra, se pur mosse dall’«audacia» vuoi del
poverello, vuoi dell’orante, vuoi dell’artista, di saperle celare nell’umiltà
propria a ciascun atto e di saper pure magari trovare, seguendo una qualche
ispirazione, un guizzo «laterale», l’ulteriore audacia che svoltando e
«sforcellando» il punto di vista oltre il valico del consueto solleva ogni
storia – ogni necessità, ogni preghiera, ogni opera d’arte – nel tempo senza
tempo della meraviglia che la farà ricordare per sempre.
Sta il fatto che, come si è visto, nella spinta alla conoscenza con cui si
opera, che sia con l’esperienza della «tradizione» per farci presenti le regole,
le leggi, le consuetudini eccetera, o che sia con l’«audacia» del momento
attuativo, si è utilizzata una figura importante, la figura dell’immagine:
l’immagine del chilogrammo, l’immagine del pane, l’immagine dell’incarnato,
eccetera.
La conoscenza opera non solo attraverso le nozioni, ma attraverso le immagini
di quelle nozioni. Il legame che noi abbiamo con l’essere è dunque doppio: con
il suo passato, attraverso le immagini date dalla memoria che ne abbiamo (la
«tradizione»), e con il suo futuro, che noi stessi facciamo presente attraverso
le immagini che la nostra piccola/grande audacia ci spinge a inventare, a
scoprire, per realizzarlo.
L’immagine di ogni nozione che noi pensiamo rifacendoci alla «tradizione», o
di ogni cosa che compiamo più o meno audacemente, è in verità ciò che lega ogni
nozione, ogni cosa, cioè noi, alla realtà, all’essere.
L’immagine è ciò che ci lega alla realtà, il legamento alla realtà: alla
realtà superiore e soprannaturale di Dio e alla realtà inferiore delle cose e
della natura.
Perché proprio l’immagine? Perché l’immagine, ogni immagine, compresa
l’immagine con cui si formula un pensiero, presuppone qualcosa da cui derivare:
un modello, un esemplare, come il Figlio, che – come vedremo in un successivo
articolo – è Immagine del Padre, è il Pensiero che riflette come in uno specchio
la Mente che lo ha generato (cfr. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 37, a. 2, ad
3).
Attraverso l’immagine noi veniamo a essere legati all’essere con una
somiglianza doppia: somiglianza con Dio, che ci volle spiritualmente a sua
immagine e somiglianza, e somiglianza con la natura, da cui emerge il nostro
essere materiale.
Questa doppia somiglianza permette di capire che allora la «novità» che
realizziamo in ogni momento è molto ben arginata sia «sopra» che «sotto» di noi
da un continuo suggerimento di somiglianza: se l’universo somiglia in qualche
modo a Dio anche le nostre azioni dovranno compiersi seguendo tale meravigliosa
somiglianza, in modo da poter collaborare al fine che l’universo ha ricevuto da
Dio: unificarsi, in Cristo, a Dio, e l’arte, il sublime linguaggio che Dio ci ha
donato per lodarlo e adorarlo, non può sfuggire a questo obiettivo, anzi, avendo
proprio l’arte in particolare il carico della bellezza, essa deve farsi
strumento principe per portarlo a compimento.
* Docente di Filosofia dell’estetica e direttore del Dipartimento di Estetica
della Associazione Internazionale “Sensus Communis” (Roma), collabora alla
cattedra di Filosofia della Conoscenza (sezione Conoscenza estetica) della
Università Lateranense.