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Dissertazione tenuta da S.E.R. il Card.
Albert Malcolm Ranjith, Arcivescovo di Colombo (Sri Lanka), al Convegno
"Adoratio2011" (Roma, 20 - 23 giugno 2011)
“ Quando siamo davanti al SS. Mo Sacramento, invece di guardarci
attorno, chiudiamo gli occhi e la bocca; apriamo il cuore; il nostro
buon Dio aprirà il suo; noi andremo a Lui. Egli verrà a noi, l’uno
chiede, l’altro riceve; sarà come un respiro che passa dall’uno
all’altro”, queste erano le parole con le quali il curato d’Ars, San
Giovanni Maria Vianney, cercava di spiegare l’adorazione (Il piccolo
Catechismo del Curato d’Ars, Tan Books & Publishers, Inc. Rockford,
Illinois, 1951, p.42).
- Adorazione è stare dinanzi a Dio onnipotente in un atteggiamento
di silenzio, potente espressione di fede: “Parla, Signore, perché il tuo
servo ti ascolta” (1 Sam.3,10). E’ davvero inspiegabile in termini
umani. Papa Benedetto XVI ha spiegato il significato di adorazione come
una proskynesis, “il gesto della sottomissione, il riconoscimento
di Dio come nostra vera misura, la cui norma accettiamo di seguire”, e
come ad – oratio “contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e
quindi in fondo amore” (Omelia del 21 agosto 2005 a Marienfeld,
Colonia). E’ tale processo di presenza davanti a Dio che ci trasforma.
San Paolo, parlando di coloro che si volgono verso il Signore come fece
Mosè, dichiara: “quando ci volgeremo verso il Signore, il velo sarà
tolto…e noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la
gloria del Signore, veniamo trasformati (meta morfoumetha) in
quella medesima immagine, di gloria in gloria” (2 Cor. 3,16.18). E’
interessante notare che il verbo usato qui è lo stesso usato per
spiegare la trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor (metemorfothè).
La presenza dell’adorante dinanzi a Dio lo trasforma. Ciò è
mirabilmente espresso in quelle parole del libro dell’Esodo: “quando
Mosè scese dal monte Sinai con le due tavole della Testimonianza nelle
mani, non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante,
poiché aveva conversato con Yahweh. Ma Aronne e tutti gli israeliti,
vedendo che la pelle del suo viso era raggiante, ebbero timore di
avvicinarsi a lui” (Es. 34, 29-30). E’ come quando qualcuno si mette a
fissare intensamente un tramonto; dopo un po’ di tempo, anche il suo
volto assume un colorito dorato.
Il vescovo Fulton J. Sheen nota, nello spiegare tale esperienza, che
quando guardiamo all’Eucaristia in un atteggiamento di adorazione, di
profonda riverenza e amore “accade qualcosa in noi di molto simile a
quanto accadde ai discepoli di Emmaus. Il pomeriggio della domenica di
Pasqua, quando il Signore si fece loro incontro, domandò perché fossero
così tristi. Trascorse alcune ore alla Sua presenza e ascoltando di
nuovo il segreto della spiritualità – “il Figlio dell’Uomo deve soffrire
per entrare nella Sua gloria” – finito il tempo di stare con Lui, i loro
“cuori ardevano” (Un tesoro nell’argilla, Autobiografia). L’adorazione
eucaristica è quindi un incontro profondamente personale e, in qualche
misura, comunitario con il Signore. L’atteggiamento innato di riverenza
non è dato da alcun senso di remissività, ma da un atteggiamento di fede
profonda e dal grande desiderio di dialogo, o meglio, un atteggiamento
di presenza e ascolto tra l’”Io” e il grande “Tu” – la ricerca della
comunione.
E’ come quando Mosè guardava il roveto ardente. Il roveto continuava
a bruciare, ma non si distruggeva. La nostra presenza davanti al Signore
eucaristico non diminuisce la Sua gloria, ma parla a noi e noi
dialoghiamo con Lui. E in tutto questo, veniamo trasformati. Non è Lui
che cambia, ma noi. Eppure, lungo la storia della Chiesa, questa grande
fede nella Presenza di Gesù in persona nella Santissima Eucaristia, ha
avuto anche dei detrattori, soprattutto quelli che criticavano la
pratica ecclesiale dell’adorazione eucaristica.
OBIEZIONI ALL’ADORAZIONE
Le forme più antiche di obiezione all’adorazione eucaristica, sorsero
nel contesto di una constatazione della non presenza fisica e reale del
Cristo nelle specie consacrate del pane e del vino. Fu Berengario (999 –
1088), l’arcidiacono di Angers in Francia, che sorprendentemente
sosteneva questa posizione all’inizio del Medio Evo che, ipso facto,
avrebbe reso superflua l’adorazione eucaristica. Ma fu papa Gregorio
VII, il capo della Chiesa allora regnante, che ordinò a Berengario di
firmare una ritrattazione a motivo della fede costante della Chiesa, un
documento che divenne il primo pronunciamento definitivo sulla fede
eucaristica della Chiesa. Dichiarava: “Credo con il cuore e professo
apertamente che il pane e il vino offerti sull’altare, mediante la
preghiera e le parole del Redentore, sono cambiati sostanzialmente nella
vera e propria vivificante carne e sangue di Gesù Cristo, nostro
Signore, e che dopo la consacrazione, sono il vero corpo di Cristo nato
dalla Vergine e appeso alla croce in immolazione per la salvezza del
mondo, così come il sangue di Cristo uscito dal Suo fianco, non solo
come segno e in ragione della potenza del sacramento, ma nella verità e
realtà della loro sostanza e in ciò che è proprio alla loro natura”
(Mansi, Collectio amplissima Conciliorum, XX 524D).
Oltre a tale convinzione di fede, la Chiesa diede impulso a una
intensificazione del culto eucaristico sotto forma di processioni
eucaristiche, atti di adorazione, visite a Cristo nella pisside, ecc.
Queste tradizioni iniziate allora sono diventate espressioni di fede
eucaristica. In seguito, presero corpo altre iniziative, quale
l’istituzione della solennità del Corpus Domini da parte di papa Urbano
IV. I miracoli eucaristici contribuirono alla crescita di tale fervore e
rafforzò la fede della Chiesa sulle specie consacrate del pane e del
vino, che sono realmente e integralmente il corpo e il sangue di Cristo,
fede creduta fermamente dagli apostoli e sempre professata come dottrina
fondamentale della Chiesa. In effetti, è quanto il Signore stesso aveva
affermato e voluto per la Sua Chiesa. “Questo è il mio corpo, questo è
il mio sangue” (cfr. Lc, 22,19-20) e “fate questo in memoria di me” (Lc.
22,19), furono le parole determinanti del Signore che anche san Paolo
riprende quando presenta l’Eucaristia (1 Cor. 4, 23-27).
La fede eucaristica della Chiesa fu definitivamente definita e
affermata dal Concilio di Trento, sullo sfondo della rivoluzione
luterana. Esso affermava che “nel divino sacramento della santa
Eucaristia, dopo la consacrazione del pane e del vino, il nostro Signore
Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, è contenuto veramente, realmente e
sostanzialmente sotto l’apparenza di quelle cose sensibili” (c. 719) e
ancora “poiché il Cristo, nostro Redentore, ha detto che ciò che offriva
sotto la specie del pane (Mt. 26,26ss.; Mc. 14,22ss; Lc. 29,19ss e 1
Cor. 11, 24ss) era veramente il suo corpo, nella Chiesa di Dio vi fu
sempre la convinzione, e questo santo Concilio lo dichiara ora di nuovo,
che con la consacrazione del pane e del vino si opera la conversione di
tutta la sostanza del pane nella sostanza del corpo del Cristo, nostro
Signore, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del Suo sangue.
Questa conversione quindi, in modo conveniente e appropriato è chiamata
dalla santa Chiesa cattolica transustanziazione” (c. 722). Inoltre,
confutò l’errore propagato soprattutto dalla riforma protestante,
secondo cui la transustanziazione fosse impossibile. Zwingli preferì
interpretare la consacrazione nel senso di transignificazione: non
“questo è il mio corpo”, ma “questo è come il mio corpo”. Egli contesta
che non può essere “è”, poiché se così fosse, noi mangeremmo
letteralmente la carne e il Signore sarebbe lacerato dai nostri denti. E
dato che ciò non avviene, la transustanziazione non può essere vera”
(cfr. Sulla cena del Signore ‘1526’ in Corpus Reformatorum: Huldreich
Zwingli Saemtliche Werke, vol 91 ‘Lipsia, Hensius 1927’, 796.2 – 800.5).
Per questo il Concilio di Trento decretò che “se qualcuno negherà che
nel santissimo sacramento dell’Eucaristia è contenuto veramente,
realmente, sostanzialmente il corpo e il sangue di nostro Signore Gesù
Cristo, con l’anima e la divinità, e quindi il Cristo tutto intero, ma
dirà che esso vi è solo come in un simbolo o una figura, o solo con la
sua potenza: sia anatema” (canone 728).
La Chiesa pertanto ha fermamente conservato la verità che il pane e
il vino consacrati, sono nella loro sostanza, veramente e integralmente
il corpo e il sangue di Cristo. Un dogma che è stato continuamente
riaffermato dai Concili che seguirono e dai supremi Pontefici. Come papa
Pio XII, il quale dichiarò che “per mezzo della transustanziazione del
pane in corpo e del vino in sangue di Cristo, come si ha realmente
presente il Suo corpo, così si ha il Suo sangue” (Mediator Dei,
70). Lo stesso è stato ribadito da papa Paolo VI (Mysterium Fidei,
46), da papa Giovanni Paolo II (Ecclesia de Eucharistia, 15, e da
papa Benedetto XVI (Sacramentum Caritatis 10, 11 e 66).
Papa Paolo VI, da parte sua, era seriamente preoccupato riguardo a
una certa tendenza nella Chiesa, successiva al Concilio Vaticano II, di
attenuazione di fede sulla sostanza dell’Eucaristia, in particolare
sulla transustanziazione e sulla presenza permanente. Egli dichiarò:
“ben sappiamo che… ci sono alcuni che circa le Messe private, il dogma
della transustanziazione e il culto eucaristico, divulgano certe
opinioni che turbano l’animo dei fedeli ingerendovi non poca
confusione..” (Mysterium Fidei 10). E continua il papa: “non
possiamo approvare le opinioni che essi esprimono e sentiamo il dovere
di avvisarvi del grave pericolo di quelle opinioni per la retta fede”
(ibid 14). Il papa, durante la cui vita si svolse la maggior parte del
Concilio Vaticano II, affermava: “la costante istruzione impartita dalla
Chiesa ai catecumeni, il senso del popolo cristiano, la dottrina
definita dal Concilio di Trento e le stesse parole con cui Cristo
istituì la SS.ma Eucaristia ci obbligano a professare che ‘l’Eucaristia
è la carne del nostro Salvatore Gesù Cristo, che ha patito per i nostri
peccati e che il Padre per sua benignità ha risuscitato’ (S. Ignazio di
Antiochia, Epistola ai smirnesi 7,1; PG 5,714). Alle parole del martire
sant’Ignazio, Ci piace aggiungere le parole di Teodoro di Mopsuestia, in
questa materia testimone attendibile della fede della Chiesa: ‘Il
Signore, egli scrive, non disse: questo è il simbolo del mio corpo e
questo è il simbolo del mio sangue, ma: questo è il mio corpo e il mio
sangue, insegnandoci a non considerare la natura della cosa presentata,
ma a credere che essa con l’azione di grazia si è tramutata in carne e
sangue’” (Mysterium fidei 44). In effetti, l’intera enciclica di
Paolo VI è una solida difesa della retta fede della Chiesa sulla SS.ma
Eucaristia. Inoltre, nella solenne professione di fede del 30 giugno
1968, egli affermò che “ogni spiegazione teologica che tenti di
penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la
fede cattolica, deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva,
indipendentemente dal nostro spirito, il pane e il vino han cessato di
esistere dopo la consacrazione, sicché da quel momento sono il Corpo e
il Sangue adorabili del Signore Gesù ad essere realmente dinanzi a noi
sotto le specie sacramentali del pane e del vino” (25, AAS60 (1968)
442-443). Di conseguenza, il Papa sollecita i vescovi “affinché questa
fede… rigettando nettamente ogni opinione erronea e perniciosa, voi
custodiate pura e integra nel popolo” e “promoviate il culto
eucaristico, a cui devono convergere finalmente tutte le altre forme di
pietà” (Mysterium fidei 65).
Risulta chiaro dunque che le obiezioni all’adorazione eucaristica
basate su una contestazione o una falsa interpretazione della fede e
dottrina ecclesiali, sono disapprovate e fermamente respinte.
- Il Santo Padre, papa Benedetto XVI, nella Esortazione apostolica
post-sinodale “Sacramentum Caritatis”, parla di un’opinione che si era
diffusa “mentre la riforma liturgica conciliare muoveva i primi passi”,
secondo cui “l’intrinseco rapporto tra la santa Messa e l’adorazione del
SS.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito”. Dichiara il
papa, “un’obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal
rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per
essere contemplato, ma per essere mangiato” (Sacr. Car. 66). Una
situazione scaturita probabilmente da qualche influsso della teologia
protestante, dal momento che tracce di tale errore riflettono quanto
avvenuto durante la riforma protestante. Quasi tutti i riformatori
contraddicevano la dottrina tridentina sulla presenza permanente e
transustanziata di Cristo nel pane e vino consacrati, riducendolo a un
mero fatto simbolico, affermando peraltro che l’Eucaristia era solo una
cena conviviale, ma non un sacrificio riattualizzato, per cui veniva
meno l’adorazione. Benché Lutero, Zwingli, Melantone e Giovanni Calvino
avessero prospettive particolari tra loro a volte contraddittorie, in
genere la loro interpretazione dell’Eucaristia era in contrasto con la
teologia cattolica del tempo. Lutero sosteneva che la presenza reale si
limitava alla ricezione della Santa Comunione (in usu, non extra).
Infatti i luterani credono nella presenza reale solo tra la
consacrazione e la Santa Comunione. Posizione che fu fermamente
condannata dal Concilio di Trento, che decretò che “se qualcuno dirà
che, una volta terminata la consacrazione, nel mirabile sacramento
dell’Eucaristia non vi sono il corpo e il sangue del Signore nostro Gesù
Cristo, ma che vi sono solo durante l’uso, mentre lo si riceve, ma né
prima né dopo; e che nelle ostie o particole consacrate, che si
conservano o avanzano dopo la comunione, non rimane il vero corpo del
Signore: sia anatema” (canone 731). Per la Chiesa cattolica dunque la
presenza di Cristo nelle specie consacrate dell’Eucaristia, non è
limitata solo al momento della Comunione, ma permane. In altre parole,
non è fatta solo per essere “mangiata”, ma anche per essere adorata.
Papa Benedetto XVI sottolinea proprio questo aspetto quando dichiara
che “ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di
adorazione verso colui che riceviamo” (Sacramentum Caritatis, 66).
Effettivamente, l’Eucaristia non è semplicemente l’anticipazione gioiosa
del banchetto celeste che avverrà alla parusia, ma è pure il Sacrificio
del Calvario e suo memoriale. Non è solo una festa per la nostra fame ma
anche per i nostri occhi, poiché fissiamo stupiti l’autodonazione di
amore per la nostra salvezza. Ma Lutero non la vede così.
Per lui, non esiste alcun legame ontologico tra quanto avvenne sul
Calvario e quanto avviene sull’altare, per questo la teologia luterana
non dà adeguato valore all’aspetto sacrificale della Santa Messa. Pone
soprattutto l’accento sull’aspetto conviviale della Cena. E’ forse
questa la ragione per cui Lutero non diede molta importanza alla
teologia del sacerdozio, specialmente nella sua dimensione sacrificale,
come è esposto nella lettera agli Ebrei. Al contrario, per la teologia
cattolica, ogni volta che si celebra l’Eucaristia, si rinnova il
sacrificio di Cristo sul Calvario, così come ha dichiarato papa Pio XII:
“L’augusto sacrificio dell’altare non è una pura e semplice
commemorazione della passione e morte di Gesù Cristo, ma è un vero e
proprio sacrificio, nel quale, immolandosi incruentamente, il Sommo
Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla croce offrendo al Padre tutto
se stesso, vittima graditissima” (Mediator Dei, 68). Nell’Eucaristia, il
nostro sguardo si eleva con profonda fede, umile venerazione e
adorazione dinanzi all’augusta persona di Gesù sulla croce. Infatti, il
vangelo di san Giovanni (19,37) presenta la crocifissione quale
compimento della profezia di Zaccaria: “guarderanno a colui che hanno
trafitto” (Zac. 12,10). E’ il sacrificio verso il quale guardò e
sperimentò la fede il centurione, quando riconobbe in Gesù il Salvatore:
“davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc. 15,39).
L’Eucaristia, con la forza di quanto ripresenta – la più radicale e
potente espressione dell’amore di Dio nell’auto-offerta di Gesù, il
Figlio di Dio – esige da noi che rivolgiamo il nostro sguardo su di Lui
e che proclamiamo la nostra fede in Lui. Questa è la base della fede di
Sant’Agostino che con grande chiarezza annuncia che peccheremmo se,
prima di riceverlo, non lo adorassimo. Questo mirabile sacrificio di
Cristo, il suo auto-spezzarsi per divenire nostro cibo divino, deve
essere guardato con grande stupore e profonda fede.
Infatti Gesù predisse che, al momento della sua morte salvifica,
dovevamo guardare verso di Lui per riconoscere la Sua divinità – “quando
avrete innalzato il Figlio dell’Uomo, allora saprete che Io Sono” (Mc.
15,39). E’ lo stesso verbo usato dal Signore per spiegare
“l’innalzamento” qui con “l’innalzamento” del serpente di bronzo nel
deserto fatto da Mosè per salvare il popolo d’Israele a cui fa
riferimento Gv. 3,14. E’ interessante notare che in entrambe le
occasioni, Gesù si riferisce al riconoscimento della Sua persona nella
fede (“perché chiunque crede in Lui” – Gv. 3,15) e (“conoscerete che Io
Sono” Gv. 8,28).
E’ guardando al sacrificio di Cristo che viene confermata la fede e
si è salvati. Ad ogni Eucaristia in cui l’unico sacrificio di Cristo sul
Calvario è ripresentato, nasce la fede e lo adoriamo come Figlio di Dio.
E’ un pregustare la nostra salvezza – un pregustare il paradiso. Per
questo, un’Eucaristia senza sguardo adorante su Cristo, sarebbe più
povera. Diversamente, se i nostri cuori non si innalzano allo stupore
della salvezza sulla croce, l’Eucaristia stessa si ridurrebbe a una
formalità in più, a uno schiamazzo rumoroso, a una vuota esperienza
senza fede e senza gusto. La tendenza, pertanto, a rendere la Messa più
moderna e colorita è, come minimo, di cattivo gusto. Se quando lo
riceviamo, non lo adoriamo, non sapremmo nemmeno chi è Colui che viene a
farci Suoi. Sarebbe un modo di ricevere l’Eucaristia senza senso.
Proprio questo il papa sottolinea quando dice “soltanto nell’adorazione
può maturare un’accoglienza profonda e vera” (Sacramentum Caritatis,
66).
In questo senso, assicurare una celebrazione devota e contemplata
dell’Eucaristia non sarebbe più una questione di scelta, ma di
necessità. In questo, personalmente preferirei l’atmosfera devota e
orante della Messa tridentina dove la partecipazione dell’assemblea è
più sommessa, pacata e raccolta, il che è rispettoso del grande mistero
che avviene sull’altare.
Forse è arrivato il tempo di pensare di inquadrare bene che cosa
significhi “partecipazione attiva”. Papa Benedetto XVI ha infatti
dedicato un capitolo intero su questo tema nella Sacramentum Caritatis.
Dichiara il Papa: “conviene mettere in chiaro che con tale parola
“partecipazione”, non si intende fare riferimento ad una semplice
attività esterna durante la celebrazione. In realtà, l’attiva
partecipazione auspicata dal Concilio deve essere compresa in termini
più sostanziali, a partire da una più grande consapevolezza del mistero
che viene celebrato e del suo rapporto con l’esistenza quotidiana”
(Sacramentum Caritatis, 52). Questa è adorazione, e considerando in tal
modo tutti questi elementi, possiamo affermare che l’Eucaristia non è
soltanto per mangiare ma anche per adorare.
- Un’altra obiezione che si era diffusa largamente in certi
ambienti, è che l’adorazione non sia conforme allo spirito delle
celebrazione eucaristica, o che sia soltanto un’attività pietistica
senza nesso con la SS.ma Eucaristia. Tale asserzione che la Chiesa aveva
già condannato in passato (can. Trid. 734/724), sembrò riemergere con
forza nella riforma liturgica post conciliare, soprattutto sullo sfondo
di una riduzione della Santa Messa a semplice banchetto conviviale, a
prezzo della dimensione sacrificale.
In effetti, è avvenuto che pratiche quali la Benedizione col
Santissimo Sacramento, l’Ora Santa, l’adorazione perpetua fossero
giudicate come contrarie allo spirito del Concilio. Già il Concilio di
Trento aveva denunciato quelli che rifiutano la tradizione secolare di
devozione o culto eucaristico: “Se qualcuno dirà che nel santo
sacramento dell’Eucaristia il Cristo, unigenito Figlio di Dio, non deve
essere adorato con culto di latria, anche esterno; e perciò non deve
neppure essere venerato con una particolare solennità; né deve essere
portato solennemente in processione, secondo il lodevole e universale
rito e consuetudine della santa Chiesa; o che non deve essere esposto
pubblicamente all’adorazione del popolo; e che coloro che l’adorano sono
degli idolatri: sia anatema” (canone 734).
Questo canone è conforme al relativo insegnamento di quello stesso
Concilio che “l’uso di conservare la santa Eucaristia in un tabernacolo
è così antico che era noto anche ai tempi del Concilio di Nicea. Che poi
la stessa santa Eucaristia sia portata agli infermi e a questo scopo sia
conservata con cura nelle chiese, oltre a essere un fatto sommamente
giusto e ragionevole, è anche comandato da molti concili e rientra
nell’antichissima consuetudine della Chiesa cattolica. Questo santo
sinodo stabilisce perciò che bisogna assolutamente conservare questo uso
salutare e necessario” (canone 724).
A questo proposito, è bene ribadire che la pratica di conservare il
SS.mo Sacramento per portarlo agli infermi o agli eremiti, è veramente
antica. Era un corollario naturale all’antica fede della Chiesa sulla
presenza permanente e personale di Cristo nelle specie consacrate
dell’Eucaristia. E’ questa fede che ha condotto gradualmente la Chiesa a
introdurre il culto formale all’Eucaristia al di fuori della Messa e a
quelle pratiche devozionali, quali processioni, atti di adorazione,
visite al Signore nella pisside, finestre dalle celle dei monaci da cui
potevano osservare e adorare Cristo nel tabernacolo ed infine alla
festività del Corpus Domini, l’Ora Santa, la Benedizione col SS.mo
Sacramento, le confraternite di adoratori e i congressi eucaristici. Si
è trattato di un processo in continuo sviluppo.
La considerazione importante era che, poiché Cristo è presente nelle
specie eucaristiche non soltanto durante la celebrazione della Santa
Messa ma anche dopo, Egli deve essere adorato e glorificato. Le specie
eucaristiche, una volta consacrate, rimangono divine e perciò adorabili
– è la presenza visibile di Cristo in mezzo a noi. Una pratica,
certamente, che fu ridicolizzata dai riformatori e chiamata idolatria.
Giovanni Calvino, ad esempio, che non considerava il pane e il vino vero
corpo e sangue di Cristo ma solo un segno o simbolo, riteneva
l’adorazione eucaristica praticata dai cattolici, una idolatria. Il loro
uso delle sacre specie era quindi limitato solo al rito della comunione
e gli avanzi venivano scartati. La stessa posizione più o meno avevano
Lutero, Zwingli e Melantone. La Chiesa cattolica è chiara su questo,
poiché le devozioni eucaristiche non sono che una conseguenza naturale
della sua fede nella presenza permanente e immutabile di Cristo nelle
specie eucaristiche. E’ in questa luce che bisogna comprendere la
tradizione bimillenaria della Chiesa – l’Eucaristia esiste per
l’adorazione così come per la comunione.
Paolo VI ha dichiarato: “la Chiesa Cattolica professa questo culto
latreutico al Sacramento eucaristico non solo durante la Messa, ma anche
fuori della sua celebrazione, conservando con la massima diligenza le
ostie consacrate, presentandole alla solenne venerazione dei fedeli
cristiani, portandole in processione con gaudio della folla cristiana”
(Mysterium Fidei, 57).
Alcuni purtroppo affermano che il Concilio Vaticano II non ha dato
tanta importanza alle devozioni eucaristiche, per cui non merita grande
attenzione. In effetti, potrebbe essere questa un’analisi corretta, dato
che il documento conciliare sulla sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium”, sia nella presentazione generale, sia nella esposizione
sulla SS.ma Eucaristia (cap. II) e degli altri sacramenti e
sacramentali, non fa menzione delle devozioni al SS.mo Sacramento. Fa
accenno alle devozioni popolari in un breve passaggio (n. 13), ma nulla
sulle devozioni eucaristiche. Ciò è in forte contrasto con l’esposizione
sul tema che si hanno nei decreti del Concilio di Trento e
nell’enciclica “Mediator Dei” di Pio XII. Se sia stata una dimenticanza
voluta o accidentale, è una questione aperta. Molto probabilmente,
quelle devozioni venivano date per scontate come un dato di fatto e
perciò non trattate in modo esplicito. Tuttavia, si sarebbe dovuto fare
qualche menzione, data l’importanza dei pronunciamenti del Concilio per
il futuro e l’importanza data a queste devozioni lungo i secoli. Tale
omissione fu la probabile ragione della succitata pretesa che
l’Eucaristia non è per l’adorazione ma per essere mangiata, e che il
Concilio non ha dato molta importanza a quell’aspetto di culto
liturgico.
Anche questo può aver spinto Papa Paolo VI a lamentarsi
nell’enciclica sulla Santa Eucaristia del 3 settembre 1965, Mysterium
Fidei che “non mancano… motivi di grave sollecitudine pastorale e di
ansietà, dei quali la coscienza del Nostro dovere Apostolico non ci
permette di tacere. Ben sappiamo infatti che tra quelli che parlano e
scrivono di questo Sacrosanto Mistero ci sono alcuni che circa le Messe
private, il dogma della transustanziazione e il culto eucaristico,
divulgano certe opinioni che turbano l’animo dei fedeli ingerendovi non
poca confusione intorno alle verità di fede” (MF 9-10). Il Papa prosegue
poi spiegando che cosa intende per “opinioni” e tra queste nomina
“l’opinione secondo la quale nelle Ostie consacrate e rimaste dopo la
celebrazione del sacrificio della Messa, Nostro Signore Gesù Cristo non
sarebbe più presente” (Mysterium Fidei, 11). L’errore menzionato
dimostra una diminuzione del ruolo della fede eucaristica della Chiesa e
della sua pratica di adorazione.
Il Papa continua affermando il valore dell’adorazione eucaristica in
modo esteso nell’enciclica. Egli dichiara “la Chiesa Cattolica professa
questo culto latreutico al Sacramento Eucaristico non solo durante la
Messa ma anche fuori della sua celebrazione, conservando con la massima
diligenza le ostie consacrate, presentandole alla solenne venerazione
dei fedeli cristiani, portandole in processione con gaudio della folla
cristiana” (Mysterium Fidei, 57). Spiega poi con grande dettaglio
e citazioni dei Padri della Chiesa, vari elementi di devozione
eucaristica (no. 56-65) e il dovere di conservarli. Esorta i Vescovi
“affinché questa fede, che non tende ad altro che a custodire una
perfetta fedeltà alla parola di Cristo e degli Apostoli, rigettando
nettamente ogni opinione erronea e perniciosa, voi custodiate pura ed
integra nel popolo affidato alla vostra cura e vigilanza e promoviate il
culto eucaristico a cui devono convergere finalmente tutte le altre
forme di pietà” (Mysterium Fidei, 65).
E così, alla luce di una quasi totale assenza di menzione
sull’adorazione e devozioni eucaristiche nella costituzione conciliare
sulla sacra liturgia “Sacrosanctum Concilium”, e alla tendenza
riemergente in alcuni ambienti di ridimensionare o rigettare tale fede,
questa enciclica di Paolo VI pubblicata ancor prima della conclusione
formale del Concilio (8 dicembre 1965), può essere considerata una
risposta adeguata a quegli elementi protestantizzanti in seno alla
Chiesa e una dovuta correzione certamente, per cui dobbiamo essere grati
a Papa Paolo VI.
- Riguardo all’opinione secondo cui non vi sarebbe continuità tra la
celebrazione della santa Eucaristia e le relative devozioni, è la stessa
Mysterium Fidei che dà la risposta, dichiarando: “la Chiesa professa
questo culto latreutico al SS.mo Sacramento non solo durante la Messa ma
anche al di fuori di essa” (Mysterium Fidei, 57). Anche Papa
Giovanni Paolo II ha spiegato il nesso ontologico tra la celebrazione –
ricezione e momenti di adorazione dell’Eucaristia dichiarando che essa
“è allo stesso tempo sacramento – sacrificio, sacramento – comunione e
sacramento – presenza” (Redemptor Hominis, 20). Sono legate
insieme, non è possibile separarle. Infatti, non si può celebrare
l’Eucaristia senza essere consapevoli della grandiosità di quanto
avviene sull’altare e senza assumere un atteggiamento di timore e di
venerazione verso Dio che si offre ogni giorno sugli altari per la
nostra salvezza.
Ciò che avviene realmente nella celebrazione dell’Eucaristia è che il
sacerdote celebrante, totalmente identificato con il Sommo Sacerdote,
Cristo, la cui celebrazione della festa pasquale nella Gerusalemme
celeste, circondata dai cori degli angeli continua senza fine, diventa
l’”alter Christus” e permette alla festa della nostra redenzione
di realizzarsi anche sui nostri altari. L’invisibile sacrificio celeste
di amore, dell’”agnello immolato”, scende in modo visibile sui nostri
altari – il divino diventa terreno. Papa Benedetto XVI lo spiega come “veritatis
splendor”; “Gesù Cristo ci mostra come la verità dell’amore sa
trasfigurare anche l’oscuro mistero della morte nella luce irradiante
della risurrezione. Qui il fulgore della gloria di Dio supera ogni
bellezza intramondana. La vera bellezza è l’amore di Dio che si è
definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale”. (Sacramentum
Caritatis, 35). Ciò non può che colmarci di stupore e di adorante
venerazione.
Anche ricevere la Comunione richiede fede nella immensità di ciò che
sta per avverarsi – il Signore viene a me, o meglio, venendo da me, mi
abbraccia e desidera trasformarmi in se stesso. Non si tratta di un
semplice atto meccanico di ricevere un pezzo di pane – qualcosa che
avviene in un istante. Ma è l’invito a essere in comunione con il
Signore: invito all’amore. Il Papa spiega l’adorazione con queste parole
testuali: “La parola greca (per adorazione) è proskynesis. Essa
significa il gesto della sottomissione, il riconoscimento di Dio come
nostra vera misura, la cui norma accettiamo di seguire… la parola latina
per adorazione è ad–oratio, contatto bocca a bocca, bacio,
abbraccio e quindi in fondo amore. La sottomissione diventa unione,
perché colui al quale ci sottomettiamo è Amore. Così sottomissione
acquista un senso, perché non ci impone cose estranee, ma ci libera in
funzione della più intima verità del nostro essere” (Omelia in occasione
della Giornata Mondiale della Gioventù, Colonia, 21 agosto 2005).
L’adorazione quindi è sottomissione per amore ed intimità con il
Signore. Ciò significa che accogliere il Signore, l’atto che ci permette
l’esperienza del Suo amore al massimo livello, invitandoci a stare con
Lui, non può aver luogo se non in un clima di adorazione. E anche
l’immolazione di Cristo alla consacrazione del pane e del vino, il
culmine del Suo sacrificio per amor nostro, non può non essere un
momento che esige adorazione. Per cui si può dire che l’Eucaristia
richiede adorazione sia durante la celebrazione sia nel ricevere la
Comunione. Afferma Papa Benedetto: “la Comunione e l’adorazione non
stanno fianco a fianco o addirittura in contrasto tra loro, ma sono
indivisibilmente uno… L’amore o l’amicizia sempre portano con sé un
impulso di riverenza, di adorazione. Comunicare con Cristo perciò esige
che fissiamo lo sguardo su di Lui, permettere al Suo sguardo di fissarsi
su di noi, ascoltarlo, imparare a conoscerlo” (God is near us. Ignatius
Press, San Francisco 2003, p. 97).
E’ in questa luce che dovremmo comprendere la famosa frase di
Sant’Agostino: “nemo autem illam Carnem manducat, nisi prius adoraverit;
peccemus non adorando” – o “nessuno mangia questa carne senza prima
adorarla; peccheremmo se non la adorassimo” (Enarrationes in Psalmos
98,9, CCL XXXIX, 1385). Soltanto l’adorazione infatti apre il nostro
cuore verso un senso autentico di partecipazione all’Eucaristia, poiché
lo dilata all’esperienza del profondo amore di Dio manifestato
nell’Eucaristia e verso un’unione vera e profondamente personale con
Cristo al momento della Comunione (“Ecco: sto alla porta e busso. Se
qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò
con lui ed egli con me” – Ap. 3,20).
In questo senso, le parole del Papa sono chiare: “Ricevere
l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui
che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con
Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della
liturgia celeste” (Sacramentum Caritatis, 66). E’ l’adorazione quindi
capace di rendere la celebrazione della Santa Eucaristia e il ricevere
il SS.mo Corpo e Sangue di Cristo, pieni di significato e profondamente
trasformanti. Altrimenti, si ridurrebbe a puro esercizio meccanico o a
cacofonia sociale; un evento dell’uomo e non di Dio, perché l’adorazione
fa dell’Eucaristia un’esperienza di grazia divina salvifica e di
eternità. Non solo, l’adorazione trova un suo naturale sbocco in tutte
le altre devozioni eucaristiche, dando ad esse significato e profondità.
Il momento supremo dell’adorazione è l’Eucaristia e fluisce in tutte le
devozioni ad essa connesse. L’una dà significato e profondità all’altra.
E’ triste notare come in alcuni luoghi le chiese e i santuari si sono
trasformati in piazze da mercato o teatri o sale da concerto. Mi è
capitato di entrare un giorno in una cattedrale di un’importante città
europea dove vi era gente che aspettava la celebrazione di una Messa
nuziale: era come una grande piazza di mercato dove tutti erano
impegnati in animata conversazione. Non vi era certo alcun spirito di
raccoglimento o il minimo senso di riverenza adorante in preparazione
all’Eucaristia. Mi hanno raccontato di una Eucaristia in una chiesa
parrocchiale in Germania, dove rappresentavano un dramma teatrale con
l’assemblea che partecipava mediante preghiere e scenette, e il parroco
faceva il presentatore. Ho chiesto all’amico che mi raccontava la
vicenda, che effetto gli aveva fatto, e lui mi ha risposto con le parole
“tanto rumore per nulla”.
Dovremmo chiederci se siamo seri sulla fede cattolica riguardo alla
transustanziazione e alla presenza permanente di Cristo nell’Eucaristia,
se non abbiamo annacquato l’insieme della nostra fede in nome di teorie
insignificanti e teologizzare pedante, che cerca continuamente
compromessi con il secolarismo e l’ateismo. In conclusione, voglio
ribadire con forza che l’Eucaristia non adorata è una contraddizione in
sé, e adorazione senza Eucaristia è impossibile – perché Eucaristia e
adorazione sono come le due facce della stessa realtà.
- Qualcuno lamenta che l’adorazione eucaristica è troppo privata,
troppo personale e perfino troppo silenziosa. Una critica che sembra
basarsi su constatazioni erronee: che l’adorazione sia solo privata per
essenza e che il culto di Dio debba sempre essere un esercizio
comunitario. Ma entrambe le posizioni sono insostenibili. L’adorazione
ha anche una dimensione comunitaria, poiché, quando adoriamo il Signore,
entrando in comunione con Lui o lasciando che Egli ci stringa a sé, noi
diventiamo uniti gli uni gli altri in Lui.
Dichiara Papa Benedetto: “L’unione con Cristo è allo stesso tempo
unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere
Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti
quelli che sono diventati o diventeranno suoi” (Deus Caritas est, 14).
Pertanto, quando io adoro il Signore in privato, mi trovo costantemente
in rapporto con gli altri e anch’essi Lo adorano con me. E’ così che si
crea la comunione. La preghiera privata non necessariamente toglie dalla
comunità. Costruisce la comunità. Inoltre, ogni volta che la Chiesa si
impegna nel culto pubblico e in atti di adorazione, è l’intero corpo dei
credenti che prega, essendo la Chiesa presente in ogni suo singolo
membro. Anche Gesù ha adorato il Padre in privato così come in preghiera
pubblica, come differiva il tempio dalla sinagoga. Ne deriva che ogni
atto di adorazione privata o comunitaria ha un effetto salutare sia
sulla comunità che sull’individuo.
Il culto poi non necessariamente deve essere limitato solo a quello
comunitario, può benissimo essere personale. Come detto sopra, Gesù ha
passato moltissimo tempo in preghiera da solo. Ciò però non gli ha
impedito di farsi vicino agli altri. Anzi, Egli ha offerto la Sua vita
per la redenzione degli altri, altruismo al massimo livello. Di
conseguenza, l’adorazione non ci toglie e non ci deve togliere dalla
preghiera comunitaria o dai nostri doveri comunitari. Ci stringe ancora
di più gli uni gli altri nel Signore.
- Vi sono ancora altri che obiettano all’adorazione eucaristica
dicendo che c’è sotto una mentalità eccessiva da “solo io e Gesù”. Come
già detto sopra, l’adorazione, avvicinandoci maggiormente a Gesù, ci
rende più sensibili verso il prossimo. Ciò emerge meglio nella vita di
alcuni dei più grandi santi o figure venerabili. Basta fare solo
l’esempio della Beata Madre Teresa di Calcutta che voleva che le sue
suore rimanessero parecchie ore in preghiera e adorazione davanti al
SS.mo Sacramento ogni giorno, prima di recarsi sulle strade ad assistere
i malati e i morenti. Era proprio la sensazione della presenza del
Signore in mezzo a loro che le riempiva di energia per il quotidiano
lavoro. Dinanzi alle critiche rivolte a Madre Teresa sulle troppe ore
passate dalle suore in preghiera e adorazione, togliendo loro tempo
prezioso, ella rispose un giorno: “se le mie suore non passassero così
tanto tempo in preghiera, non potrebbero servire affatto i poveri e i
malati”.
Come papa Benedetto ci assicura, l’adorazione “vuole rompere le
barriere non solo tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le
barriere che ci separano dagli altri” (Sacramentum Caritatis,
66). Nella “Deus Caritas est”, il Santo Padre dichiara: “La pietà non
indebolisce la lotta contro la povertà o addirittura contro la miseria
del prossimo. La Beata Teresa di Calcutta è un esempio molto evidente
del fatto che il tempo dedicato a Dio nella preghiera non solo non nuoce
all’efficacia e all’operosità dell’amore verso il prossimo, ma ne è in
realtà l’inesauribile sorgente” (Deus Caritas Est, 36).
La preghiera personale non va contro la preghiera comunitaria e
neppure l’una esclude l’altra, in realtà si nutrono a vicenda. La
preghiera liturgica crea e promuove il rapporto non soltanto tra Dio e
la comunità, ma altresì tra Dio e me, facendomi sensibile al bisogno di
un costante contatto con il divino nella mia vita. Forse un equivoco in
questo senso ha portato alcuni a credere che le devozioni individuali
non siano più necessarie, a seguito del grande rilievo dato al culto
liturgico e comunitario dopo il Vaticano II. Ma questo non è corretto.
La "Sacrosanctum Concilium” dichiara infatti: “La vita spirituale
tuttavia non si esaurisce nella partecipazione alla sola liturgia. Il
cristiano infatti, benché chiamato alla preghiera in comune, è sempre
tenuto a entrare nella propria stanza per pregare il Padre in segreto” (SC,
12). La preghiera liturgica, anzi, è rafforzata e arricchita dalla
preghiera personale. L’adorazione del SS.mo Sacramento come personale
devozione è dunque importante e aiuta a creare un clima interiore in noi
che si nutre di preghiera liturgica e intima partecipazione.
Lasciate che concluda con le belle parole del Curato d’Ars, San
Giovanni Maria Vianney, vero apostolo di adorazione: “Oh, se avessimo
gli occhi degli angeli per vedere nostro Signore Gesù Cristo, che è qui
presente su questo altare e ci guarda, come Lo ameremmo! Mai vorremmo
andarcene via da Lui. Vorremmo restare sempre ai Suoi piedi; sarebbe
pregustare il Cielo: tutto il resto non avrebbe più gusto per noi” (Il
Curato d’Ars, il piccolo catechismo del Curato d’Ars, Tan Books and
Publishers Inc. Rockford, Illinois 61105, 1951, p.41).
Grazie.
Roma, 22 giugno 2011
Malcolm Card. Ranjith
Arcivescovo di Colombo
(traduzione dall'inglese di don Giorgio Rizzieri)
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