«Misoneista! Misoneista!».
Questa l’accusa rivolta dagli storici dell’arte ai vari architetti neogotici
pullulanti nel XIX secolo – celebre Violet-le-Duc –, ma valida anche, sul
versante opposto, per gli altrettanti neoclassici, accomunati entrambi dal
volgersi a cercar ristoro alle proprie vaghezze artistiche gli uni nei canoni
del gotico, gli altri in quelli del classico, per un istinto accomunante che non
riusciva a trattenerli nella loro odiernità, comunque essa fosse e in
qualsivoglia effige si esprimesse.
Ma l’accusa non è del tutto pertinente: non era per essere afflitti da
misoneismo, ossia per sfuggire al loro oggi, meglio: per essere affetti da
‘indiscriminato e assoluto orrore per qualsivoglia novità’, che gli uni e gli
altri si rifugiavano in stilemi del passato, ma piuttosto perché bramavano
legarsi sentimentalmente – e perdutamente – a tutto ciò che, gotico per gli uni,
classico per gli altri, rappresentava il loro ideale di bellezza, raffigurava
l’incanto estetico di mondi di cui avrebbero voluto circondarsi.
Non dunque «rifuggivano da», ma piuttosto «anelavano a». Il loro moto era
infuocato d’amore per l’amata (pur se ormai morta), ma fuga e rifugio erano
conseguenza, non causa.
Un vero ‘indiscriminato e assoluto orrore per qualsivoglia novità’ richiede
infatti ben altro: richiede che le novità da cui si rifugge, da cui si odia
essere circondati, siano tali da potersi raccogliere magari in una sola, però
«fontale», ossia capace di spargere le proprie acque dappertutto, nelle mille
grandi e piccole novità che paiono stringere quasi d’assedio la vita.
Qual è questa novità che diciamo «originaria»? È l’unica novità di cui un
intelletto umano può avere un orrore massimo: è la novità che, sopraggiunta, gli
può far mancare da sotto i piedi la stabilità, lo può far crollare. E da cosa è
mai data la stabilità di un intelletto se non dalla tranquilla e forte certezza
di funzionare, ossia di ‘conoscere’? E cosa hanno mai tolto all’intelletto i tre
terribili giganti Relativismo, Scetticismo e Soggettivismo, che negli ultimi
secoli gli hanno mosso guerra e l’hanno serrato sempre più stretto alla gola, se
non questa certezza?
La stabilità dell’intelletto si fonda sulla certezza della conoscenza: fin
dai primi giorni e poi anni dell’infanzia, l’intelletto apprende con certezza, e
lo sa; si pasce con tranquilla sicurezza della realtà che lo attornia, e di ciò
si rallegra interiormente con se stesso, felice di impararla.
Qualsiasi intelletto, giovane virgulto, respira l’aria della conoscibilità
che lo attornia, si scalda al sole della certezza che lo ravviva, assorbe la
rugiada del gusto di imparare che lo imperla, intrattenendo in naturale
dimestichezza un rapporto di amicizia lieta e sorridente con queste cose che lo
circondano, aria, sole e rugiada, quasi esse fossero se stesso: virgulto e
natura stanno bene insieme, il virgulto si trova bene con la natura che lo
attornia, bearsene è per lui del tutto naturale. Intelletto e realtà sono fatti
l’uno per l’altra: questo è il fatto sicuro.
Come illustro estesamente in Ingresso alla Bellezza. Fondamenti a un’Estetica
trinitaria (Fede & Cultura, 2007) intelletto conoscitore e natura conoscenda
sono in fragrante amicizia. Di più: sono in perpetuo corteggiamento d’amore,
quasi due sposi che, nell’hortus conclusus, nel giardino ombroso del Cantico,
sanno di vivere le loro vite gioiose fatte l’una per l’altra. Basta osservare i
bambini, la loro letizia conoscitiva. Le loro liete nozze si compiono ogni
giorno mille e mille volte, nella sacra stanza dove il giovane Intelletto
apprende, «conosce» sotto i pudichi veli delle cose che lo attorniano, la casta
loro Essenza, e, come nel Cantico, di essa, a lei unendosi, di continuo si
allieta.
Questa stabilità dell’intelletto – ripeto: di cui esso è interiormente
consapevole e che dunque è per lui fuori discussione – non è mai stata messa in
dubbio per millenni da nessuno, anzi: essa ha trovato sempre, in tutte le più
disparate civiltà, in tutti i secoli, chiara, armoniosa e univoca espressione
anche nella mediazione che l’arte compie – anche quando la si riguardi nella sua
più semplice accezione di «linguaggio umano» – tra natura e uomo, mediazione per
la quale si può e anzi si deve affermare che l’arte (o semplicemente il
linguaggio), pur articolata nelle più varie e immaginifiche sue espressioni, è,
nella sua più profonda essenza, legata alla natura e alla realtà che la circonda
con un vincolo saldissimo e per nulla casuale.
Il vincolo è questo: l’arte (il linguaggio), come dimostro con sette indizi
in Ingresso alla Bellezza, altro non è che una “metafora della natura” e il
fatto di esserne metafora è, per il nostro intelletto, un legame decisivo:
l’arte (il linguaggio), non è affatto qualcosa di avulso dalla natura, non è per
nulla alieno dalla realtà, ma è un suo piccolo figlio, che passa attraverso la
candida stanza della mente ed esce poi dalle labbra di una bocca o dalle dita
operose di una mano: è una figura della natura e alla natura legata, che la
rispecchia, quasi avvicinando con ciò il punto di vista umano al punto di vista
di Dio, e tanto quanto il punto di vista umano coglie nella sua arte e nel suo
linguaggio verità, bellezza e bontà del punto di vista di Dio espresso nella
natura, tanto viene suffragata e garantita l’unità dell’universo. Se l’unità,
come dice Romano Amerio, è il «fine perfettivo di ogni ente» (IOTA UNUM, Lindau,
p. 664), essa lo è massimamente per l’ente «universo». A questa unità
l’intelletto umano collabora attivamente riversando con arte e linguaggio la
conoscenza d’amore verso l’universalità delle cose che lo attorniano. Questa
conoscenza, compiuta metaforizzando la natura, lo costringe a riconoscersi qual
è, come è la natura: umile creatura dipendente, che poi nel Cristo (Logos-Imago
del Padre, quasi «Linguaggio e Arte» del Padre e a sua volta, in quanto Uomo,
volutamente dipendente) glorifica Dio, Principio e Padre di tutto.
Ma nel momento in cui Relativismo, Scetticismo e Soggettivismo scavano
attorno alla conoscenza il fossato del vuoto conoscitivo, nel momento in cui
all’arte e al linguaggio che con le loro opere realizzano la conoscenza di sé,
della natura e di Dio, è preclusa la «via Normale», come si dice tra scalatori,
per giungere alla propria espressione, nel momento in cui gli ingiungono di
compiere il percorso scabroso del ragionamento scettico e relativista che porta
a rocce dove sull’abisso si trovano solo funi penzolanti e che infatti conclude
di non conoscere e di non sapere di conoscere, l’intelletto traballa,
indietreggia e rifiuta di spingersi là dove dovrebbe per natura spingersi e dove
da sempre si è spinto: nella novità (o «vetta») di una nuova conoscenza.
Difatti, tolta all’intelletto la potenza conoscitiva che lo caratterizza e di
cui sommamente si diletta, che mai gli resta per affrontare la realtà? Sgonfiata
la potenza, precluso il diletto, ora inutilmente sull’orlo dell’abisso,
l’intelletto si ferma, di sé inorridito.
Come dargli torto? Infatti: qual è propriamente la novità qui tanto
terrorizzante? cosa vede l’intelletto, improvvisamente abbrutito, dinanzi sé?
Vede il proprio Io: vede, nell’abisso che gli è di fronte e su cui Scetticismo,
Relativismo e Soggettivismo lo hanno di dubbio in dubbio condotto, l’immagine
del proprio Io che non conosce più: vede nell’acqua profonda non più un uomo
(come lo vedevano Fidia, Giotto o Caravaggio: raziocinante e conoscitore); ma un
mostro sconoscitore alla Francis Bacon (e avrei molto da dire sull’accostamento
di opposti, e per nulla affatto di simili, che si celebra in questi mesi a Roma
tra Caravaggio e Bacon: Caravaggio compie il maximum mai realizzato – almeno in
pittura – della conoscenza, entrando quasi nei suoi quadri e facendosi largo poi
tra gli armati, p. es. della tragica Cattura di Cristo, sicché, alzando la
lanterna, fa vedere alla luce incerta la scena straziante, e mostra all’astante
stupefatto proprio «che egli guarda», come a dire: «Guardate, guardate bene
tutti: voi state vedendo e conoscendo che vedere e conoscere si può, com’io
faccio ora, e siete pure voi colti sul fatto, non solo io». Il Merisi mostra che
guardando ciò che si vede, si vede anche ciò che non si vede: la conoscibilità.
Tutto il contrario dell’Irlandese, che non vuole terminare neanche uno dei suoi
autoritratti senza distruggere con pennellate e spatolate ben assestate la
somiglianza al reale cui era giunto poiché la vera somiglianza è – dice –
questa: di non somigliare ad altro che a un inconoscibile sfregiato; tra
autoritratto e Autore (o astante) c’è una spatolata di traverso che tiene tutti
a distanza: è la sconoscenza).
Ma la «sconoscenza» si avvita su se stessa, perché sarebbe impossibile
conoscersi, se davvero non si potesse conoscere di non conoscere. Questo è il
vero carattere del misoneismo, emerso nell’800 dopo due-tre secoli di
incubazione, ‘orrore per qualsiasi novità’ ancor oggi poco o nulla analizzato
nelle sue vere cause: si noti che fin qui non si è fatto altro che descrivere
fatti, solo fatti, e i fatti sono gli atti perversi compiuti da quegli
intelletti che, nella tutta pura stanza nuziale che si diceva, dove si
dovrebbero celebrare le sacre nozze della conoscenza, si astengono invece dal
celebrarle, preferendo loro un atto solitario e contro natura, il dubbio
sistematico, l’onanismo scettico, così facendo torto alla sacra sposa, l’Essenza
delle cose, pronta e inghirlandata da esse e dalla loro bellezza per unirsi al
suo sposo e così rendere gloria a Dio, al Verbo-Imago che tutto ciò con somma
provvidenza ha creato, così rendendo, nel sacro atto della conoscenza d’amore,
la propria creatura in tutto simile a Sé.
Ecco perché per conoscere il vero aspetto del misoneismo è prima necessario
impossessarsi dell’apice delle indagini di Amerio su Cartesio: della sua
«dislocazione della divina Monotriade», in cui risiede la polla originaria della
sconoscenza.
Cosa vuol dire la formula: «dislocazione della divina Monotriade»? «Alla base
del presente smarrimento – spiega bene il filosofo che l’ha coniata – vi è un
attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo, e questo attacco rimanda ultimamente
alla costituzione metafisica dell’ente e ultimissimamente alla costituzione
metafisica dell’Ente primo, cioè alla divina Monotriade. […] Come nella divina
Monotriade l’amore procede dal Verbo, così nell’anima umana il vissuto dal
pensato. Se si nega la precessione del pensato dal vissuto, della verità dalla
volontà, si tenta una dislocazione della Monotriade» (p. 314).
L’ ‘orrore del nuovo’, nella negazione della precedenza del pensato dal
vissuto, del Verbo sull’amore, è assoluto: è il rifiuto che un uomo fa di tutto
sé, del nuovo uomo che dovrebbe germinare in sé, dopo un’infanzia naturalmente
tesa, nella sua purezza, alla ragione, in armonica continuità con l’essere,
preferendole le passioni; è il rifugio, generalizzato oggi nella cultura
scristianizzata dominante, in fantasie sconnesse, malate, di un’infanzia non
maturata perché vi si è voluti retrocedere, nel terrore che al di là di essa, al
di là dell’età che porta lentamente alla presa di coscienza razionale del
proprio Io, si prospetti la sola scelta da fare per raggiungere il bene (il
piacere) come scelta liberticida e devastante, mentre invece è la scelta santa
della legge morale, della donazione totale, altruista fino al sacrificio, della
chiamata a essere secondo ragione per ben tarare l’avere; su tale scelta si alza
la voce intima e potente di Dio che chiama a Sé, in via Crucis, come Cristo Uomo
divino, nell’abnegazione del proprio Io.
Il primo sussulto di ‘orrore del nuovo’ viene compiuto su di sé dislocando la
ragione dal trono che essa aveva avuto per tutta l’infanzia e preferendole poi
le pulsioni passionali perché si preferisce all’avere orrore per il peccato
avere orrore per la propria chiamata alla virtù e alla grazia da compiere
attraverso ciò che i filosofi chiamano «adæquatio rei et intellectus», la
formula filosofica alla base dell’amore. Si preferisce all’orrore per il peccato
l’orrore per la santa e semplice obbedienza alla realtà.
I valori rigettati, riassunti nell’abnegazione dell’Io, oggi sono rigettati
da tutti coloro che, negando le elementari acquisizioni che i bambini di tutto
il mondo hanno appreso nella maturazione dell’infanzia, come esemplarmente
illustrato da Antonio Livi nella filosofia del Sensus Communis, con i pensieri
più semplici e puri, negano con ciò la presenza dinanzi a loro di Dio, che
invece ne è una delle acquisizioni fondanti: per negare Dio costoro, nella
decisiva età della maturazione adolescenziale, decidono di abbracciare la
nonconoscenza, il non-Io, e così, invece di entrare come Caravaggio nel quadro
della propria vita, si danno delle spatolate distorcenti sulla faccia, in tal
modo purtroppo però non eliminando del tutto, come vorrebbero (è impossibile
sfuggire all’essere), la brutta novità che son divenuti, ma solo camuffandosi,
ossia divenendo «i brutti dell’essere», i distorti dell’essere, una visione che
si riversa su tutta la loro arte.
Come si vede, la «novità» di cui si prova disgusto è in verità la novità che
fiorisce in sé (che dovrebbe fiorire in sé), come nei secoli sempre è fiorita,
dall’antico: dalla Conoscenza, la Grande Rifiutata (col rifiuto dei dati portati
nell’infanzia alla coscienza), dalla stabilità dell’essere, dunque dalla Traditio, da tutte quelle tali cose che si è visto essere la linfa della vita
procedente da sé per rimanere sé, adulta nella ragione e maschia nella libertà,
giovane e fresca nell’afflato per la continua «primavera» che ogni nuovo uomo
del mondo a se stesso è.
La «dislocazione della Monotriade» non potrebbe essere più dislocata: è il
suo stesso metodo. ‘Misoneismo’ sembrerebbe essere il flagello di bruttezza che
oggi percuote il mondo da almeno mezzo secolo a causa della cultura scettica e
relativista cui molti uomini d’arte purtroppo vogliono riferirsi con le loro
opere, e che da almeno mezzo secolo a volte è penetrato con una certa virulenza
sin dentro le nostre chiese bendando gli occhi a tutte le Muse che incoronano la
sacra Liturgia.
L’arte misoneista che abbiamo descritto sembra spargersi anche da quegli
strani, piuttosto incongrui edifici di culto innalzati anche di recente che
nessuno osa più chiamare «chiese», per i quali Monsignor Ravasi suggella una
«assurdità architettonica» a partire dalla loro «tetra sordità acustica»:
«l’architetto medio attuale – l’alto Prelato conclude – ha inflitto all’Italia
nella seconda metà del Novecento almeno 5.000 nuove chiese» («Il Sole 24 Ore»,
17-2-’02). Ma non pare che gli architetti che ci «infliggono nuove chiese» siano
più solo «medi»: ormai sembra siano anche fin troppo celebri «arci». E non c’è
bisogno di far nomi, non si vuole dispiacere nessuno, però molti architetti,
artisti e committenti debbono riflettere quanto il frutto dei loro ingegni abbia
poco incontrato le aspettative di bellezza e di verità dei fedeli.
Ecco perché la Chiesa ancora una volta si prende cura delle sue greggi
afflitte e ora per volere di Papa Benedetto XVI raduna sotto le volte della
Cappella Sistina centinaia di artisti, architetti e intellettuali affinché tutti
vengano sollecitati a prendere nuove vie per illustrare alle genti la Grazia con
un po’ più grazia.
Infatti con queste «5.000 nuove chiese» che affliggono oggi le greggi, non si
stanno più edificando «chiese nuove», come erano «chiese nuove» le barocche dopo
le rinascimentali, le rinascimentali dopo le gotiche, le gotiche dopo le
romaniche e le romaniche dopo le paleocristiane, ma «chiesoidi», come Gillo
Dorfles chiama «fattoidi» gli incongrui, arbitrari nuovi «fatti» creati con le
loro «installazioni» dagli artisti odierni, utilizzando il suffisso «-oide», che
in psichiatria designa forme cliniche che presentano sintomi di quadri morbosi
tipici (schizoide, paranoide ecc), e che nel linguaggio comune sta a indicare
caratteri o atteggiamenti sgradevoli o almeno discutibili: artistoide,
intellettualoide ecc. Dunque per queste chiese laiche di oggi potrebbe andar
bene «chiesoide», e, per le tante e strane «novità» che alcuni artisti
disseminano spacciandole per opere d’arte potrebbe andar bene «novoidi», ossia
‘cose simili al nuovo, ma che, non essendolo in nulla, solo malamente lo
scimmiottano’.
Ma vogliamo vedere meglio cos’è, al fondo, una «novità»? È, da quel che dice
il vocabolario, la sintesi di due opposti: ‘qualcosa che nasce e viene dalla
storia - con una sfumatura di originalità’; sicché succede che: per il fatto che
‘viene dalla storia’, dunque dall’ambiente circostante, dalla tradizione nel
senso più nobile, che è la naturale memoria delle cose, essa rassicura e
garantisce sulla sua regolarità, sulla sua fedeltà alla verità e alla bellezza
delle cose vere e belle che la precedono; per il fatto poi che le si richiede
anche una ‘sfumatura di originalità’, essa desta meraviglia all’intelletto, il
quale non attende altro che la meraviglia per dilettarsi: essa apre il suo cuore
all’incanto per il quale ogni minuto palpita, schiude nuove vie alla verità e
alla bellezza che gli sono d’uso per una rinnovata e infinita dilezione:
l’intelletto, davanti alla visione di una nuova opera dinanzi a sé, rinfrancato
dal riscontro previo del dispiegamento di fedeltà all’essere, da cui non si può
prescindere, chiede subito di fare il proprio lavoro, per il quale è
particolarmente preposto: di fare cioè una conoscenza nuova, insomma di vivere,
così compiendo quella seconda operazione propria all’essere (e ancora, come la
prima, imprescindibile, pena la mummificazione), che è andare avanti.
Traditio in progressu, si potrebbe dire, e così si vede come e quanto una
«novità», con le due caratteristiche di tradizione e di originalità da cui è
composta, si attagli perfettamente alle caratteristiche dell’ente che la deve
«scoprire»: l’intelletto; quanto bene gli aderisca e gli sia conforme. Non a
caso: poiché, e questa è la sorpresa, tradizione e originalità sono pure i due
essenziali componenti dell’intelletto: la tradizione qui si chiama memoria e
l’originalità pensiero. Ogni pensiero infatti, dopo essere nato dai dati offerti
dalla memoria, è «originale» perché ‘fatto e costruito in quel tal modo proprio
e solo da quell’intelletto lì’. Ecco realizzata qui la «adæquatio rei et
intellectus» che si diceva, la corrispondenza perfetta tra Io e realtà che sta
alla base dell’amore, lo permette e lo suscita. Se non si potesse realizzare
tale eguaglianza (le nozze che dicevo) tra intelletto e realtà, che germoglia
dalla conoscenza, tutto diverrebbe arbitrario, tutto diverrebbe relativo,
dubitabile, incerto. Se l’amore nasce dalla conoscenza, è perché questa è il suo
terreno più sicuro per permettergli i suoi più dolci e liberi slanci.
Tradizione e audacia. E il genius creativo che le combina.
La realtà, all’interno della quale soltanto si muovono Bellezza e Verità,
vive di entrambe le sponde: tradizionalismo e audacia, e la caduta di uno dei
due argini, qualunque sia dei due, esonda l’intelletto nell’irrealtà, per cui
bisogna tenerli entrambi.
Ma i vogliosi di indipendenza, di libertà, che fanno? Buttano via la
«storia», che è «tradizione», che è «memoria», e si attaccano alla sola
«originalità», perché, a causa di ciò che abbiamo visto prima, hanno ‘l’orrore
di veder entrare la storia nel proprio oggi’, hanno orrore, dalla cosa «antica»,
di farne una cosa «anche» nuova, che diverrebbe però così capace, come tutte le
cose belle e vere che la gente si ferma a guardare o a sentire ammirata, di
percorrere gli anni, i secoli, i millenni, fino all’oggi e per sempre.
Nel 1400 Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti, che non odiavano né
l’antico né il nuovo, ma li amavano entrambi, coraggiosamente presero l’antico,
lo colsero con garbo da Roma e da Atene, e lo rifondarono di nuovo con somma
cura a Firenze. Essi sono l’esempio del coraggio che ha un vero «tradizionista»:
fare «Rinascimento», ossia ‘saper trasportare l’antico nel proprio oggi’ con la
capacità inventiva di trasfondere nel nuovo l’antico, il tutto con quel quid che
solo l’artista possiede per compiere la cosa come si deve, ossia facendo una
cosa «bella ad arte».
Brunelleschi e Alberti hanno guardato l’antico, lo hanno conosciuto, hanno
ammesso poi che lo potevano tradere – trasportare, tradurre – nel proprio oggi,
e lo hanno fatto, compiendo l’operazione conoscitiva della Tradizione. E nessuno
poi li ha mai accusati di essere conservatori, reazionari, misoneisti, ma tutti
in tutti i secoli corrono a incantarsi delle loro sublimi meraviglie.
C’è un modo per tornare a fare Bellezza oggi? Certo che c’è.
Il misoneismo culturale e religioso che ci affligge sarà vinto e superato dal
ripristino, in primo luogo, del «metodo della vita», il quale metodo, come
indicato da Amerio, discende direttamente dal ripristino anticartesiano della
corretta disposizione da dare all’ordine delle essenze trinitarie: prima, sul
trono che gli spetta, il Logos, poi l’amore. Soltanto così «vengono tirate fuori
dal tesoro cose vecchie e cose nuove» (Mt 13, 52), essendo le cose nuove, ogni
volta e in ogni tempo, la realizzazione delle vecchie, delle antiche, nel
proprio oggi, e divenendo ciò tanto più bello, se tanto più compiuto con arte,
col ‘genio artistico’.
In secondo luogo, ciò fatto, torneremo a fare Bellezza usando i tre termini
che sempre l’hanno fatta: il canone classico, i materiali, la proporzione aurea.
Naturalmente, bisogna saper usare questi termini insieme tra loro e insieme poi
a quel certo quid infuso nel secolo odierno, come Brunelleschi e Alberti nel
loro ’400, e bisogna dire che l’offerta di poesia che il secolo odierno ci mette
a disposizione oggi non manca. Bisogna saperla cogliere. Ma ciò dipende e dalla
propensione dell’artista a inclinarsi a compiere entrambi quei due atti che si
dicevano per realizzare una vera, bella e anche buona «novità», e dal suo
talento. Bisogna però averlo, il genio, per incantar le folle.
* * *
* Docente di Filosofia dell’estetica e direttore del Dipartimento di Estetica
della Associazione Internazionale “Sensus Communis” (Roma), collabora alla
cattedra di Filosofia della Conoscenza (sezione Conoscenza estetica) della
Università Lateranense.
[Fonte: Accademia Aurea Domus di Enrico Maria Radaelli