«Un anno dopo Ratisbona
138 musulmani scrivono una lettera al Papa»
Sandro Magister, su www.chiesa 12 ottobre 2007

Propongono come terreno d'intesa tra musulmani e cristiani i due "più grandi comandamenti" dell'amore di Dio e del prossimo. Predicati sia nel Corano che nei Vangeli. Come reagirà la Chiesa di Roma? [vedi]

[Città del Vaticano, Incontro 4-6 novembre 2008]
[Il Vaticano si prepara all'incontro, 12 febbraio 2008]

[Testo integrale della lettera in formato .pdf]
[La reazione della Chiesa]
[Commento Pontificio Istituto Studi Arabi]
[Cautela di Benedetto XVI]
[Commento di Samir K. Samir 9 gennaio 2008]

Un anno fa, un mese dopo la memorabile lezione di Benedetto XVI a Ratisbona, 38 personalità musulmane scrissero al papa una lettera aperta nella quale in parte concordavano e in parte dissentivano con le posizioni da lui sostenute. I 38 appartenevano a varie nazioni e a differenti correnti di pensiero. Nel mondo islamico era la prima volta che personalità così diverse parlavano con una sola voce, ed esponevano al capo della più importante Chiesa cristiana i principi dell'islam, con l'intento di arrivare a una "mutua comprensione".

Nei mesi successivi altre firme si aggiunsero a quelle iniziali e i 38 divennero 100. Ora, un anno dopo, i 100 sono diventati 138 e hanno resa pubblica una seconda lettera, in coincidenza con la fine del Ramadan.

Rispetto alla prima, la seconda lettera ha allargato la rosa di destinatari. Oltre che a papa Benedetto XVI, essa è indirizzata anche al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, al patriarca di Mosca Alessio II e ai capi di altre 18 Chiese d'oriente; all'arcivescovo anglicano di Canterbury Rowan Williams; ai leader delle federazioni mondiali delle Chiese luterane, riformate, metodiste e battiste; al segretario generale del Consiglio Mondiale delle Chiese, Samuel Kobia, e in generale "ai leader delle Chiese cristiane".

Quanto al contenuto, la prima lettera sosteneva posizioni molto nette a favore della libertà di professare la fede "senza costrizioni".

Rivendicava la razionalità dell'islam pur tenendo ferma l'assoluta trascendenza di Dio.

Ribadiva con decisione i limiti posti dalla dottrina islamica al ricorso alla guerra e all'uso della violenza. condannando i "sogni utopistici nei quali il fine giustifica i mezzi".

E concludeva auspicando un rapporto tra islam e cristianesimo fondato sull'amore di Dio e del prossimo, i "due grandi comandamenti" richiamati da Gesù nel Vangelo di Marco 12, 29-31.

La seconda lettera parte proprio dalla conclusione della prima, e la sviluppa. I comandamenti dell'amore di Dio e del prossimo – presenti sia nel Corano che nella Bibbia – sono la "parola comune" che offre all'incontro tra islam e cristianesimo "la più solida base teologica possibile".

Il testo della lettera è stato discusso e messo a punto lo scorso settembre in un incontro tenuto in Giordania presso il Reale Istituto al-Bayt per il Pensiero Islamico, patrocinato da re Abdullah II.

È convinzione dei promotori che, prima di questa lettera, "mai dei musulmani hanno offerto alla cristianità una proposta di consenso così forte".

Aref Ali Nayed – teologo libico che ha firmato sia la prima che la seconda lettera ed è autore ben noto ai lettori di www.chiesa – ha sottolineato l'adesione di musulmani di tutte le tendenze, sunniti, sciiti, ibadi, ismailiti, jaafari:

"invece che entrare in polemica, i firmatari hanno adottato, seguendo la migliore tradizione dell'islam, una posizione di rispetto delle Scritture cristiane. E hanno fatto appello ai cristiani perché siano non meno ma più fedeli ad esse".

I 138 firmatari sono di 43 nazioni. Alcuni di essi vivono in Europa e negli Stati Uniti ma la maggior parte vivono in paesi musulmani: dalla Giordania all'Arabia Saudita, dall'Egitto al Marocco, dagli Emirati allo Yemen; ma anche in Iran, in Iraq, in Turchia, in Pakistan, in Palestina.

Per l'Italia c'è la firma di Yahya Sergio Yahe Pallavicini, vicepresidente del CO.RE.IS, Comunità Religiosa Islamica, che ha curato anche la traduzione italiana ufficiale della lettera.

Alcuni dei firmatari della lettera – tra i quali Aref Ali Nayed che è stato docente, a Roma, al Pontificio Istituto di Studi Arabi e d'Islamistica – hanno in più occasioni incontrato dei dirigenti della curia vaticana.

I primi contatti risalgono a un anno fa. Un primo segnale pubblico di apprezzamento da parte della Chiesa di Roma è però venuto solo dopo la pubblicazione di questa seconda lettera.

Il 12 ottobre il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del pontificio consiglio per il dialogo tra le religioni, ha detto alla Radio Vaticana:

"Si tratta di un documento molto interessante e nuovo, poiché proviene sia da musulmani sunniti sia da musulmani sciiti. È un documento non polemico, con numerose citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento. [...] Rappresenta un segnale molto incoraggiante, poiché dimostra che la buona volontà e il dialogo sono capaci di vincere i pregiudizi. È un approccio spirituale al dialogo interreligioso, che chiamerei il dialogo delle spiritualità. I musulmani e i cristiani devono rispondere a una sola domanda: per te Dio nella tua vita è veramente l’unico?".

Tra le posizioni espresse nella lettera e quelle di Benedetto XVI circa il dialogo interreligioso vi è una sicura sintonia.

L'ultima volta in cui il papa ha toccato questo tema è stato lo scorso 5 ottobre.

Parlando ai membri della Commissione Teologica Internazionale, Benedetto XVI ha indicato nella "legge naturale" e nei dieci comandamenti "il fondamento di un'etica universale" valida per "tutte le coscienze degli uomini di buona volontà, laici o anche appartenenti a religioni diverse".

E i dieci comandamenti si riassumono nei due "più grandi" dell'amore di Dio e del prossimo: "la sottomissione a Dio, fonte e giudice di ogni bene, e altresì il senso dell'altro come uguale a se stesso".

Sono gli stessi due comandamenti su cui si impernia la lettera al papa dei 138 musulmani.
 


E questa di seguito è la sintesi ufficiale, che riassume il contenuto della lettera:

Una parola comune tra noi e voi

Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso

Insieme musulmani e cristiani formano ben oltre metà della popolazione mondiale. Senza pace e giustizia tra queste due comunità religiose non può esserci una pace significativa nel mondo. Il futuro del mondo dipende dalla pace tra musulmani e cristiani.

La base per questa pace e comprensione esiste già. Fa parte dei principi veramente fondamentali di entrambe le fedi: l’amore per l’unico Dio e l’amore per il prossimo. Questi principi si trovano ribaditi più e più volte nei testi sacri dell’islam e del cristianesimo. L’Unità di Dio, la necessità di amarLo e la necessità di amare il prossimo sono così il terreno comune tra islam e cristianesimo. Quelli che seguono sono solo alcuni esempi:

Sull’unità di Dio, Dio dice nel Sacro Corano: “Dì: Egli è Dio, l’Uno / Dio, sufficiente a Sé stesso” (Al-Ikhlas, Sura della sincerità 112, 1-2).

Sulla necessità dell’amore di Dio, Dio dice nel Sacro Corano: “Così invoca il Nome del tuo Signore e sii devoto a Lui con una devozione totale” (Al-Muzzammil, Sura dell’avvolto nel manto 73, 8).

Sulla necessità dell’amore per il prossimo, il profeta Muhammad (su di lui la pace e la benedizione divina) disse: “Nessuno di voi ha fede finché non ama per il proprio prossimo ciò che ama per se stesso.”

Nel Nuovo Testamento, Gesù Cristo (su di lui la pace) disse: “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno, e tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e con tutte le tue forze. Questo è il primo comandamento. E il secondo è questo: Tu amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi.” (Marco 12, 29-31)

Nel Sacro Corano, Dio Altissimo ordina ai musulmani di trasmettere il seguente richiamo ai cristiani (ed ebrei – le Genti del Libro):

“Dì: O Genti del Libro! Venite a una parola comune tra noi e voi: che non adoriamo altri che Dio, e non associamo a Lui cosa alcuna, e che nessuno di noi scelga altri signori accanto a Dio. E se essi non accettano dite loro: Testimoniate che siamo coloro che si sono dati completamente a Lui” (Aal ‘Imran, Sura della famiglia di ‘Imran 3:64).

Le parole: “non associamo a Lui cosa alcuna” sono riferite all’unità di Dio e le parole: “non adoriamo altri che Dio” sono riferite all’essere completamente devoti a Dio. Quindi esse si riferiscono tutte al “primo e più grande comandamento”. Secondo uno dei più antichi e più autorevoli commentari del Sacro Corano, le parole “nessuno di noi scelga altri signori accanto a Dio” significano che “nessuno di noi dovrebbe ubbidire ad altri disobbedendo a ciò che Dio ha comandato”. Questo è riferito al secondo comandamento perché giustizia e libertà di religione sono aspetti centrali dell’amore per il prossimo.

Così, nell’obbedienza al Sacro Corano, come musulmani invitiamo i cristiani ad incontrarsi con noi sulla base di ciò che ci è comune, che è anche quanto vi è di più essenziale nella nostra fede e pratica: i due comandamenti di amore.


Lettera dall'Islam. Un segnale «incoraggiante»

La Santa Sede ha apprezzato la lettera inviata due giorni fa da 138 esponenti islamici al Papa e agli altri leader cristiani. Secondo il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso, si tratta di un messaggio «molto interessante e incoraggiante». Il testo, che viene definito «non polemico», contiene peraltro numerose citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento. «La buona volontà e il dialogo sono capaci di vincere i pregiudizi» ha sottolineato Tauran.

Il cardinale Tauran: la lettera dei 138 capi al Papa e agli altri leader cristiani è un documento molto interessante, un passo «incoraggiante » e «molto interessante ».

La Santa Sede apprezza la lettera indirizzata l’altroieri da 138 esponenti musulmani al Papa e agli altri leader cristiani, nella quale si afferma che la pace nel mondo dipende anche dal miglioramento delle relazioni tra musulmani e cristiani, «che insieme rappresentano oltre il 55% della popolazione mondiale ». Ad affermarlo è il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso.

Un messaggio «molto interessante» sia perché proviene da sunniti e sciiti insieme, e per questo è anche «nuovo», sia perché non è «polemico», e contiene numerose citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento. Una novità assoluta, vista la consuetudine musulmana di citare solo il Corano per evocare qualsiasi fatto relativo a Cristo.

Per spezzare il rapporto che a volte lega fede e violenza Tauran chiede ai leader religiosi di «invitare anzitutto i loro seguaci a condividere le tre convinzioni che sono contenute nella lettera e quindi che Dio è unico; Dio ci ama e noi dobbiamo amare questo Dio; Dio ci chiama ad amare il nostro prossimo. Direi che questo rappresenta un segnale molto incoraggiante, poiché dimostra che la buona volontà e il dialogo sono capaci di vincere i pregiudizi. È un approccio spirituale del dialogo interreligioso che chiamerei il dialogo della spiritualità».

Il testo dei leader musulmani porta la data del 13 ottobre, a un anno esatto dalla lettera aperta che 38 capi musulmani indirizzarono a Benedetto XVI sull’onda delle polemiche suscitate dalla sua lectio magistralis a Ratisbona. È indirizzato al Papa, al patriarca ecumenico di Costantinopoli e agli altri patriarchi ortodossi, al capo della Chiesa anglicana e a quelli delle maggiori chiese protestanti del mondo. È firmato da membri delle diverse confessioni e scuole giuridiche islamiche, e tra questi anche il mufti Mustafa Cagrici, che ha accompagnato il Papa nella visita alla Moschea blu di Istanbul. «Come musulmani – si legge nella lettera con un riferimento implicito alla guerra contro l’Iraq – diciamo ai cristiani che né noi né l’islam sono contro di loro, almeno fino a quando non decidano di muovere guerra ai musulmani, opprimerli o cacciarli dalle loro case a causa della loro religione».


[Fonte: Avvenire 13 ottobre 2007]

Il Pontificio Istituto di Studi Arabi commenta la lettera dei 138 musulmani

“Un evento altamente significativo”

“Un evento altamente significativo, che non va passato sotto silenzio”. Così hanno commentato i membri del Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica (PISAI) di Roma la lettera aperta che 138 tra i principali intellettuali e muftì musulmani di tutto il mondo hanno indirizzato a Benedetto XVI e alle altre guide delle Chiese cristiane.

Lo sostengono in un documento diffuso questo giovedì e firmato dal Preside del PISAI, p. Miguel Ángel Ayuso Guixot, dal Direttore degli Studi, p. Etienne Renaud, e dai professori p. Michel Lagarde, p. Valentino Cottini e p. Felix Phiri.

In primo luogo, si dicono “colpiti dai larghi orizzonti in cui questo testo si pone”: “larghezza nei firmatari, centotrentotto personalità musulmane di numerosi Paesi e di tutti i continenti, la cui appartenenza presenta sfumature diverse; larghezza nei destinatari, tutte le guide delle diverse Chiese cristiane, ventotto delle quali nominate esplicitamente”. Allo stesso modo, viene anche sottolineata “l’estensione dell’ambito proposto, che comprende i musulmani, i cristiani, gli ebrei e gli uomini di tutto il mondo”.

La lettera, datata 13 ottobre 2007 e resa nota in occasione della fine del Ramadan, lanciava la proposta per una più solida cooperazione tra cristiani e musulmani nella promozione della pace nel mondo.

Gli autori del testo “non si rifugiano in una sterile rivendicazione difensiva dell’umma [comunità, ndr.]; si pongono piuttosto come partner dell’intera umanità, per la quale propongono il loro proprio modo di concepire i fondamenti e i principi – riconosciuti anche dalle altre comunità – in vista di preservarne la sopravvivenza in una pace generale ed effettiva”.

Tratto importante è inoltre “l’ampiezza delle prospettive”, sottolineano. Gli autori del testo si interessano infatti “sia alla sorte del mondo attuale, in gioco qui e ora, sia al mondo delle ‘anime eterne’, in gioco altrove e nel futuro”. “La duplice prospettiva, insieme immanente e trascendente, mette in moto in questo discorso una corrente forte e liberatrice”.

Lo staff del PISAI si dice quindi colpito “dal carattere fondamentale del discorso, che pone in campo Dio e l’uomo”. “È molto più facile limitarsi a idee generose, ma vaghe e generiche, piuttosto che attirare l’attenzione sull’urgenza dei diritti di Dio e dell’uomo, che esigono da ciascuno un’attenzione costante e un amore attivo e concreto”.

“Siamo impressionati anche dall’attenzione sincera, prestata dai firmatari della lettera, al riferimento principale che fonda l’altro in quanto ebreo o cristiano, cioè al doppio comandamento dell’amore di Dio e del prossimo nel Deuteronomio e nell’Evangelo di Matteo”, proseguono.

La volontà di riconoscere l’altro nel desiderio più profondo di ciò che egli vuole essere è visto come “uno dei punti nodali del documento”. È solo questa volontà che può garantire il successo di una relazione vera tra comunità culturalmente e religiosamente differenti, sostengono.

È apprezzabile, continuano i membri del PISAI, anche il modo in cui gli autori del testo, in quanto musulmani, vedono in questi due comandamenti la definizione stessa della loro identità. Non lo fanno, sottolineano, “per compiacenza né per politica, ma in verità, solo a partire dalla proclamazione dell’unicità divina, perno della fede musulmana”.

L’accettazione radicale dell’unicità divina, infatti, “è una delle espressioni più autentiche dell’amore dovuto a Dio solo”, e “l’amore di Dio è indissociabile da quello del prossimo”. La fede, come ribadisce il Corano, non è mai separata dalle buone opere.

Il realismo dimostrato dai firmatari della lettera“non impedisce loro di avere una visione positiva degli ostacoli e delle differenze che rimangono tra noi, al punto che, fedeli alla tradizione coranica che li ispira, non vi vedono che un’occasione per la ricerca del bene comune”.

“Stimolati dal loro atteggiamento, vogliamo ritenere anche noi l’interpretazione massimalista, secondo la quale i testi del Corano e della Tradizione profetica non limitano ai soli membri dell’umma i benefici che ogni musulmano è tenuto a prodigare al suo prossimo in nome della sua fede in Dio e del suo amore esclusivo per lui”, ammettono.

“Un tale documento ci incoraggia a proseguire decisamente il nostro impegno, affinché la differenza delle nostre lingue e dei nostri colori, cioè le nostre differenze culturali profonde, lungi all’imbrigliarci nel sospetto, nella diffidenza, nel disprezzo e nel dissenso – come spesso si è verificato nelle nostre relazioni non solo nel passato ma anche in questo nostro tempo attuale – siano percepite come segni per coloro che comprendono, cioè, come una misericordia che proviene dal Signore nostro”, concludono i membri del PISAI.
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[Fonte: Zenit 27 ottobre 2007]

Perché Benedetto XVI è così cauto con la lettera dei 138 musulmani
Sandro Magister www.chiesa 26 novembre 2007

Perché il dialogo che lui vuole è tutto diverso. Il papa chiede all'islam di compiere lo stesso cammino che la Chiesa cattolica ha compiuto sotto la pressione dell'Illuminismo. L'amore di Dio e del prossimo deve realizzarsi nell'accettazione piena della libertà religiosa

La lettera dei 138 musulmani indirizzata lo scorso mese a Benedetto XVI e ai capi delle altre Chiese cristiane ha avuto una spettacolare risposta collettiva in un messaggio pubblicato sul "New York Times" del 18 novembre, firmato da 300 studiosi.

Il messaggio è nato nella Divinity School della Yale University, in particolare per impulso del suo decano Harold W. Attridge, professore di esegesi del Nuovo Testamento.

I firmatari appartengono per la maggior parte a confessioni protestanti, di tendenza sia "evangelical" che "liberal", e tra essi c'è una celebrità come il teologo Harvey Cox. Ma nella lista dei 300 c'è anche un vescovo cattolico, Camillo Ballin, vicario apostolico nel Kuwait, comboniano. Sono cattolici l'islamologo John Esposito della Georgetown University e i teologi Donald Senior, passionista, e Thomas P. Rausch, gesuita, della Loyola Marymount University. E sono cattolici – sia pure ai margini dell'ortodossia – Paul Knitter, esponente della teologia del pluralismo religioso, ed Elizabeth Schüssler Fiorenza, docente a Harvard e teologa femminista.

Il messaggio si profonde in lodi della lettera dei 138. Ne fa propri i contenuti, ossia l'indicazione dell'amore di Dio e del prossimo come "parola comune" tra musulmani e cristiani, al centro sia del Corano che della Bibbia. E premette a tutto una richiesta di perdono "all'unico Dio di tutte le misericordie e alla comunità islamica di tutto il mondo".

Richiesta di perdono così motivata:

"Dal momento che Gesù dice: 'Togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello' (Matteo 7, 5), noi vogliamo cominciare col riconoscere che nel passato (vedi le Crociate) e nel presente (vedi gli eccessi della 'guerra al terrore') molti cristiani sono stati colpevoli di peccato contro il nostro prossimo musulmano".

Diffondendo il messaggio, i suoi promotori hanno annunciato che ad esso seguiranno degli incontri con alcuni dei firmatari della lettera dei 138, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e nel Medio Oriente, incontri aperti anche ad ebrei.
 

A confronto con questo fervore di dialogo, Benedetto XVI e i dirigenti della Santa Sede appaiono più cauti e riservati.

Alla lettera dei 138 musulmani la Santa Sede ha risposto fin da subito con dichiarazioni di cortese accoglienza. Ma ha rimandato a tempi più lontani una risposta più approfondita. Anche il primo commento alla lettera dei 138 finora emesso da un organismo collegato alla Santa Sede – il Pontificio Istituto di Studi Arabi e d'islamistica – è stato tenuto in ombra, nonostante mettesse in evidenza gli elementi nuovi e positivi dell'iniziativa musulmana.

Non ne ha riferito neppure "L'Osservatore Romano". L'unico cenno alla lettera dei 138 finora apparso sul giornale della Santa Sede è stato all'interno di una nota che annunciava e commentava l'incontro del 6 novembre di re Abdallah d'Arabia Saudita con Benedetto XVI. "L'Osservatore" non ha dato notizia nemmeno dei commenti alla lettera dei 138 di due studiosi dell'islam molto stimati da papa Joseph Ratzinger, i gesuiti Samir Khalil Samir. egiziano, e Christian W. Troll, tedesco.

Ma è proprio dalla lettura di questi commenti – in particolare quello di Troll – che si capisce il perché della cautela della Chiesa di Roma. Troll fa notare che la lettera dei 138 musulmani, col suo insistere sui comandamenti dell'amore di Dio e del prossimo come "parola comune" sia del Corano che della Bibbia, sembra voler portare il dialogo sul solo terreno dottrinale e teologico. Ma – obietta Troll – tra il Dio unico dei musulmani e il Dio trinitario dei cristiani, con il Figlio che si fa uomo, la differenza è abissale. Non può essere minimizzata, tanto meno negoziata. La vera "parola comune" va cercata altrove: "nell'applicare quei comandamenti alla concreta realtà delle società pluraliste, qui ed ora".

Va cercata nella tutela dei diritti umani, della libertà religiosa, della parità tra uomo e donna, della distinzione tra i poteri religioso e politico. Su tutto questo la lettera dei 138 è elusiva o muta. E lo è volutamente. Uno dei principali autori della lettera, il teologo libico Aref Ali Nayed, professore all'università di Cambridge, si è spiegato così in un'intervista a "Catholic News Service", l'agenzia della conferenza episcopale degli Stati Uniti: "Il dialogo etico-sociale è utile e se ne ha un grande bisogno. Ma un dialogo di questo tipo avviene già ogni giorno, attraverso istituzioni del tutto secolari come le Nazioni Unite e i suoi organismi. Se delle comunità fondate sulla rivelazione religiosa vogliono veramente dare un contributo all'umanità, il loro dialogo deve essere teologicamente e spiritualmente fondato. Molti teologi musulmani non sono affatto interessati a un dialogo puramente etico tra culture e civiltà".

Qual è invece il dialogo con l'islam voluto da Benedetto XVI?

Il papa l'ha spiegato nel modo più limpido in un passaggio del discorso prenatalizio alla curia romana del 22 dicembre 2006: "In un dialogo da intensificare con l'Islam dovremo tener presente il fatto che il mondo musulmano si trova oggi con grande urgenza davanti a un compito molto simile a quello che ai cristiani fu imposto a partire dai tempi dell'illuminismo e che il Concilio Vaticano II, come frutto di una lunga ricerca faticosa, ha portato a soluzioni concrete per la Chiesa cattolica.

"Si tratta dell'atteggiamento che la comunità dei fedeli deve assumere di fronte alle convinzioni e alle esigenze affermatesi nell'illuminismo.
"Da una parte, ci si deve contrapporre a una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando così l'uomo di suoi specifici criteri di misura.
"D'altra parte, è necessario accogliere le vere conquiste dell'illuminismo, i diritti dell'uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l'autenticità della religione.
"Come nella comunità cristiana c'è stata una lunga ricerca circa la giusta posizione della fede di fronte a quelle convinzioni – una ricerca che certamente non sarà mai conclusa definitivamente – così anche il mondo islamico con la propria tradizione sta davanti al grande compito di trovare a questo riguardo le soluzioni adatte.
"Il contenuto del dialogo tra cristiani e musulmani sarà in questo momento soprattutto quello di incontrarsi in questo impegno per trovare le soluzioni giuste. Noi cristiani ci sentiamo solidali con tutti coloro che, proprio in base alla loro convinzione religiosa di musulmani, s'impegnano contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà".

Di questa proposta lanciata al mondo musulmano da Benedetto XVI nel dicembre di un anno fa, nella lettera dei 138 non c'è traccia. Segno che la distanza tra le visioni dell'uno e degli altri è davvero forte.

La visione di Benedetto XVI è la stessa che altre autorità della Santa Sede manifestano ogni volta che si toccano questi temi. Ne è prova il messaggio rivolto ai musulmani lo scorso ottobre, in occasione della fine del Ramadan, dal pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, presieduto dal cardinale Jean-Louis Tauran: messaggio che ha anch'esso al suo centro "la libertà della fede e il suo esercizio", come compito di tutte le religioni, conforme al "piano del Creatore".

Ed è una visione che Ratzinger va argomentando da anni con grande coerenza, prima da cardinale e poi da papa. La lezione di Ratisbona sulla doverosa "sinergia tra fede e ragione" ne è la fondazione più compiuta.

Ma, prima ancora, le premesse di come Benedetto XVI concepisce il dialogo con l'islam e le altre religioni vanno rintracciate nella discussione che egli ebbe nel gennaio del 2004, a Monaco di Baviera, con il filosofo laico Jürgen Habermas.

In quell'occasione, Ratzinger disse che un "diritto naturale" universalmente valido non è affatto riconosciuto oggi da tutte le culture e civiltà, divise tra loro e divise su questo anche al loro interno. Ma indicò la strada perché "le norme e i valori essenziali conosciuti o intuiti da tutti gli esseri umani" possano ricevere luce e "tenere unito il mondo". La strada è quella di un legame positivo tra ragione e fede, "chiamate alla reciproca purificazione" dalle patologie che espongono l'una e l'altra al dominio della violenza.

C'è un grande studioso che ha analizzato con particolare lucidità la visione di Benedetto XVI in rapporto all'islam: il giurista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, in un saggio apparso quest'anno in Germania e tradotto in Italia dalla rivista "Il Regno". Böckenförde concorda in pieno col papa nel ritenere che l'islam ha oggi di fronte una sfida simile a quella posta ai cristiani dall'Illuminismo, in materia di libertà di religione.

La Chiesa cattolica rispose a quella sfida, nel Concilio Vaticano II, con la dichiarazione "Dignitatis Humanae" sulla libertà religiosa fondata sui diritti della persona. Ma il mondo islamico – chiede Böckenförde – è pronto a fare un analogo cammino? È pronto a riconoscere la neutralità religiosa dello stato e quindi la pari libertà, nello stato, di tutte le religioni?

I musulmani che vivono "in diaspora", cioè come minoranze nei paesi dell'Europa e dell'Occidente, sembrano disposti a questo riconoscimento. Ne è prova una dichiarazione adottata nel 2001 dal comitato dei musulmani di Germania, che dice: "Il diritto islamico vincola i musulmani che vivono in diaspora ad attenersi all'ordinamento giuridico del luogo".

Ma dove i musulmani sono maggioranza e controllano lo stato? Böckenförde è scettico. Ritiene che l'islam, in situazione di forza, rimane molto lontano dall'accettare la neutralità dello stato e quindi la piena libertà di tutte le religioni. Böckenförde ne è così convinto che conclude il suo saggio esaminando una ipotesi di scuola: l'ipotesi che in un paese europeo gli immigrati musulmani siano vicini a diventare la maggioranza della popolazione. In questo caso – sostiene il giurista tedesco – quel paese ha il dovere di chiudere le frontiere. Per ragioni di autodifesa. Perché uno stato secolare non può rinunciare a quel "diritto naturale" che è il suo fondamento: "un diritto indotto dall’appartenenza a un mondo culturale radicato su elementi della classicità, dell’ebraismo e del cristianesimo, ma ripensati entro un orizzonte illuminista".

In ogni caso non mancano, nel pensiero islamico d'oggi, posizioni "aperte a una razionalità tollerante", come le definì Ratzinger nel suo colloquio con Habermas del 2004. A una di queste posizioni dà rilievo padre Maurice Borrmans, già preside del Pontificio Istituto di Studi Arabi e d'Islamistica, sull'ultimo numero di "Oasis", la rivista multilingue, anche in arabo e urdu, promossa dal patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola.

Borrmans cita uno studioso tunisino residente a Parigi, Abdelwahab Meddeb, che ha positivamente commentato le tesi di Benedetto XVI in un saggio dal titolo "Le Dieu purifié", all'interno di un libro a più voci pubblicato in Francia: "La conference de Ratisbonne: Enjeux et controverses".

Scrive tra l'altro Meddeb:

"A Ratisbona il papa ha voluto incitare i musulmani a condurre un lavoro d'anamnesi perché depongano la violenza e ritornino all'articolazione del logos che i loro antenati avevano conosciuto, al fine di poterlo ampliare e approfondire".

E dopo aver ricordato tra gli "antenati" di un islam purificato dalla ragione il grande filosofo Averroè (1126-1198), così prosegue:

"È verso questi territori che il musulmano deve far ritorno, per partecipare al grande logos, al suo ampliamento e al suo approfondimento nella via della purificazione che neutralizza la violenza e che instaura una serenità etica".

Abdelwahab Meddeb non è tra i firmatari della lettera dei 138, e neppure della lettera dei 38 di un anno prima.

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