“Un evento altamente
significativo, che non va passato sotto silenzio”. Così
hanno commentato i membri del Pontificio Istituto di
Studi Arabi e d’Islamistica (PISAI) di Roma la lettera
aperta che 138 tra i principali intellettuali e muftì
musulmani di tutto il mondo hanno indirizzato a
Benedetto XVI e alle altre guide delle Chiese cristiane.
Lo sostengono in un documento diffuso questo giovedì e
firmato dal Preside del PISAI, p. Miguel Ángel Ayuso
Guixot, dal Direttore degli Studi, p. Etienne Renaud, e
dai professori p. Michel Lagarde, p. Valentino Cottini e
p. Felix Phiri.
In primo luogo, si dicono “colpiti dai larghi orizzonti
in cui questo testo si pone”: “larghezza nei firmatari,
centotrentotto personalità musulmane di numerosi Paesi e
di tutti i continenti, la cui appartenenza presenta
sfumature diverse; larghezza nei destinatari, tutte le
guide delle diverse Chiese cristiane, ventotto delle
quali nominate esplicitamente”. Allo stesso modo, viene
anche sottolineata “l’estensione dell’ambito proposto,
che comprende i musulmani, i cristiani, gli ebrei e gli
uomini di tutto il mondo”.
La lettera, datata 13 ottobre 2007 e resa nota in
occasione della fine del Ramadan, lanciava la proposta
per una più solida cooperazione tra cristiani e
musulmani nella promozione della pace nel mondo.
Gli autori del testo “non si rifugiano in una sterile
rivendicazione difensiva dell’umma
[comunità, ndr.]; si pongono piuttosto come partner
dell’intera umanità, per la quale propongono il loro
proprio modo di concepire i fondamenti e i principi –
riconosciuti anche dalle altre comunità – in vista di
preservarne la sopravvivenza in una pace generale ed
effettiva”.
Tratto importante è inoltre “l’ampiezza delle
prospettive”, sottolineano. Gli autori del testo si
interessano infatti “sia alla sorte del mondo attuale,
in gioco qui e ora, sia al mondo delle ‘anime eterne’,
in gioco altrove e nel futuro”. “La duplice prospettiva,
insieme immanente e trascendente, mette in moto in
questo discorso una corrente forte e liberatrice”.
Lo
staff del PISAI si dice quindi colpito “dal
carattere fondamentale del discorso, che pone in campo
Dio e l’uomo”. “È molto più facile limitarsi a idee
generose, ma vaghe e generiche, piuttosto che attirare
l’attenzione sull’urgenza dei diritti di Dio e
dell’uomo, che esigono da ciascuno un’attenzione
costante e un amore attivo e concreto”.
“Siamo impressionati anche dall’attenzione sincera,
prestata dai firmatari della lettera, al riferimento
principale che fonda l’altro in quanto ebreo o
cristiano, cioè al doppio comandamento dell’amore di Dio
e del prossimo nel Deuteronomio e nell’Evangelo di
Matteo”, proseguono.
La volontà di riconoscere l’altro nel desiderio più
profondo di ciò che egli vuole essere è visto come “uno
dei punti nodali del documento”. È
solo questa volontà che può garantire il successo di una
relazione vera tra comunità culturalmente e
religiosamente differenti, sostengono.
È apprezzabile, continuano i
membri del PISAI, anche il modo in cui gli autori del
testo, in quanto musulmani, vedono in questi due
comandamenti la definizione stessa della loro identità.
Non lo fanno, sottolineano, “per compiacenza né per
politica, ma in verità, solo a partire dalla
proclamazione dell’unicità divina, perno della fede
musulmana”.
L’accettazione radicale dell’unicità divina, infatti, “è
una delle espressioni più autentiche dell’amore dovuto a
Dio solo”, e “l’amore di Dio è indissociabile da quello
del prossimo”. La fede, come ribadisce il Corano, non è
mai separata dalle buone opere.
Il realismo dimostrato dai firmatari della lettera“non
impedisce loro di avere una visione positiva degli
ostacoli e delle differenze che rimangono tra noi, al
punto che, fedeli alla tradizione coranica che li
ispira, non vi vedono che un’occasione per la ricerca
del bene comune”.
“Stimolati dal loro atteggiamento, vogliamo ritenere
anche noi l’interpretazione massimalista, secondo la
quale i testi del Corano e della Tradizione profetica
non limitano ai soli membri dell’umma
i benefici che ogni musulmano è tenuto a prodigare al
suo prossimo in nome della sua fede in Dio e del suo
amore esclusivo per lui”, ammettono.
“Un tale documento ci incoraggia a proseguire
decisamente il nostro impegno, affinché la differenza
delle nostre lingue e dei nostri colori, cioè le nostre
differenze culturali profonde, lungi all’imbrigliarci
nel sospetto, nella diffidenza, nel disprezzo e nel
dissenso – come spesso si è verificato nelle nostre
relazioni non solo nel passato ma anche in questo nostro
tempo attuale – siano percepite come segni per coloro
che comprendono, cioè, come una misericordia che
proviene dal Signore nostro”, concludono i membri del
PISAI.
___________
[Fonte: Zenit 27 ottobre 2007]
Perché Benedetto XVI è così cauto con
la lettera dei 138 musulmani
Sandro Magister www.chiesa 26 novembre 2007
Perché il dialogo che lui vuole è tutto diverso. Il papa chiede all'islam di compiere lo stesso cammino che la Chiesa cattolica ha compiuto sotto la pressione dell'Illuminismo. L'amore di Dio e del prossimo deve realizzarsi nell'accettazione piena della libertà religiosa
La lettera dei 138 musulmani indirizzata
lo scorso mese a Benedetto XVI e ai capi delle altre
Chiese cristiane ha avuto una spettacolare risposta
collettiva in un messaggio pubblicato sul "New York
Times" del 18 novembre, firmato da 300 studiosi.
Il messaggio è nato nella Divinity School della Yale
University, in particolare per impulso del suo
decano Harold W. Attridge, professore di esegesi del
Nuovo Testamento.
I firmatari appartengono per la maggior parte a
confessioni protestanti, di tendenza sia "evangelical"
che "liberal", e tra essi c'è una celebrità come il
teologo Harvey Cox. Ma nella lista dei 300 c'è anche un
vescovo cattolico, Camillo Ballin, vicario apostolico
nel Kuwait, comboniano. Sono cattolici l'islamologo John
Esposito della Georgetown University e i teologi Donald
Senior, passionista, e Thomas P. Rausch, gesuita, della
Loyola Marymount University. E sono cattolici – sia pure
ai margini dell'ortodossia – Paul Knitter, esponente
della teologia del pluralismo religioso, ed Elizabeth
Schüssler Fiorenza, docente a Harvard e teologa
femminista.
Il messaggio si profonde in lodi della lettera dei 138.
Ne fa propri i contenuti, ossia l'indicazione dell'amore
di Dio e del prossimo come "parola comune" tra musulmani
e cristiani, al centro sia del Corano che della Bibbia.
E premette a tutto una richiesta di perdono "all'unico
Dio di tutte le misericordie e alla comunità islamica di
tutto il mondo".
Richiesta di perdono così motivata:
"Dal momento che Gesù dice: 'Togli prima la trave dal
tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la
pagliuzza dall'occhio del tuo fratello' (Matteo 7, 5),
noi vogliamo cominciare col riconoscere che nel passato
(vedi le Crociate) e nel presente (vedi gli eccessi
della 'guerra al terrore') molti cristiani sono stati
colpevoli di peccato contro il nostro prossimo
musulmano".
Diffondendo il messaggio, i suoi promotori hanno
annunciato che ad esso seguiranno degli incontri con
alcuni dei firmatari della lettera dei 138, negli Stati
Uniti, in Gran Bretagna e nel Medio Oriente, incontri
aperti anche ad ebrei.
A confronto con questo fervore di
dialogo, Benedetto XVI e i dirigenti della Santa Sede
appaiono più cauti e riservati.
Alla lettera dei 138 musulmani la Santa Sede ha risposto
fin da subito con dichiarazioni di cortese accoglienza.
Ma ha rimandato a tempi più lontani una risposta più
approfondita. Anche il primo commento alla lettera dei
138 finora emesso da un organismo collegato alla Santa
Sede – il Pontificio Istituto di Studi Arabi e d'islamistica
– è stato tenuto in ombra, nonostante mettesse in
evidenza gli elementi nuovi e positivi dell'iniziativa
musulmana.
Non ne ha riferito neppure "L'Osservatore Romano".
L'unico cenno alla lettera dei 138 finora apparso sul
giornale della Santa Sede è stato all'interno di una
nota che annunciava e commentava l'incontro del 6
novembre di re Abdallah d'Arabia Saudita con Benedetto
XVI. "L'Osservatore" non ha dato notizia nemmeno dei
commenti alla lettera dei 138 di due studiosi dell'islam
molto stimati da papa Joseph Ratzinger, i gesuiti Samir
Khalil Samir. egiziano, e Christian W. Troll, tedesco.
Ma è proprio dalla lettura di questi commenti – in
particolare quello di Troll – che si capisce il perché
della cautela della Chiesa di Roma. Troll fa notare che
la lettera dei 138 musulmani, col suo insistere sui
comandamenti dell'amore di Dio e del prossimo come
"parola comune" sia del Corano che della Bibbia, sembra
voler portare il dialogo sul solo terreno dottrinale e
teologico. Ma – obietta Troll – tra il Dio unico dei
musulmani e il Dio trinitario dei cristiani, con il
Figlio che si fa uomo, la differenza è abissale. Non può
essere minimizzata, tanto meno negoziata. La vera
"parola comune" va cercata altrove: "nell'applicare quei
comandamenti alla concreta realtà delle società
pluraliste, qui ed ora".
Va cercata nella tutela dei diritti
umani, della libertà religiosa, della parità tra uomo e
donna, della distinzione tra i poteri religioso e
politico. Su tutto questo la lettera dei 138 è elusiva o
muta. E lo è volutamente. Uno dei principali autori
della lettera, il teologo libico Aref Ali Nayed,
professore all'università di Cambridge, si è spiegato
così in un'intervista a "Catholic News Service",
l'agenzia della conferenza episcopale degli Stati Uniti:
"Il dialogo etico-sociale è utile e se ne ha un grande
bisogno. Ma un dialogo di questo tipo avviene già ogni
giorno, attraverso istituzioni del tutto secolari come
le Nazioni Unite e i suoi organismi. Se delle comunità
fondate sulla rivelazione religiosa vogliono veramente
dare un contributo all'umanità, il loro dialogo deve
essere teologicamente e spiritualmente fondato. Molti
teologi musulmani non sono affatto interessati a un
dialogo puramente etico tra culture e civiltà".
Qual è invece il dialogo con l'islam voluto da Benedetto
XVI?
Il papa l'ha spiegato nel modo più limpido in un
passaggio del discorso prenatalizio alla curia romana
del 22 dicembre 2006: "In un dialogo da intensificare
con l'Islam dovremo tener presente il fatto che il mondo
musulmano si trova oggi con grande urgenza davanti a un
compito molto simile a quello che ai cristiani fu
imposto a partire dai tempi dell'illuminismo e che il
Concilio Vaticano II, come frutto di una lunga ricerca
faticosa, ha portato a soluzioni concrete per la Chiesa
cattolica.
"Si tratta dell'atteggiamento che la comunità dei fedeli
deve assumere di fronte alle convinzioni e alle esigenze
affermatesi nell'illuminismo.
"Da una parte, ci si deve contrapporre a una dittatura
della ragione positivista che esclude Dio dalla vita
della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando
così l'uomo di suoi specifici criteri di misura.
"D'altra parte, è necessario accogliere le vere
conquiste dell'illuminismo, i diritti dell'uomo e
specialmente la libertà della fede e del suo esercizio,
riconoscendo in essi elementi essenziali anche per
l'autenticità della religione.
"Come nella comunità cristiana c'è stata una lunga
ricerca circa la giusta posizione della fede di fronte a
quelle convinzioni – una ricerca che certamente non sarà
mai conclusa definitivamente – così anche il mondo
islamico con la propria tradizione sta davanti al grande
compito di trovare a questo riguardo le soluzioni
adatte.
"Il contenuto del dialogo tra cristiani e musulmani sarà
in questo momento soprattutto quello di incontrarsi in
questo impegno per trovare le soluzioni giuste. Noi
cristiani ci sentiamo solidali con tutti coloro che,
proprio in base alla loro convinzione religiosa di
musulmani, s'impegnano contro la violenza e per la
sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà".
Di questa proposta lanciata
al mondo musulmano da Benedetto XVI nel dicembre di un
anno fa, nella lettera dei 138 non c'è traccia. Segno
che la distanza tra le visioni dell'uno e degli altri è
davvero forte.
La visione di Benedetto XVI è la stessa che altre
autorità della Santa Sede manifestano ogni volta che si
toccano questi temi. Ne è prova il messaggio rivolto ai
musulmani lo scorso ottobre, in occasione della fine del
Ramadan, dal pontificio consiglio per il dialogo
interreligioso, presieduto dal cardinale Jean-Louis
Tauran: messaggio che ha anch'esso al suo centro "la
libertà della fede e il suo esercizio", come compito di
tutte le religioni, conforme al "piano del Creatore".
Ed è una visione che Ratzinger va argomentando da anni
con grande coerenza, prima da cardinale e poi da papa.
La lezione di Ratisbona sulla doverosa "sinergia tra
fede e ragione" ne è la fondazione più compiuta.
Ma, prima ancora, le premesse di come Benedetto XVI
concepisce il dialogo con l'islam e le altre religioni
vanno rintracciate nella discussione che egli ebbe nel
gennaio del 2004, a Monaco di Baviera, con il filosofo
laico Jürgen Habermas.
In quell'occasione, Ratzinger disse che un "diritto
naturale" universalmente valido non è affatto
riconosciuto oggi da tutte le culture e civiltà, divise
tra loro e divise su questo anche al loro interno. Ma
indicò la strada perché "le norme e i valori essenziali
conosciuti o intuiti da tutti gli esseri umani" possano
ricevere luce e "tenere unito il mondo". La strada è
quella di un legame positivo tra ragione e fede,
"chiamate alla reciproca purificazione" dalle patologie
che espongono l'una e l'altra al dominio della violenza.
C'è un grande studioso che ha analizzato con particolare
lucidità la visione di Benedetto XVI in rapporto
all'islam: il giurista tedesco Ernst-Wolfgang
Böckenförde, in un saggio apparso quest'anno in Germania
e tradotto in Italia dalla rivista "Il Regno".
Böckenförde concorda in pieno col papa nel ritenere che
l'islam ha oggi di fronte una sfida simile a quella
posta ai cristiani dall'Illuminismo, in materia di
libertà di religione.
La Chiesa cattolica rispose a quella sfida, nel Concilio
Vaticano II, con la dichiarazione "Dignitatis Humanae"
sulla libertà religiosa fondata sui diritti della
persona. Ma il mondo islamico – chiede Böckenförde – è
pronto a fare un analogo cammino? È pronto a riconoscere
la neutralità religiosa dello stato e quindi la pari
libertà, nello stato, di tutte le religioni?
I musulmani che vivono "in diaspora", cioè come
minoranze nei paesi dell'Europa e dell'Occidente,
sembrano disposti a questo riconoscimento. Ne è prova
una dichiarazione adottata nel 2001 dal comitato dei
musulmani di Germania, che dice: "Il diritto islamico
vincola i musulmani che vivono in diaspora ad attenersi
all'ordinamento giuridico del luogo".
Ma dove i musulmani sono maggioranza e controllano lo
stato? Böckenförde è scettico. Ritiene che l'islam, in
situazione di forza, rimane molto lontano dall'accettare
la neutralità dello stato e quindi la piena libertà di
tutte le religioni. Böckenförde ne è così convinto che
conclude il suo saggio esaminando una ipotesi di scuola:
l'ipotesi che in un paese europeo gli immigrati
musulmani siano vicini a diventare la maggioranza della
popolazione. In questo caso – sostiene il giurista
tedesco – quel paese ha il dovere di chiudere le
frontiere. Per ragioni di autodifesa. Perché uno stato
secolare non può rinunciare a quel "diritto naturale"
che è il suo fondamento: "un diritto indotto
dall’appartenenza a un mondo culturale radicato su
elementi della classicità, dell’ebraismo e del
cristianesimo, ma ripensati entro un orizzonte
illuminista".
In ogni caso non mancano, nel pensiero islamico d'oggi,
posizioni "aperte a una razionalità tollerante", come le
definì Ratzinger nel suo colloquio con Habermas del
2004. A una di queste posizioni dà rilievo padre Maurice
Borrmans, già preside del Pontificio Istituto di Studi
Arabi e d'Islamistica, sull'ultimo numero di "Oasis", la
rivista multilingue, anche in arabo e urdu, promossa dal
patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola.
Borrmans cita uno studioso tunisino residente a Parigi,
Abdelwahab Meddeb, che ha positivamente commentato le
tesi di Benedetto XVI in un saggio dal titolo "Le Dieu
purifié", all'interno di un libro a più voci pubblicato
in Francia: "La conference de Ratisbonne: Enjeux et
controverses".
Scrive tra l'altro Meddeb:
"A Ratisbona il papa ha voluto incitare i musulmani a
condurre un lavoro d'anamnesi perché depongano la
violenza e ritornino all'articolazione del logos che i
loro antenati avevano conosciuto, al fine di poterlo
ampliare e approfondire".
E dopo aver ricordato tra gli "antenati" di un islam
purificato dalla ragione il grande filosofo Averroè
(1126-1198), così prosegue:
"È verso questi territori che il musulmano deve far
ritorno, per partecipare al grande logos, al suo
ampliamento e al suo approfondimento nella via della
purificazione che neutralizza la violenza e che instaura
una serenità etica".
Abdelwahab Meddeb non è tra i firmatari della lettera
dei 138, e neppure della lettera dei 38 di un anno
prima.