Pochi lo sanno, ma è
accaduto. Un libro uscito negli Stati Uniti offre per la prima volta
al grande pubblico i maggiori documenti sulla teoria e la pratica del
jihad. Da Maometto a oggi
v. anche:
Un libro uscito da poco negli Stati Uniti
alza il velo su un aspetto capitale dell’islam, di cui troppi sanno
poco e male: il jihad, la guerra santa.
È un aspetto su cui largamente si tace, come fosse un tabù. Anche
tra i cristiani, nella memoria diffusa che si ha della storia della
Chiesa, vi sono a questo proposito dei grossi buchi neri.
Un esempio? Molti ricordano cosa avvenne a Roma, nella basilica di San
Pietro, la notte di Natale dell’anno 800. Finita la messa, papa
Leone III pose solennemente sul capo di Carlo Magno la corona del
Sacro Romano Impero.
La basilica di San Pietro brillava quella notte di stupefacente
fulgore. Pochi anni prima il predecessore di Leone III, papa Adriano
I, aveva ricoperto l’intero pavimento del presbiterio con lastre
d’argento, aveva rivestito le pareti con lastre d’oro e cinto il
tutto con una balaustra d’oro del peso di 1.328 libbre. Aveva
rifatto in argento i cancelli del presbiterio e appeso
all’iconostasi sei immagini anch’esse d’argento raffiguranti
Cristo, Maria, gli arcangeli Gabriele e Michele, i santi Andrea e
Giovanni. Infine, perché tale splendore fosse pienamente visibile a
tutti, aveva innalzato un candelabro in forma di grande croce su cui
brillavano le luci di 1.365 candele.
Meno di mezzo secolo dopo, però, di tutto questo non restò più
nulla. E su che cosa avvenne regna oggi un generale vuoto di memoria,
tra i cristiani.
Avvenne che nell’aprile dell’anno 846 degli arabi musulmani,
arrivati con una flotta alle foci del Tevere, raggiunsero Roma, la
invasero, la saccheggiarono e portarono via dalla basilica di San
Pietro tutto l’oro e l’argento che conteneva.
E non si trattava di un attacco occasionale. Dall’anno 827 gli arabi
avevano conquistato la Sicilia, che mantennero sotto il loro dominio
due secoli e mezzo. Roma era seriamente sotto minaccia ravvicinata.
Nell’847, l’anno dopo l’assalto, il nuovo papa Leone IV iniziò
la costruzione di mura attorno a tutta l’area vaticana, alte 12
metri e munite di 44 torri. Le completò in sei anni. Sono le mura
“leonine” di cui restano ampi tratti. Ma pochissimi oggi sanno che
esse furono erette per difendere la sede di Pietro dal jihad
musulmano. E tra chi lo sa molti tacciono per pudore. “Non muri ma
ponti”, è lo slogan che oggi è di moda.
* * *
Il libro che alza il velo sulla guerra santa islamica ha per titolo
“The Legacy of Jihad”, l’eredità del jihad, ed è curato da
Andrew G. Bostom.
È un libro essenzialmente fatto di documenti, molti dei quali per la
prima volta tradotti in inglese dall’arabo o dal parsi, oppure
ripresi da libri di orientalisti di difficile consultazione per il
grande pubblico.
I documenti spaziano dal secolo di Maometto, il settimo, fino al
ventesimo. E comprendono sia testi classici sul tema del jihad di
teologi e giuristi musulmani, sia resoconti di guerra di testimoni
antichi e moderni, musulmani e non, sia analisi del jihad ad opera di
studiosi di vario orientamento.
Corredano il libro miniature che raffigurano momenti di jihad nella
storia, e mappe geografiche che documentano l’espansione militare
dell’islam secolo dopo secolo, dal settimo all’undicesimo. Ogni
mappa è corredata da un sommario che elenca gli atti di guerra in
ciascuna regione.
Ad esempio, in quel nono secolo in cui Roma fu presa d’assalto e la
Sicilia conquistata, le armate musulmane occuparono in Italia Bari e
Brindisi per trent’anni, Taranto per quaranta, Benevento per dieci;
attaccarono più volte Napoli, Capua, la Calabria, la Sardegna; misero
a ferro e fuoco l’abbazia di Montecassino; fecero scorrerie anche
nell’Italia del Nord, arrivando dalla Spagna e valicando le Alpi.
Dall’imponente documentazione raccolta da Bostom un dato emerge con
chiarezza: il jihad non è una delle forme in cui si attuò, in
particolari luoghi e momenti, l’espansione dell’islam, ma è
un’istituzione connaturata al sistema musulmano stesso, è una sua
obbligazione religiosa permanente.
Una cosa che stupisce è che a pubblicare in Occidente questa
documentazione sia un non specialista. Bostom è medico epidemiologo e
vive a Providence nel Rhode Island. Ma forse proprio questa sua non
appartenenza all’accademia degli orientalisti e islamologi lo rende più
libero dai tabù che imbavagliano molti di questi.
Contro il proislamismo di larga parte della cultura occidentale hanno
scritto pagine graffianti, tra altri, Jacques Ellul, Oriana Fallaci e
Bat Ye’or, quest’ultima grande specialista della condizione
subordinata imposta sistematicamente dall’islam ai sudditi non
musulmani dei paesi conquistati, nonché autrice nel 2005 di un saggio
dal titolo eloquente: “Eurabia. The Euro-Arab Axis”.
Una tesi centrale dei tre autori citati è che l’islam sia un tutto
coerente e irreformabile nei suoi elementi essenziali, e che la libertà
e i diritti della persona non vi possano appartenere.
Ma anche un autore che non condivide tale tesi ed è anzi uno dei più
decisi assertori della compatibilità tra islam e democrazia –
Bernard Lewis, uno dei più autorevoli islamologi viventi, professore
a Princeton – ha criticato severamente le tendenze proislamiche in
voga tra intellettuali e politici occidentali, persino ebrei.
In un saggio dal titolo “The Pro-Islamic Jews”, Lewis ha
riscostruito come l’idea di un’antica Spagna musulmana tollerante
con cristiani ed ebrei – oggi evocata da molti come un’età
dell’oro – sia un mito romantico del diciannovesimo secolo, creato
proprio da ebrei in polemica con i cristiani.
Anche l’adesione della moderna Turchia al campo occidentale e il suo
sostegno allo stato d’Israele hanno indotto una diffusa reticenza
sui massacri da essa compiuti nel secolo scorso dei cristiani armeni.
E ancora, a incoraggiare il generale silenzio sulle guerre sante di
ieri e di oggi – come anche sulla schiavitù tuttora praticata dai
musulmani in talune regioni, sugli assalti a chiese e sulle uccisioni
di cristiani – ci sono la ricerca di un buon vicinato con la
crescente immigrazione musulmana in Europa, la paura di attacchi
terroristici, la volontà di mostrarsi estranei allo schema dello
“scontro di civiltà”.
Ma di queste reticenze e silenzi dell’Occidente sono vittime, tra i
musulmani, proprio coloro che coraggiosamente si battono per riformare
la fede islamica e conciliarla con la democrazia e la modernità.
Meno male che, a non lasciarli soli, arrivano libri come questo di
Andrew G. Bostom.
___________________________
Il libro:
”The Legacy of Jihad. Islamic Holy War and the Fate of
Non-Muslims”, edited by Andrew G. Bostom, foreword by Ibn Warraq,
Prometheus Books, New York, 2005, pp. 762.
Da Lepanto a Baghdad
c’è una strada che passa per Roma
torna su
Il Vaticano aggiorna i suoi giudizi sulla storia dei rapporti tra
cristianesimo e islam. E un intellettuale musulmano analizza in modo
nuovo il caso Iraq. Due documenti
[Sandro Magister, su
L'espresso 19 dicembre 2005]
Nello stesso giorno in cui in Vaticano è
stato reso pubblico il messaggio di Benedetto XVI per la Giornata
della Pace del prossimo 1 gennaio, il cardinale segretario di stato
Angelo Sodano ha patrocinato alla Pontificia Università Lateranense
– di cui è gran cancelliere il vicario del papa cardinale Camillo
Ruini – un incontro focalizzato proprio su un tema cruciale per la
geopolitica della Chiesa: “Cristianesimo e islam, ieri e oggi”.
Nel suo messaggio, Benedetto XVI ha indicato nel “nichilismo” e
nel “fanatismo religioso” le due matrici profonde del terrorismo
islamista.
Al Laterano, invece, nell’incontro del 13 dicembre, l’analisi si
è concentrata soprattutto sulla storia del rapporto tra cristianesimo
e islam. Lo spunto è stato il quinto centenario della nascita di san
Pio V, il papa della battaglia di Lepanto del 1571 (vedi
illustrazione), nella quale una lega di stati cristiani d’Europa
inflisse alla flotta turca una decisiva sconfitta.
A svolgere il tema è stato un autorevole specialista di storia della
Chiesa, monsignor Walter Brandmüller, presidente del Pontificio
Comitato di Scienze Storiche.
Letta alla presenza del cardinale Sodano, la sua relazione ha
rappresentato il punto di vista attuale della Santa Sede sulla
questione: un punto di vista sicuramente meno remissivo di quello
prevalente durante il pontificato di Giovanni Paolo II.
La relazione di Brandmüller è riprodotta integralmente più sotto,
in questa pagina.
Ma c’è di più. Allo stesso incontro patrocinato e concluso dal
segretario di stato vaticano ha preso la parola anche un importante
rappresentante del pensiero musulmano, Khaled Fouad Allam, algerino
per nascita, parigino per studi, italiano per cittadinanza, professore
di islamologia all’università di Trieste, editorialista del
maggiore quotidiano liberal italiano, “la Repubblica”, e autore di
due libri indispensabili per capire l’islam d’oggi: “Islam
globale” e “Lettera a un kamikaze”.
Allam si è espresso in termini molto critici sullo stato attuale
dell’islam:
“L’uomo musulmano ha perso la sua cultura. E dalla morte della
cultura è arrivato alla cultura della morte”.
Ma ha affermato che da questa situazione di “crisi” l’islam può
uscire. Può far rivivere i momenti più positivi della sua identità
e della sua storia, che include la tolleranza e l’accettazione delle
differenze. Lo stesso Corano “va riletto con la ricchezza immensa
dei suoi strumenti interpretativi”. A questo fine “elemento chiave
è l’educazione”. Identità cristiana e identità musulmana non
sono condannate a scontrarsi. Possono tornare a “interconnettersi
come radici feconde”.
Nell’insistere sull’educazione, Khaled Fouad Allam si è congiunto
a quanto detto da papa Joseph Ratzinger ai musulmani da lui incontrati
a Colonia lo scorso 20 agosto.
Ma c’è un altro punto – più politico – su cui questo esponente
del pensiero musulmano si trova d’accordo con Benedetto XVI. E
riguarda l’Iraq.
Nel suo messaggio per la Giornata della Pace, il papa si è detto
vicino ai “tanti soldati impegnati in delicate operazioni di
composizione dei conflitti e di ripristino delle condizioni necessarie
alla realizzazione della pace”.
Nel caso dell’Iraq, la Santa Sede si è espressa più volte a favore
della presenza di truppe alleate in quel paese. Per due motivi:
combattere il terrorismo e sostenere la costruzione della democrazia.
Ebbene, il 15 dicembre c’è stato in Iraq un passaggio di
straordinaria importanza per la costruzione della democrazia: le
elezioni del nuovo parlamento. Con un’altissima partecipazione al
voto.
Su “la Repubblica” del 16 dicembre Khaled Fouad Allam ha
commentato questo passaggio con un’analisi di grande interesse,
centrata sulla composizione multietnica e multireligiosa della nazione
irachena.
Il suo commento è riportato anch’esso qui sotto, dopo la relazione
di Brandmüller.
Cristianesimo e islam nella storia
torna su
di Walter Brandmüller
Affronterò il tema cristianesimo e islam limitandomi a una breve
presentazione dei fatti storici, senza entrare nello specifico del
dialogo religioso e teologico. Ciò mi sembra utile poiché il quinto
centenario della nascita di Pio V è stato celebrato un po’ in
sordina, soprattutto nell’ambito della cultura accademica. Il
vincitore di Lepanto nel 1571, il papa che ha avuto il coraggio e
l’energia di costruire un’alleanza di quasi tutti i regni
cristiani contro l’impero ottomano – che con la sua avanzata stava
minacciando l’Europa e che, nei Balcani, già aveva installato il
suo dominio – oggi, proprio a causa della ripresa infelice delle
ostilità fra i due mondi – cioè da una parte il mondo che è stato
cristiano e che ancora in parte lo è, e dall’altra il mondo
islamico – a molti sembra una presenza ingombrante, che è meglio
lasciare in ombra.
Una cosiddetta laicità che vorrebbe mettere sotto accusa tutte le
religioni monoteiste tacciandole di fondamentalismo, oppure che esalta
il dialogo cancellando le diversità, vuole dimenticare il millenario
conflitto che ha contrapposto le due comunità religiose, e
soprattutto il pontefice romano che ha voluto e saputo bloccare
l’avanzata islamica, salvando così la civiltà cristiana.
Anche se si tratta di due religioni monoteiste che tra l’altro
condividono, sia pure in misura diversa, la tradizione ebraica – uno
specialista come Samir Khalil Samir sottolinea come prima di Maometto
anche gli ebrei e i cristiani arabi chiamassero il loro Dio con il
nome di Allah – tra cristianesimo e islamismo le differenze sono
molte, e sono fondamentali.
Fin dalle origini, vi era differenza tra cristiani e musulmani nel
modo di concepire la conversione e nell’uso della violenza.
Per i cristiani la conversione doveva essere volontaria e individuale,
ottenuta principalmente attraverso la predicazione e l’esempio, e in
questo modo infatti si realizzò nei primi secoli la diffusione del
cristianesimo. Ovviamente, va sin d’ora riconosciuto che questa
concezione del cristianesimo primitivo ha subito in epoca posteriore
un cambiamento, da collegarsi con il diffondersi, anche nella cultura
occidentale, di uno spirito d’intolleranza in materia di religione.
Lo stesso Giovanni Paolo II ha riconosciuto che, sotto questo profilo,
i figli della Chiesa “non possono non tornare con animo aperto al
pentimento […] all’acquiescenza manifestata tra Medio Evo e prima
età moderna a metodi di intolleranza” (Tertio Millennio Adveniente,
35).
Da parte musulmana, invece, sin dai primissimi tempi, e cioè durante
la vita di Maometto, la conversione è stata imposta con le armi.
L’espansione e l’estensione dell’area di influenza dell’islam
sono infatti avvenute attraverso le guerre con le tribù che non
accettavano pacificamente la conversione, e questa andava di pari
passo con la sottomissione all’autorità politica islamica.
L’islamismo, a differenza del cristianesimo, esprime un progetto
globale, al tempo stesso religioso, culturale, sociale e politico.
Mentre infatti il cristianesimo si è diffuso nei primi tre secoli,
nonostante le persecuzioni e il martirio, in contrapposizione per
molti aspetti al dominio romano – e comunque introducendo una netta
separazione della sfera spirituale da quella politica – l’islam si
è imposto con la forza di una dominazione politica.
Non stupisce quindi che l’uso della violenza occupi un posto
centrale nella tradizione islamica, come rivela il ricorso frequente
del termine jihad in moltissimi testi. Anche se alcuni studiosi,
soprattutto occidentali, sostengono che con jihad si deve intendere
non necessariamente la guerra, ma piuttosto la lotta spirituale, lo
sforzo interiore, ancora Samir Khalil Samir
ha chiarito che l’uso di
questo termine nella tradizione islamica – compreso quello che ne
viene fatto oggi – è sostanzialmente univoco, e indica la guerra in
nome di Dio per difendere l’islam, che è un obbligo per i musulmani
maschi adulti. Chi sostiene dunque che l’accezione di jihad come
guerra santa costituisce una sorta di deviazione dalla vera tradizione
islamica non dice la verità, e la storia mostra come purtroppo la
violenza abbia caratterizzato l’islamismo fin dalle origini, e come
sia stato lo stesso Maometto a organizzare e a condurre
sistematicamente le razzie nei confronti delle tribù che non volevano
convertirsi e accettare il suo dominio, sottomettendo in questo modo,
una dopo l’altra, le tribù arabe. Naturalmente, bisogna anche dire
che all’epoca di Maometto le guerre facevano parte della cultura
beduina e che nessuno vi trovava nulla di riprovevole.
Anche la versione che oggi i musulmani – seguiti in questo da molti
storici occidentali – cercano di accreditare sulle crociate, non
risponde alla realtà storica.
Secondo questa rappresentazione i cristiani occidentali si sarebbero
presentati come invasori in un paese pacifico e rispettoso delle
religioni diverse – cioè la Terrasanta, che allora faceva parte
della Siria – utilizzando motivi religiosi per mascherare pretese
imperialiste e interessi economici.
L’idea delle crociate nacque invece soprattutto come reazione alle
misure che il califfo fatimide al-Hakim bi-Amr Allah prese contro i
cristiani di Egitto e di Siria. Nel 1008 al-Hakim abolì la festività
delle Palme e l’anno successivo ordinò di punire i cristiani e di
requisire ogni loro bene. Nello stesso 1009 saccheggiò e fece
demolire la chiesa che al Cairo era dedicata a Maria e non impedì la
profanazione dei sepolcri cristiani che la circondavano e il sacco di
altre chiese della città. Nello stesso anno si ebbe quello che fu
sicuramente l’episodio più grave: la distruzione a Gerusalemme
della basilica costantiniana della Resurrezione, conosciuta come il
Santo Sepolcro. Le cronache del tempo dicono che egli aveva ordinato
“di farvi sparire qualsiasi simbolo di fede cristiana e di
provvedere a portar via ogni reliquia ed oggetto di venerazione”. La
basilica quindi fu completamente abbattuta, e Ibn Abi Zahir cercò in
ogni modo di rimuovere il sepolcro di Cristo e di farne sparire ogni
traccia.
Oggi, in molti ambienti intellettuali, si parla spesso della
tolleranza religiosa esercitata durante molti secoli da parte del
potere politico islamico perché – mentre nei confronti delle
popolazioni pagane valeva il detto “abbraccia l’islam e avrai la
vita salva” e i pagani che non si convertivano venivano uccisi – i
“popoli del libro”, cioè ebrei e cristiani, potevano continuare a
praticare il loro culto.
Nella realtà, la situazione era molto meno idilliaca: cristiani ed
ebrei potevano sopravvivere solo se accettavano il dominio politico
musulmano e una situazione di umiliazione, aggravata dall’obbligo di
pagare imposte sempre più pesanti. Non c’è da stupirsi, quindi,
che la maggioranza dei cristiani, anche se non costretti con la forza,
a causa delle continue pressioni, economiche e sociali, si siano
convertiti all’islam, provocando la totale scomparsa di una
cristianità fiorente per oltre mezzo millennio come quella
dell’Africa romana, la terra di Tertulliano, san Cipriano, Ticonio e
soprattutto sant’Agostino.
Ma la differenza più forte tra cristianesimo e islamismo è a
proposito di un tema centrale come la concezione di essere umano.
Lo dimostra il fatto che molti paesi islamici non hanno accettato la
dichiarazione dei diritti dell’uomo promulgata dalle Nazioni Unite
nel 1948, o l’hanno fatto con la riserva di escludere le norme che
contravvenivano alla legge coranica, cioè in pratica tutte. Dal punto
di vista storico bisogna dunque riconoscere che la dichiarazione dei
diritti dell’uomo è un frutto culturale del mondo cristiano, anche
se si tratta di norme “universali”, in quanto valide per tutti.
Nella tradizione islamica, infatti, non esiste il concetto di
uguaglianza di tutti gli esseri umani, né di conseguenza quello di
dignità di ogni vita umana. La sharia è fondata su una triplice
disuguaglianza: tra uomo e donna, tra musulmano e non musulmano, tra
libero e schiavo. In sostanza l’essere umano di sesso maschile viene
considerato pienamente titolare di diritti e di doveri solo in quanto
appartenente alla comunità islamica: chi si converte a un’altra
religione o diventa ateo viene considerato un traditore, passibile
della pena di morte o, come minimo, della perdita di tutti i diritti.
La più irrevocabile di queste disuguaglianze è quella tra uomo e
donna, perché le altre possono essere superate – lo schiavo con la
liberazione, il non musulmano con la conversione all’islam –
mentre l’inferiorità della donna è irrimediabile in quanto
stabilita da Dio stesso. Nella tradizione islamica il marito gode di
una autorità pressoché assoluta sulla moglie: mentre all’uomo è
consentita la poligamia, la donna non può avere più di un marito,
non può sposare un uomo di altra fede, può essere ripudiata dal
marito, non ha alcun diritto sulla prole in caso di divorzio, è
penalizzata nella divisione ereditaria e dal punto di vista giuridico
la sua testimonianza vale la metà di quella di un uomo.
Se dunque l’islam implicava ed implica non solo un’adesione
religiosa, ma tutto un modo di vivere, sancito anche a livello
politico – modo di vivere che naturalmente comporta e prescrive come
agire con gli altri popoli, come comportarsi in questioni di guerra e
di pace, come avere relazione con gli stranieri – è molto facile
comprendere come la vittoria di Lepanto abbia garantito
all’Occidente la possibilità di sviluppare la sua cultura di
rispetto per l’essere umano, al quale viene garantita uguale dignità
in ogni condizione.
Se questa caratterizzazione dell’islam è destinata in futuro a
rimanere immutata, come è accaduto finora, non può che risultare
difficile la convivenza con quanti non appartengono alla comunità
musulmana: in un paese islamico, infatti, il non musulmano si dovrà
sottomettere al sistema islamico, se non vuole vivere in una
situazione di sostanziale intolleranza.
Viceversa, proprio a causa di questa concezione complessiva di
religione e autorità politica, il musulmano avrà molte difficoltà
ad adattarsi alle leggi civili nei paesi non islamici, ritenendole
qualcosa di estraneo alla sua formazione e ai dettami della sua
religione. Bisogna forse chiedersi se le comprovate difficoltà di
persone provenienti dal mondo islamico a integrarsi nella vita sociale
e culturale dell’Occidente non trovino una delle spiegazioni in
questa problematica.
Dobbiamo poi anche riconoscere il diritto naturale di ogni società di
difendere la propria identità culturale, religiosa e politica. Mi
sembra che Pio V abbia fatto proprio questo.
Iraq, tante comunità per una democrazia
torna su
di Khaled Fouad Allam
Cominciamo paradossalmente ad abituarci a una certa
"normalizzazione" riguardo al processo elettorale in Iraq.
Le elezioni del 15 dicembre consacrano un punto di arrivo del processo
di democratizzazione della società irachena.
I dati statistici sono chiari: il primo è il 70 per cento di
partecipazione al voto. Poi ci sono la netta diminuzione della
minaccia terroristica durante lo svolgimento delle elezioni e –
contrariamente a quanto ci si poteva aspettare – un'enorme affluenza
alle urne persino nella zona di Falluja, simbolo del triangolo sunnita.
La stessa televisione iraniana di informazione in lingua araba,
al-Alam, molto seguita dagli sciiti iracheni, ha sottolineato la vasta
affluenza di tutte le componenti della società irachena. I risultati
definitivi sulla composizione del nuovo parlamento iracheno, che
rimarrà in carica per quattro anni, saranno resi noti fra circa due
settimane.
Tutto ciò è senza dubbio un successo, sia per il popolo iracheno,
sia per gli Stati Uniti, di fronte a chi contestava e ancora contesta
l'esportazione della democrazia, questione che sta alimentando un
dibattito di carattere filosofico che investirà tutte le
trasformazioni geopolitiche del XXI secolo.
Comunque la larga partecipazione alla consultazione, il successo del
processo elettorale nonostante la drammatica insicurezza del paese,
richiede una lettura più approfondita.
Qual è il meccanismo per cui un popolo in una situazione di guerra si
sente così pressantemente chiamato alle urne? In realtà abbiamo
sottovalutato il fatto che, anche se i carri armati americani
entravano in Iraq, vi era comunque a monte, da parte americana, un
progetto politico ben preciso di rifondazione della società irachena,
ciò che probabilmente gran parte degli europei non ha colto. E
neppure hanno capito che questa riformulazione della nazione irachena
– vale a dire del significato che la nozione di identità irachena
può assumere – non passa più attraverso l’equivalenza tra
identità irachena e nazione araba, bensì attraverso la possibilità
data all'iracheno di essere sì parte integrante della nazione araba,
ma questa volta attraverso le appartenenze comunitarie: sciita,
sunnita, curda.
Sin dall'inizio gli americani hanno preso atto che il mosaico iracheno
era una mescolanza di comunità etnico-nazionali – come ad esempio i
curdi, che si riconoscono nella formazione di una comunità nazionale
curda – e di comunità confessionali (sciite, sunnite, cristiane)
che possono essere comunità multietniche, perchè ad esempio esistono
dei curdi cristiani e dei curdi sunniti.
Il problema è strutturare questo universo comunitario attraverso una
costruzione politica, attraverso la creazione di nuovi equilibri,
sapendo che il sistema nazionalista arabo in nome della nazione araba
faceva “tabula rasa” di tutte le altre appartenenze emarginando le
più importanti, in primo luogo quella sciita.
La nuova costituzione ha rovesciato completamente la prospettiva
politica irachena, affermando nel capitolo 1, articolo 3, che l'Iraq
è un paese multietnico, multireligioso, che è parte del mondo
islamico e che la sua popolazione araba è parte della nazione araba.
Soprattutto quest'ultima frase è importante per capire la prospettiva
del cambiamento in atto in Iraq; ed essa spiega in parte
l'entusiastica partecipazione al voto degli iracheni. La differenza
con il passato è notevole: l'Iraq in realtà cessa di essere una
nazione araba o parte della nazione araba, ma gli arabi dell'Iraq
dispongono del diritto di farne parte anche al di là delle sue
frontiere irachene.
Oggi la società irachena che si sta costruendo offre una sua
visibilità al mondo partecipando alle elezioni politiche; ma la nuova
nazione resta da costruire, e nessuno può dire oggi se essa funzionerà
o no. Perché sarà proprio sul terreno della politica, delle forze in
gioco, del gioco delle alleanze, che si verificherà la capacità
della nuova società irachena di definirsi politicamente. La politica
è quell'arte molto strana del come vivere insieme: ma per praticarla
gli iracheni avevano bisogno di ritrovare la loro libertà, che era
stata loro confiscata in nome della nazione eliminando ciò che è una
società, vale a dire la sua complessità etnica, religiosa,
culturale. Riconosco che gli americani avevano visto giusto, nel
considerare la prospettiva comunitarista un passaggio obbligato per la
riformulazione della società irachena.
Rimane un problema di fondo: il quadro iracheno, se funzionerà, non
potrà funzionare se non entro un quadro mediorientale omogeneo. Se
questa nuova democrazia continuerà a essere circondata da paesi
governati da forze antidemocratiche, il rischio è un indebolimento di
quanto è stato appena costruito.