La lettera inviata da 138 personalità islamiche
al papa e ai capi cristiani è un primo passo positivo verso un
dialogo, che ha però bisogno di divenire più universale e più
concreto.
La lettera si situa in modo esplicito come prolungamento della
prima, inviata proprio un anno fa a Benedetto XVI, quale risposta al
suo discorso magistrale all’università di Regensburg: per la
pubblicazione è stata scelta la stessa data (13 ottobre 2007), che
quest’anno coincideva con la fine del Ramadan[1]
Rappresentatività della Lettera
Notevole è il fatto che i firmatari sono aumentati rispetto all’anno
scorso: da 38 – come era per lo scorso anno – si è passati a 138.
Essi rappresentano circa 43 nazioni, tra nazioni musulmane e altre
(in particolare occidentale). Ci sono dei gran mufti (cioè capi di
fatwa in un Paese), dei responsabili religiosi, dei studiosi e dei
privati.
Fra i firmatari, oltre a rappresentanti dei due grandi gruppi
sunniti e sciiti, abbiamo anche rappresentanti di gruppi più
piccoli, di sette e perfino di tendenze divergenti, per esempio la
tendenza più mistica (sufi), in maggioranza occidentali. Vi sono ad
esempio ismailiti, che sono una derivazione degli sciiti; giafariti,
anch’essi una deviazione dallo sciismo; ribaditi, che è un vecchio
gruppo dell’islam, di cui non si parla molto, ma che ha un
rappresentante nello Yemen.
Ciò indica un allargamento del consenso da parte di un certo
ambiente islamico, un passo verso ciò che l’islam chiama l’ijmaa
(consenso). Nella tradizione islamica ogni punto della fede si fonda
su tre fonti: il Corano, la tradizione muhammadiana (hadith ossia
detti, e vita di Maometto), il consenso della comunità, appunto l’ijmaa.
Questo terzo passo finora non è mai stato molto valorizzato. Anzi,
c’è molta divisione nel mondo islamico: un giorno un imam dice una
cosa; il giorno dopo un altro dice una cosa diversa.
Questa lettera non dice che vi è accordo tra tutti i musulmani, ma
mostra che si va verso un certo consenso. Questa convergenza è
avvenuta sotto l’egida del re di Giordania e della fondazione Aal
al-Bayt (cioè la Famiglia del Profeta dell’islam), guidata dallo zio
del re, il Principe Hassan. Quest’uomo rappresenta forse quanto di
meglio oggi esiste nell’Islam, dal punto di vista della riflessione,
dell’apertura e anche della devozione. Pur essendo un musulmano
credente e devoto, egli è sposato a una donna indù che – fatto
insolito nell’Islam attuale - non ha dovuto convertirsi all’islam,
cosa che invece viene richiesto alle cristiane oggi in Occidente, ma
che non è previsto per nulla dal Corano.
Il primo punto positivo della lettera è perciò la sua
rappresentatività, il suo provenire da un gruppo convergente. La
lettera è rappresentativa anche perché è inviata a tutto il mondo
cristiano. Se si prende l’elenco dei destinatari, abbiamo un quadro
molto completo e accurato: oltre al papa, abbiamo tutte le
tradizioni dell’Oriente cristiano, i patriarchi delle Chiese
calcedoniane e pre-calcedoniane; poi le Chiese protestanti e infine
il Consiglio mondiale delle Chiese. Il che mostra che dietro questa
lettera vi è qualcuno che conosce bene il cristianesimo e la storia
della Chiesa.
I - La struttura
Venendo al contenuto, risalta il fatto che il titolo è preso dal
Corano: “Una parola comune tra noi e voi” (Sura della famiglia di
Imran, 3:64). Questo è ciò che nel Corano Maometto dice ai
cristiani: quando vede che non riesce a mettersi d’accordo con loro,
allora dice: Venite, accordiamoci almeno su una cosa comune: che non
adoriamo che un solo Dio (cioè sull’unicità divina) “e che non
prenderemo alcuni di noi come padroni all’infuori di Dio”.
Da notare che questa parola comune nel Corano, non prende in
considerazione alcuna definizione su Maometto. In questa frase non
si parla di Maometto come il profeta, o l’ultimo messaggero di Dio.
Ciò che qui viene sottolineato come parola comune è l’unicità di
Dio. Il che è anche un passo positivo, pur partendo sempre dal
Corano.
La struttura comprende tre parti: la prima è intitolata “L’amore di
Dio”, suddivisa in due sottoparti, “L’amore di Dio nell’islam” e
“L’amore di Dio come primo e più grande comandamento nella Bibbia”.
In realtà, il titolo arabo originale è più preciso: dice “nel
Vangelo”. Mettere la parola “Bibbia” (che comprende l’Antico e il
Nuovo Testamento) permette di integrare in questo discorso anche il
giudaismo (sebbene la lettera sia indirizzata solo ai cristiani). La
seconda parte è intitolata “L’amore per il prossimo” (hubb al-jâr).
Anche qui si divide in due sezioni: «l’amore per il prossimo
nell’islam» e «l’amore per il prossimo nella Bibbia». Di nuovo,
l’originale arabo dice “nel Vangelo”.
La terza parte conclude riprendendo la citazione coranica: “Venite a
una parola comune tra noi e voi”, e offre un’analisi interessante in
tre parti: “parola comune”, ““Venite a una parola comune” e “Tra noi
e voi”.
II - Qualche riflessione sul contenuto
Davanti a questa struttura, vorrei fare alcune osservazioni.
Anzitutto, vi è una continuità fra la prima lettera di un anno fa e
questa. La prima lettera si concludeva con la necessità di arrivare
a mettersi d’accordo partendo dall’amore di Dio e del prossimo. Con
questa i dotti vogliono dire: noi sviluppiamo adesso ciò che avevamo
annunciato come fondamento della relazione tra islam e
cristianesimo.
È interessante notare che il vocabolario utilizzato è un vocabolario
cristiano, non musulmano. La parola “prossimo” non esiste nel
Corano; è tipica del Nuovo Testamento. Di fatti, il testo arabo non
dice “prossimo” ma “vicino” (jâr), che non può avere che il senso
geografico (come il vicino di casa), a differenza del termine
cristiano qarîb, che significa “il prossimo”.
La parola “amore” è usata nel Corano poche volte. Addirittura, essa
non fa parte dei nomi di Dio. Non si dice mai che Dio è l’amante,
anche se vi sono alcuni sinonimi meno forti. La parola è invece
largamente utilizzata nel cristianesimo. E infatti se si analizza la
prima parte, quella sull’amore di Dio secondo l’Islam, noi cristiani
lo chiameremmo piuttosto “obbedienza a Dio”, non “amore”. Ma qui
essi lo chiamano così per adeguarsi al vocabolario cristiano. Il che
è bello, ma un po’ pericoloso perché rischia di essere un gioco di “concordismo”.
Di solito i musulmani parlano dell’adorazione di Dio, di riconoscere
l’unicità di Dio; ma il tema dell’amore di Dio è tutto un altro
discorso, che non è escluso dall’islam, ma si trova abbondantemente
nel mondo dei sufi.
Ad ogni modo, in questa lettera, parlare di “amore di Dio”
rappresenta una novità. Forse è anche un modo abile di riferirsi
alla prima enciclica del papa Benedetto, “Dio è amore” (Deus caritas
est). In ogni caso, c’è il desiderio di avvicinarsi al vocabolario
cristiano, anche se nello stesso tempo c’è il rischio di voler
intendere cose diverse con una stessa parola.
Altre questioni di vocabolario
In questo contesto, la versione araba della lettera usa una
terminologia diversa rispetto quella francese o italiana o inglese.
Abbiamo già notato il fatto che, laddove l’arabo parla del Vangelo,
le lingue occidentale parlano della Bibbia. Do altri esempi.
Ad esempio: parlando di Cristo, nelle versioni occidentali si cita
sempre “Gesù Cristo”. Nella versione araba si dice “Issa al-Massih”.
Tale espressione non è coranica, ma è l’unità fra il modo in cui i
musulmani chiamano Gesù (Issa) – i cristiani arabi lo chiamano
“Jasua” – e la definizione cristiana di “al-Massih”, Cristo, che si
trova nel Corano. L’espressione coranica è “Al-Massih Issa Ibn
Mariam” (Il Messiah Issa figlio di Maria), mentre l’espressione
cristiana abituale è “Jasu’ al-Massih” (Gesù Cristo). Il testo della
lettera intreccia espressioni coraniche con espressioni cristiane.
Quando essi citano Corano e Bibbia, usano due metri diversi. Citando
il Corano essi dicono “ha detto Dio”, come ogni buon musulmano.
Quando citano versetti della Bibbia, essi dicono solo “come si trova
nel Nuovo Testamento”, “come si legge nel Vangelo”, ecc… Il che vuol
dire che essi usano, per la Bibbia, un discorso da studioso, più
scientifico, mentre per il Corano essi usano una terminologia non
scientifica, ma da credente islamico.
La struttura ultimamente è molto bella: d’ora in poi potremo dire
che cristianesimo, ebraismo e islam hanno come cuore della fede
l’amore di Dio e del prossimo. Questa è una vera novità, mai detta
prima nel mondo islamico.
Uso della Bibbia
Nelle citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento, essi danno per
assodato che quella della Bibbia è parola di Dio. Anche questa è una
novità relativa. Nel Corano questa idea è affermata teoricamente, ma
essa è rigettata nella pratica. Molto spesso i musulmani considerano
la Bibbia come un prodotto manipolato (muharrafah o mubaddalah)
attraverso aggiunte posteriori a un nucleo originario.
Addirittura, i 138 (alla nota 4) citano in modo esplicito san Paolo
a proposito della nozione di “cuore”. In una usanza molto diffusa
fra i musulmani, san Paolo viene rigettato, anzi viene considerato
il traditore del messaggio di Gesù Cristo, che secondo loro avrebbe
dato “un messaggio islamico”. Spesso i musulmani dicono che il
messaggio di Cristo era come quello del Corano, ma che Paolo ha
introdotto la Trinità, la Redenzione per la Croce e il rigetto della
Legge mosaica. Un famoso libro anti-cristiano, pubblicato nel 2000 e
vietato in Libano, s’intitola “Togliete il velo da Paolo”!
Tutti questi piccoli segni mostrano un sincero sforzo di dialogo a
livello del linguaggio e delle testimonianze bibliche. Vi sono anche
piccole allusioni all’ebraismo, per integrarlo in questa visione.
Usando per esempio il termine “la gente della Scrittura”, è chiaro
che si vuole parlare anche degli ebrei, anche se il discorso è
ufficialmente indirizzato ai cristiani.
III. Apprezzamento positivo e lettura critica
Cerchiamo di vedere ora altri aspetti positivi di questo documento,
segnalando anche le lacune e gli elementi che necessitano una
riflessione più approfondita. Insomma, vorrei fare una lettura un
po’ critica della Lettera.
Ricerca di un fondamento comune … ma non universale
Venendo al contenuto, l’impressione mia è che, rimanendo a questo
livello, è facile mettersi d’accordo. Il metodo usato è di scegliere
brani dei testi sacri che possano essere messi in parallelo. Nel
Corano vi sono testi in contraddizione con il cristianesimo, ma loro
hanno fatto la scelta di privilegiare quelli più simili e vicini. È
un passo importante, ma se rimaniamo solo a questo livello,
improntiamo un dialogo basato sull’ambiguità. In ogni modo, come
primo passo, è utile mettere in rilievo un fondamento comune.
Anche nella tradizione cristiana c’è la ricerca di un fondamento
comune con le altre religioni, anzi con tutte le culture. Tale
fondamento, dal punto di vista cristiano, non si basa sul Corano e
sulla Bibbia, perché questo escluderebbe i non credenti. Il
fondamento comune è la legge naturale, il Decalogo visto come legge
naturale, un’etica comune accettata anche dagli atei.
In un discorso del 5 ottobre scorso, rivolto alla Commissione
Teologica internazionale, il papa ha parlato della legge morale
naturale, per “giustificare e illustrare i fondamenti di un’etica
universale appartenente al grande patrimonio della sapienza umana,
che in qualche modo costituisce una partecipazione della creatura
razionale alla legge eterna di Dio”. Benedetto XVI continua poi
riferendosi al Catechismo della Chiesa cattolica (n. 1955): La vita
morale “ha come perno l'aspirazione e la sottomissione a Dio, fonte
e giudice di ogni bene, e altresì il senso dell'altro come uguale a
se stesso”. Il Decalogo è “legge naturale” e non rivelata in senso
stretto.
Il pontefice continua dicendo che partendo dalla legge naturale, “di
per sé accessibile ad ogni creatura razionale, si pone con essa la
base per entrare in dialogo con tutti gli uomini di buon volontà e
più in generale con la società civile e secolare”.
Come i firmatari della Lettera, il papa sta cercando in tutti i modi
di trovare un fondamento comune al dialogo, al dialogo con tutti;
questo fondamento non può essere la Scrittura, ma è l’etica
universale fondata sul diritto naturale.
La lettera inviata dagli esperti musulmani ai cristiani, si ferma a
ciò che è comune nella Bibbia e nel Corano. Io penso che il passo
seguente dovrebbe essere quello di trovare fra cristiani e musulmani
un fondamento più universale. Questo includerebbe alcuni elementi
delle Scritture religiose, purché accettabili da tutti; ma dovrebbe
andare oltre, trovando i fondamenti di un dialogo universale.
Questa è una lacuna della lettera, che tenta solo di riannodare i
rapporti fra cristiani e musulmani. Lo si dice con chiarezza
nell’introduzione, ricordando che “insieme noi rappresentiamo il 55%
della popolazione mondiale”. Dunque mettendoci d’accordo potremo
quasi imporre la pace al mondo. È un approccio tattico, politico.
Bisogna andare verso fondamenti razionali della pace, nella verità.
Per questo, come ha detto il card. Tauran, il testo è interessante,
apre alcune strade nuove nel metodo e nel contenuto, ma ha bisogno
di essere approfondito per renderlo più oggettivo e non selettivo,
per renderlo più universale, e meno politico.
Distinguere tra politiche e persone
Da questo punto di vista, bisogna aggiungere un’ulteriore piccola
critica. La lettera ad un certo punto chiede ai cristiani di
“considerare i musulmani non contro di loro, ma con loro, a
condizione che i cristiani non dichiarino la guerra”. Qui essi
alludono forse ai problemi della Palestina, dell’Iraq,
dell’Afghanistan… Ma lì non sono i cristiani come tali che sono
impegnati nella guerra.
Gli americani in Iraq (se a questo si riferisce la lettera) non sono
in Iraq come cristiani che opprimono i musulmani: non c’entra né
l’elemento cristiano, né quello musulmano. Si tratta di una
questione politica fra gli Stati Uniti e i Paesi del Medio Oriente.
E anche se sappiamo che il presidente degli Stati Uniti è cristiano
e che la sua fede lo guida, non si puo’ assolutamente affermare che
è una guerra dei cristiani contro i musulmani.
Questo punto è importante perché i musulmani tendono a vedere
nell’Occidente una potenza cristiana, senza rendersi conto fino a
che punto l’Occidente è secolarizzato e lontano dall’etica
cristiana. Questo modo di pensare rinforza la teoria dello scontro
di culture (o di religioni), proprio al momento che si cerca di
combattere tale teoria!
Una bella conclusione: convivenza nella diversità
Un ultimo punto. Nella lettera si cita il versetto coranico sulla
tolleranza: “Se Dio l’avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola
comunità. Ma ha voluto provarvi con l’uso che farete di quello che
vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone; voi tutti
ritornerete a Dio ed Egli vi informerà a proposito delle cose su cui
siete discordi” (Sura della tavola imbandita, n. 5:48).
Questa sura è la penultima in ordine cronologico del Corano. Ciò
significa che questa sura non può essere stata cancellata o superata
da un’altra, secondo la teoria islamica dell’interpretazione
coranica, detta dell’abrogante e dell’abrogato (nâsikh wa-l-mansûkh).
Questo versetto è fondamentale perché dice che le nostre diversità
religiose sono volute da Dio. La conseguenza è: “gareggiate nelle
opere buone” come modo di dialogare. Questa è davvero una bella
scelta da parte loro per concludere la loro Lettera, perché
significa che possiamo convivere malgrado le nostre diversità, anzi
che Dio ha voluto questa diversità!
Verso il futuro
Questa Lettera è un primo passo nel dialogo tra cristiano e
musulmano. Spesso i cristiani hanno preso delle iniziative di
dialogo; stavolta, per la prima volta, mi sembra, sono i musulmani a
prendere l’iniziativa, e l’hanno fatto bene. È importante che questi
primi passi continuino nella direzione di una maggiore chiarezza,
anche mostrando differenze e necessità di correzioni. Siccome la
Lettera è indirizzata a varie responsabili del mondo cristiano, si
può sperare che ci sarà una risposta a questa lettera, che è
costata un immenso sforzo da parte musulmana.
Ma questa Lettera è certamente indirizzata anche ai musulmani, anche
se non è detto esplicitamente. Che peso avrà nel mondo islamico,
mentre continuano le notizie di rapimenti di sacerdoti, persecuzione
di apostati, oppressione dei cristiani? Finora non vi è stato alcun
commento da parte islamica. Ma penso che col tempo questo documento
potrà creare un allargamento e una convergenza maggiore.
Soprattutto, c’è da sperare che il prossimo passo si affronteranno
le questioni più sensibili della libertà religiosa, del valore
assoluto dei diritti umani, del rapporto tra religione e società,
dell’uso della violenza, ecc., insomma delle questioni attuale che
preoccupano tanto il mondo musulmano (e direi in primo luogo i
musulmani) quanto il mondo occidentale.
v. anche:
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dello stesso autore, gennaio 2008