La lezione magistrale del papa a Regensburg,
tanto criticata da molto mondo musulmano (e anche occidentale), sta
portando frutti positivi proprio nel dialogo con il mondo islamico.
Proprio in seguito al
discorso di Regensburg (12 settembre 2006),
38
saggi islamici hanno mandato una prima lettera a commento (13
ottobre 2006) e un anno dopo
una seconda lettera (sottoscritta da
138 saggi, diventati intanto 216) per cercare un terreno comune di
collaborazione fra cristiani e musulmani.
A sua volta, il 19 novembre scorso,
Benedetto XVI ha risposto alla
Lettera dei 138 aprendo a una possibile collaborazione su diversi
campi. Alcune settimane fa (il 12 dicembre 2007), una lettera al card. Bertone del principe giordano Ghazi bin Muhammad bin Talal,
accetta di aprire il campo alla collaborazione: fra febbraio e
marzo, personalità della Curia vaticana e del mondo islamico si
incontreranno a Roma per stabilire le procedure e i contenuti di
tale dialogo. Ma è possibile che il tutto si concluda con un buco
nell’acqua. Mi sembra infatti che le personalità musulmane in
contatto con il papa, vogliano sfuggire questioni fondamentali e
concrete, come i diritti dell’uomo, la reciprocità, la violenza ecc.
per arroccarsi su un improbabile dialogo teologico “sull’anima e
Dio”.
Vediamo più da vicino i problemi emersi.
I. La Lettera dei 138: “Una parola comune tra noi e voi”
Nella Lettera dei 138 è piena di buona volontà: i dottori islamici
dicono di voler guardare “a ciò che unisce” islam, cristianesimo e
altre religioni. Essi hanno perfino fatto lo sforzo di esprimersi in
modi “cristiani”, dicendo che il cuore della religione è “amare Dio
e il prossimo”.
L’Islam non si esprime così. Questa è un’espressione
dell’AT, ripresa da Gesù in un senso più realistico, concreto e
universale nella parabola del buon samaritano (Luca 10, 23-37). Gesù
dice due cose importanti: anzitutto, egli mette il primo
comandamento come “uguale” al secondo (e questo non era così chiaro
nemmeno nell’AT); in secondo luogo egli precisa chi è il prossimo,
non il “più vicino a me” (come espresso dai dotti islamici nella
loro lettera in arabo, con la parola jâr, vicino), ma quello al
quale io mi faccio “prossimo”. Il Vangelo rovescia infatti la
domanda dello scriba (“chi è il mio prossimo?”) e si chiede chi si è
comportato come “prossimo” del moribondo. Il prossimo è dunque ogni
persona umana, anche il nemico, come era il caso del samaritano per
gli ebrei.
Nel Vangelo si trovano spesso parabole in cui Gesù rovescia i valori
comuni: il fariseo e il pubblicano; i pagani rispetto ai giudei; il
bambino rispetto all’adulto.
Il pericolo più grosso della lettera dei 138 è nei suoi silenzi, su
ciò che essa non tratta: non si accenna, ad esempio, ai problemi
della comunità internazionale verso la comunità musulmana e ai
problemi reali interni alla comunità musulmana. La Umma si trova in
un momento molto delicato, in una fase di estremismo e di
radicalismo diffusi in una parte significativa dei musulmani, che è
una forma di esclusivismo: chi non la pensa come noi è nostro
nemico. Questo è evidente ogni giorno sulla stampa musulmana, e
vediamo violenze e attacchi in Iraq, Iran, Pakistan, Afghanistan,
fra i musulmani sunniti e sciiti, o contro cristiani o ebrei, o
semplicemente contro il musulmano che è tollerante ... e ci sono!
Il pericolo per l’Islam non è la violenza: questa è presente in
tutto il mondo e in tutte le religioni e le ideologie. Il pericolo è
di giustificare tutto questo attraverso la religione. Anche certe
violenze contro le donne e i loro diritti sono giustificati con il
Corano. Ad esempio, un donna musulmana non può divorziare, perché il
divorzio è un diritto del marito, lei può solo chiedere il favore
d’essere ripudiata da lui. Lui, in base al Corano si può anche
risposare (fino a 4 mogli) e rifarsi una vita, ma la donna, che vive
separata, non ha questo diritto. Lei, una giovane sposa, si
lamentava con me perché “non c’è giustizia”. Queste situazioni in
cui uno si appoggia al Corano o alla sharia per escludere l’altro,
sono frequenti.
II. La risposta del papa: 4 campi di collaborazione
Nella risposta del pontefice - inviata attraverso il card. Tarcisio
Bertone, segretario di stato vaticano – Benedetto XVI esprime
“profondo apprezzamento” per lo spirito positivo che ha ispirato la
Lettera dei 138 e per l’appello a un impegno comune al fine di
promuovere la pace nel mondo.
Detto questo il papa suggerisce di cercare quanto è comune. Ma gli
elementi non sono identici.
Anzitutto egli fa una annotazione: cerchiamo quanto è comune “senza
dimenticare le nostre differenze”. Ciò significa che per il papa vi
sono differenze fra le due comunità che vanno tenute presenti, non
nascoste: possiamo essere fratelli e differenti, fratelli e opposti.
Questa è una regola d’oro, trattandosi di religioni e di dogmi.
Nella Lettera dei 138 si suggerisce che le cose “in comune” sono la
fede in un unico Dio. I dotti islamici citano proprio il Corano
quando dice “Veniamo a una cosa comune fra noi”, che richiede di non
mettere nulla vicino a Dio. Ma questo è proprio detto ai cristiani,
che vicino a Dio, mettono Gesù Cristo.
Per il papa “le cose comuni” esistono, ma esistono anche le
differenze e bisogna tenerle presenti.
Le “cose comuni” che il papa elenca sono 3:
- la fede nell'unico Dio, creatore provvidente;
- Dio, giudice universale, “che alla fine dei tempi considererà ogni
persona secondo le sue azioni”[1];
- siamo chiamati “ad impegnarci totalmente con lui e ad obbedire
alla sua sacra volontà”[2] .
Il papa allora propone un’applicazione concreta: formare un gruppo
di dialogo per cercare un terreno comune. Tale terreno va trovato a
diversi livelli:
- Il primo è trovare valori che garantiscano “il rispetto
reciproco, della solidarietà e della pace”. “Rispetto” qui significa
anche che vi sono differenze che occorre garantire e accoglierle. Ad
esempio, un musulmano può dire a un cristiano: io non sono d’accordo
su quel che tu credi, che cioè Gesù ha natura umana e divina. Voi
cristiani siete politeisti perché mettete affianco al Dio unico, i
vostro Gesù Cristo e lo Spirito Santo, cioè altri dèi. Io dico:
cerchiamo di vivere il rispetto reciproco. Tu hai pieno diritto nel
dire che la concezione islamica esclude la Trinità, la
divino-umanità. Ma lasciami il diritto di poter dire ad esempio che
Maometto non è un inviato di Dio. Posso riconoscere che egli è una
grande personalità sul piano umano, politico, un riformatore sociale
e spirituale, che ha portato anche rilievi negativi, ma non è un
profeta. Ho il diritto di dirlo o no? Come tu hai diritto a dire che
non credi nella divinità di Cristo – e sei coerente nella tua fede
–, noi anche abbiamo diritto di dire quello che pensiamo su
Maometto[3]. Insomma, non esistono degli argomenti “tabù”, ma
esistono solo dei modi e dei metodi tabù, perché violenti e
irrispettosi.
- L’altro livello è quello della vita umana come “sacra”. Questa
dimensione etica abbraccia un campo molto largo, che va dal rigetto
dell’aborto fino alla fine naturale della vita umana. Ma è inserita
anche la non violenza, che è una delle forme più nobili del rispetto
della vita umana. E significa anche un amore a tutte le opere della
cultura e del progresso umano: per l’uguaglianza fra gli uomini, per
i diritti umani: un rispetto alla vita e a ciò che la fa esprimere e
fiorire. Nel discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2006, il
papa diceva: “è necessario accogliere le vere conquiste
dell'illuminismo, i diritti dell'uomo e specialmente la libertà
della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi
essenziali anche per l'autenticità della religione”. Per Benedetto
XVI, “il contenuto del dialogo tra cristiani e musulmani sarà in
questo momento soprattutto quello di incontrarsi in questo impegno
per trovare le soluzioni giuste”. Insieme ai musulmani, impegnarsi
“contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra
religione e libertà”. Il fondamento è “la dignità di ogni persona
umana”, espressa dai diritti umani.
A questo punto il papa suggerisce ai 138 quattro temi da affrontare:
- diritti umani. Questo è il primo punto per fondare il dialogo;
- conoscenza obbiettiva della religione dell’altro. Ossia conoscere
l’altro per come l’altro si definisce. Il cristiano deve conoscere
l’Islam per come il Corano e i musulmani odierni lo definiscono; il
musulmano deve conoscere il cristianesimo attraverso i Vangeli e
l’insegnamento della Chiesa[4] . Una conoscenza obbiettiva è
fondamentale per un reale rapporto.
- Condivisione dell’esperienza religiosa. Questo elemento non è
stato messo in evidenza finora. L’esperienza religiosa è più della
conoscenza. Riconosce che anche se il dogma dell’altro, non è quello
mio, egli può arricchirmi dal punto di vista umano e spirituale.
Alcuni giorni fa, in volo da Beirut a Parigi, ho potuto passare 3
ore a colloquiare con un giovane africano proveniente dalla Mecca,
dove aveva compiuto il pellegrinaggio. È stato bellissimo e
profondo. E questo ci è servito ad apprezzare, ma anche rettificare
l’immagine che abbiamo l’uno dell’altro[5].
- Impegnarsi per educare i giovani. Se non prepariamo i giovani a
vivere già oggi questo rispetto reciproco, domani ci potremmo
trovare ancora in un conflitto fra noi.
Fin qui la lettera del Papa: breve, ma molto densa, segno della sua
profonda riflessione.
III. La risposta al papa di Ghazi Ibn Talal: solo dialogo teologico
La risposta dei 138, a firma di Ghazi Ibn Talal, principe di
Giordania, data dal 12 dicembre 2007. Dopo alcuni preamboli, la
lettera dice che essi accettano l’idea del dialogo e che in marzo
invieranno alcuni rappresentanti per precisare i dettagli
dell’organizzazione e delle procedure.
Ma poi (al n. 4 del testo) propongono una distinzione tra intrinseco
e estrinseco, e spiegano: «Per “intrinseco” intendiamo ciò che si
riferisce alle nostre anime e alle loro caratteristiche interiori, e
per “estrinseco” intendiamo ciò che è riferito al mondo e quindi
alla società». Essi propongono di partire dalla Lettera da loro
scritta, “Una parola comune tra noi e voi”, e di concentrarsi
«essenzialmente un'affermazione del Dio Unico, e del duplice
comandamento di amare Lui ed il prossimo». Tutto il resto appartiene
all’estrinseco, di cui fa parte anche l’impegno nella società.
Onestamente, trovo che questa distinzione sia debole e perfino non
islamica. Perché se “intrinseco” è l’anima ed “estrinseco” è il
mondo e la società, allora significa che il Corano parla tantissimo
delle cose “estrinseche” e pochissimo delle cose “intrinseche”. Il
Corano parla del mondo, del commercio, della vita in società, della
guerra, del matrimonio, ecc, ma parla pochissimo dell’anima e del
rapporto con Dio. Ma soprattutto il Corano non fa mai questa
distinzione. Anzi, il problema dell’Islam è proprio quello di non
fare alcuna differenza fra questi due livelli. Come mai i 138
vogliono affrontare solo le cose “intrinseche”? Temo che abbiano
paura di affrontare tutta la realtà delle due religioni.
La risposta di Ghazi continua: “È su questa comune base
intellettuale e spirituale, quindi, che capiamo che stiamo
perseguendo, Dio volendo, un dialogo sui tre temi generali di
dialogo che Sua Eminenza ha saggiamente menzionato nella sua
lettera: (1) “effettivo rispetto della dignità di ogni persona
umana”; (2) “conoscenza obiettiva della religione dell'altro”
attraverso “la condivisione dell'esperienza religiosa”; e (3) “un
impegno comune alla promozione del rispetto e dell'accettazione
reciproci tra i giovani” [6]. Il principe continua esortando al dialogo, citando un convegno
organizzato dalla Comunità di sant’Egidio.
E infine essi si distaccano da “alcune recenti dichiarazioni
provenienti dal Vaticano e da consiglieri vaticani – che non possono
essere sfuggite all'attenzione di Sua Eminenza –– riguardo al
principio di fondo del dialogo”. Penso che le persone a cui si
riferiscono siano proprio il card. Tauran (e forse p. Christian W.
Troll e me stesso), che abbiamo espresso le nostre difficoltà sulla
possibilità di un dialogo teologico fra cristiani e musulmani.
Lo stesso principe dice di ritenere “inerentemente” impossibile “un
accordo teologico completo tra cristiani e musulmani”, ma nonostante
ciò egli desidera che il dialogo avvenga su questo piano,
«“teologico” o “spirituale” o in qualsivoglia altro modo – per la
ricerca del bene comune e per il bene del mondo intero, Dio
volendo».
Il principe dunque riafferma il suo impegno di collaborazione sul
piano teologico e spirituale. E qui vi è un’ambiguità: l’Islam, più
che il cristianesimo, mescola il teologico con il politico e perfino
con il militare. E loro qui pretendono di parlare solo del
teologico. Con ogni probabilità dietro il pensiero di Ghazi vi è
qualche teologo. Penso a un’intervista a CNS del 31 ottobre scorso,
del prof. Aref Ali Nayed riprodotta su "Islamica magazine", che
ripete: “molti teologi musulmani non sono affatto interessati a un
dialogo puramente etico-sociale”; il vero “dialogo deve essere
teologicamente e spiritualmente fondato”.
Alcuni mesi fa egli ha anche affermato che la sua concezione del
dialogo “esclude tutto ciò che non è teologico e spirituale”. Ma
onestamente non si può fare questa distinzione: non si possono non
affrontare le conseguenze umane e sociali delle posizioni
teologiche.
IV - Conclusione
Per riassumere, perciò, dobbiamo dire che si comincia a vedere
qualche buon frutto importante per il dialogo. E bisogna ricordare
che tutto è partito da Regensburg, da quella lezione magistrale che
sembrava aver distrutto ogni base per il dialogo ed invece lo ha
fatto risorgere.
Il discorso di Regensburg era impostato sul regno della ragione come
fondamento del dialogo. Il che suppone tutto il movimento delle
religione di fronte all’illuminismo, ma senza impoverire la ragione.
Insomma, il fondamento di tutto non è la religione, ma la ragione
umana che è ciò che è comune a tutti gli esseri umani[7].
Il discorso di Regensburg parte proprio da questo problema: come
trovare un fondamento comune all’umanità e alle religioni, compreso
anche l’Islam? Nello stato moderno, il fondamento comune si esprime con la
dichiarazione universale dei diritti umani, della libertà di
religione, ecc… Anche nel dialogo fra cristiani e musulmani, occorre
prendere questi come la base del dialogo, altrimenti non arriveremo
a nulla. In passato molti teologi musulmani hanno rifiutato la
dichiarazione universale dei diritti umani e ne hanno stilato una
“islamica”, accusando quella “universale” di essere solo
“occidentale”. Ma questo nega che vi possa essere universalità e
quindi nega che possiamo avere principi comuni. Questo è il
fondamento del conflitto fra il mondo islamico e l’occidente, o il
resto del mondo.
Kofi Annan, invitato una volta dall’Organizzazione dei Paesi
islamici aprendo un convegno, ha detto con chiarezza: non può
esistere una dichiarazione “islamica”, “africana”, “cristiana”
“buddista” dei diritti dell’uomo. La dichiarazione o è universale, o
non può esistere.
Invece la lettera del principe al-Ghazi sembra dire che i diritti
umani non importano e sono solo una questione politica. Interessa
solo il dialogo teologico. Ma a cosa serve parlare del Dio unico, se
non riconosco che l’uomo ha una dignità assoluta ad immagine di Dio?
Che la libertà di coscienza è sacra; che il credente non ha più
diritti del miscredente; che l’uomo non ha più diritti della donna;
ecc..?
Bisogna affermare che l’uomo è anteriore alla religione: rispettare
l’uomo viene prima del rispetto della religione. É questo
l’approccio cristiano. Non vorrei che alcuni teologi, trovandosi in difficoltà
sull’affermazione della dignità di ogni uomo, cercano una via
d’uscita nel dialogo teologico. Ma in questo modo si rischia di
produrre solo falsità.
Ma questo è un problema interno anche all’Islam in se stesso. Finché
esso non avrà basato tutto sulla persona umana e reinterpretato la
fede alla luce dei diritti umani, non sarà mai moderno.
Nelle due dichiarazione islamiche sui diritti umani, si afferma
spesso che l’islam ammette i diritti umani, “purché siano conformi
alla legge”. A un lettore ingenuo che legga la traduzione in
inglese, questo potrebbe andare anche bene. Il punto è che quanto
riportato nelle traduzioni inglesi come “legge”, nelle stesure delle
dichiarazioni in lingua araba sono tradotte come “conformi alla
sharia”. Ciò significa che i diritti umani “islamici” rischiano di
riproporre le solite ingiustizie e violenze: apostasia, blasfemia,
lapidazione, ingiustizie verso le donne e i figli, ecc...[8] .
Certo, il dialogo interreligioso non può essere concentrato solo sui
diritti umani, ma non può nemmeno fare come se non ci fosse un grave
problema proprio su questa realtà.
Mi sia permesso per concludere citando un passo della lettera di san
Giacomo (2, 14-26), anche se un po’ lungo. Nel nostro contesto mi
pare assai importante, sia per la domanda del versetto 19, sia
perché fa l’esempio di “Abraham, l’amico di Dio” (Khalil Allah, come
diciamo in arabo), così rispettato dai musulmani:
[14] Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non
ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? [15] Se un fratello
o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano
[16] e uno di voi dice loro: "Andatevene in pace, riscaldatevi e
saziatevi", ma non date loro il necessario per il corpo, che giova?
[17] Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa.
[18] Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le
opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere
ti mostrerò la mia fede. [19] Tu credi che c'è un Dio solo? Fai
bene; anche i demòni lo credono e tremano! [20] Ma vuoi sapere, o
insensato, come la fede senza le opere è senza calore? [21] Abramo,
nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì
Isacco, suo figlio, sull'altare? [22] Vedi che la fede cooperava con
le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta
[23] e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e
gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. [24]
Vedete che l'uomo viene giustificato in base alle opere e non
soltanto in base alla fede. [25] Così anche Raab, la meretrice, non
venne forse giustificata in base alle opere per aver dato ospitalità
agli esploratori e averli rimandati per altra via? [26] Infatti come
il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere
è morta.
Note
[1] Che saremo giudicati sulle azioni, sui fatti, è un pensiero
comune a cristiani e musulmani. Il Corano parla di «coloro che
credono in Dio e nell’Ultimo Giorno e compiono il bene» (2:62 =
5:69). Ma ciò significa che c’è un’etica – che può essere anche
comune. Costruire un’etica comune sarebbe una cosa molto importante.
Già in passato si è avuto qualcosa di simile. Alla Conferenza Onu
del Cairo sulla popolazione e lo sviluppo, nel 1994, il Vaticano ha
votato con i paesi islamici. Diversi ambasciatori hanno criticato la
Santa Sede perché andava con gli integralisti. In realtà su
questioni di diritto alla vita, cristiani e musulmani convergono. Lo
stupore viene solo dall’occidente secolarizzato, che ha creato
un’etica relativista, che lascia decidere all’individuo, in modo
soggettivo, ciò che è bene e ciò che è male. Questo punto esige un
lavoro urgente e grande.
[2] Quando si dice questo, il musulmano si trova perfettamente a suo
agio perchè l’obbedienza è la struttura di vita dell’uomo islamico,
è l’abbandono alla volontà di Dio, l’islâm. E anche per il
cristiano, la dedizione a Dio (e agli uomini) è un ideale grande. Ma
su questo punto è necessario allargare e precisare il discorso: cosa
significa siamo chiamati “a dedicarci totalmente”? Per un estremista
islamico, dedicarsi a Dio potrebbe significare anche uccidere,
mettere una bomba, farsi saltare in aria. Anche qui risalta una
differenza fra cristiani e musulmani, su cui è necessario
impegnarsi: la non-violenza è una scelta spirituale, non politica.
[3] Su questo punto noi cristiani nel mondo arabo soffriamo tanto,
perchè non ci è lecito dire davvero quello che pensiamo. Spesso i
musulmani ci chiedono “uno scambio di favori”: noi crediamo che Gesù
è un profeta, voi dovete credere che Maometto è un profeta.
[4] in questa conoscenza obbiettiva reciproca, il pericolo maggiore
lo corrono i musulmani. Essendo l’islam venuto dopo del
cristianesimo, e essendoci nel Corano riferimenti a Gesù, a Maria, e
ai cristiani, molto spesso i musulmani non fanno la fatica di
conoscere il cristianesimo per come i cristiani si comprendono, ma
si accontentano di quello che dice il Corano. I cristiani, invece,
per scoprire l’Islam hanno solo la possibilità di conoscerlo
leggendo il Corano.
[5] Questo significa che possiamo condividere la religiosità senza
rinunciare ai nostri principi. Si può anche pensare di pregare
insieme. Tante volte in passato si è fatta la critica a Ratzinger
che era negativo sugli incontri di Assisi, dove dal 1986,
personalità religiose si sono incontrati a pregare. La polemica che
è scaturita tante volte era se persone di diverse religioni potevano
pregare insieme. La posizione dell’allora card. Ratzinger era che
bisognava evitare tutto ciò che poteva suggerire confusione o
sincretismo. Ma pregare insieme, come l’ha fatto il papa a Istanbul
nella moschea, è il massimo del rispetto e del dialogo.
[6] Va notato che essi non si sono accorti che i punti citati dal
papa sono 4 e non 3: la condivisione dell’esperienza religiosa, nel
testo del papa, è un 3° punto.
[7] Su questo fatto, la teologia islamica del X secolo aveva le idee
molto chiare e rispettava un fondamento comune a tutti gli uomini.
Poi il mondo islamico si è rinchiuso sempre di più, perfino contro i
musulmani razionalisti (come Averroé).
[8] Vale la pena domandarsi anche quanto peso ha avuto la Lettera
dei 138 nel mondo islamico. Nel campo degli esperti vi è stata una
crescita dell’assenso: da 138 firmatari si è passati a 216. Ma nella
popolazione non è passato nulla. Io ho visto solo pochi articoli in
lingua araba, su giornali arabi e islamici. Nessuno di essi faceva
un’analisi del contenuto della lettera dei 138. Alcuni davano solo
la notizia bruta, altri raccontava solo che cristiani e musulmani
volevano incontrarsi sulla fede del Dio unico. Non si può dire
quindi che questa lettera abbia mosso il mondo islamico.
v. anche:
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commento dello stesso autore, ottobre 2007