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IL CRISTIANESIMO E LE RELIGIONI
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III. ALCUNE CONSEGUENZE PER
UNA TEOLOGIA CRISTIANA DELLE RELIGIONI
III.4. DIALOGO INTERRELIGIOSO E MISTERO DI
SALVEZZA
105. A partire dal Vaticano II la chiesa cattolica si è coinvolta in modo deciso nel
dialogo interreligioso (34): questo documento è
stato elaborato avendo di mira tale dialogo, anche se non è questo il suo tema
fondamentale. Lo stato della questione circa il cristianesimo e il suo rapporto con le
religioni, i presupposti teologici e le conseguenze che se ne deducono sul valore
salvifico delle religioni e la divina rivelazione sono riflessioni destinate a illuminare
i cristiani nei loro dialoghi con i fedeli di altre religioni.
106. Tanto se questi dialoghi avvengono tra specialisti, quanto se si svolgono nella vita
quotidiana, con le parole o i comportamenti, coinvolgono non soltanto le persone che
dialogano, ma anche, in primo luogo, il Dio che professano: il dialogo interreligioso come
tale comporta tre partecipanti. Perciò in esso il cristiano è interpellato da due
questioni fondamentali, da cui dipende il senso del dialogo stesso: il senso di Dio e il
senso dell'uomo.
A) Il senso di Dio
107. Nel dialogo interreligioso ognuno dei partecipanti si esprime di fatto secondo un
determinato senso di Dio; implicitamente rivolge all'altro la domanda: qual è il tuo Dio?
Il cristiano non può ascoltare e comprendere l'altro senza rivolgere a se stesso questa
domanda. La teologia cristiana è più che un discorso su Dio: è parlare di Dio con
linguaggio umano così come il 'Logos' incarnato lo fa conoscere (cf. Gv 1,18; 17,3). Di
qui la necessità di alcuni discernimenti nel dialogo:
108. a) Se si parla della divinità come valore trascendente e assoluto, si tratta di una
Realtà impersonale o di un Essere personale?
b) La trascendenza di Dio significa che egli è un mito atemporale, oppure che tale
trascendenza è compatibile con l'azione divina verso gli uomini nella storia?
c) Si conosce Dio soltanto con la ragione, oppure si conosce anche per fede, perché si
rivela agli uomini?
d) Posto che una "religione" è una certa relazione tra Dio e l'uomo, essa
esprime un Dio 'a immagine dell'uomo', oppure implica che l'uomo è 'a immagine di Dio'?
e) Se si ammette, come esigenza della ragione, che Dio è unico, che cosa significa
professare che è Uno? Un Dio 'monopersonale' può essere accettato dalla ragione; ma
soltanto nella sua autorivelazione in Cristo il mistero di Dio può essere accolto per
fede come Uni-Trinità consostanziale e indivisibile. Questo discernimento è fondamentale
a motivo delle conseguenze che ne derivano per l'antropologia e la sociologia inerenti a
ogni religione.
f) La religione riconosce alla divinità attributi essenziali come l'onnipotenza,
l'onniscienza, la bontà, la giustizia. Per comprendere però la coerenza dottrinale di
ciascuna religione e per superare le ambiguità di un linguaggio apparentemente comune,
bisogna comprendere l'asse attorno al quale si articolano tali nomi divini. Tale
discernimento riguarda specialmente il vocabolario biblico, il cui asse è l'alleanza tra
Dio e l'uomo, come si è compiuta in Cristo.
g) Si rende necessario un altro discernimento circa il vocabolario specificamente
'teologico', nella misura in cui esso è tributario della cultura di ciascun partecipante
al dialogo e della sua filosofia implicita. Occorre pertanto prestare attenzione alla
'peculiarità culturale' delle due parti, anche se condividono entrambe la stessa cultura
originaria.
h) Il mondo contemporaneo sembra preoccuparsi, almeno in teoria, dei diritti umani. Alcuni
integralismi, anche tra i cristiani, oppongono a essi i 'diritti di Dio': ma, in questa
opposizione, di quale Dio si tratta e, in ultima analisi, di quale uomo?
B) Il senso dell'uomo
109. Nel dialogo interreligioso è coinvolta anche un'antropologia implicita, e questo per
due motivi principali. Da una parte, il dialogo mette in comunicazione due persone, ognuna
delle quali è il soggetto della sua parola e del suo comportamento. D'altra parte, quando
dialogano credenti di religioni diverse, ha luogo un evento molto più profondo della
comunicazione verbale: un incontro tra esseri umani, ciascuno dei quali si avvia a esso
portando il peso della sua condizione umana.
110. In un dialogo interreligioso, le parti hanno la stessa concezione della 'persona'? La
questione non è teorica, ma interpella gli uni e gli altri. La parte cristiana sa
senz'altro che la persona umana è stata creata "a immagine di Dio", cioè con
una chiamata costante di Dio essenzialmente relazionale e capace di apertura
"all'altro". I partecipanti al dialogo però sono tutti coscienti del mistero
della persona umana e di quello di Dio, che è "più in là" di tutto? (35) Anche il cristiano è indotto a porsi la domanda: a
partire da dove parla, quando dialoga? dallo scenario del suo personaggio sociale o
religioso? dall'alto del suo "superego" o della sua immagine ideale? Posto che
egli deve dare testimonianza del suo Signore e Salvatore, in quale "dimora"
della sua anima questi si trova? Nel dialogo interreligioso, più che in ogni altra
relazione interpersonale, è implicata la relazione di ogni persona con il Dio vivente.
111. Qui appare l'importanza della preghiera nel dialogo interreligioso: "L'uomo è
alla ricerca di Dio. (...) Tutte le religioni testimoniano questa essenziale ricerca"
(36). Pertanto la preghiera, come relazione viva e
personale con Dio, è l'atto stesso della virtù della religione e trova espressione in
tutte le religioni. Il cristiano sa che Dio "chiama incessantemente ogni persona al
misterioso incontro della preghiera" (37). Se
Dio non può essere meglio conosciuto che quando egli stesso prende l'iniziativa di
rivelarsi, la preghiera appare come assolutamente necessaria, perché mette l'uomo in
condizione di ricevere la grazia della rivelazione. Così, nella ricerca comune della
verità che deve motivare il dialogo interreligioso, "vi è sinergia tra la preghiera
e il dialogo. (...) Se da una parte la preghiera è la condizione per il dialogo,
dall'altra essa ne diventa, in forma sempre più matura, il frutto" (38). Nella misura in cui il cristiano vive il dialogo
in stato di preghiera, è docile alla mozione dello Spirito che opera nel cuore dei due
interlocutori. Allora il dialogo diventa più che uno scambio: diventa incontro.
112. Più in profondità, a livello del non detto, il dialogo interreligioso è
effettivamente un 'incontro' tra esseri creati "a immagine di Dio", anche se
questa immagine si trova in loro offuscata dal peccato e dalla morte. In altre parole, i
cristiani e quelli che non lo sono vivono tutti nella speranza di essere salvati. Per
questo motivo ciascuna delle loro religioni si presenta come una 'ricerca di salvezza' e
propone vie per giungere a essa. Questo incontro nella comune condizione umana colloca le
parti su un piano di parità, molto più vero del loro discorso religioso puramente umano.
Tale discorso è già un'interpretazione dell'esperienza e passa per il filtro delle
mentalità confessionali. Al contrario, i problemi della maturazione personale,
l'esperienza della comunità umana (uomo e donna, famiglia, educazione, ecc.) e tutte le
questioni che gravitano attorno al lavoro "per guadagnarsi la vita", lungi
dall'essere temi che distraggono dal dialogo religioso, costituiscono il terreno
"allo scoperto" per tale dialogo. Allora in questo dialogo diventa chiaro che il
"luogo" di Dio è l'uomo.
113. Ebbene, la costante che soggiace a tutti gli altri problemi della condizione umana
non è altro che la 'morte'. Sofferenza, peccato, sventura, delusione, incomunicabilità,
conflitti, ingiustizie... la morte è costantemente presente dappertutto e in ogni momento
come la trama oscura della condizione umana. Certamente l'uomo, incapace di esorcizzare la
morte, fa tutto il possibile per non pensare a essa, benché vi risuoni con maggiore
intensità la chiamata del Dio vivente. È il segno permanente dell'alterità divina,
poiché soltanto chi chiama dal nulla all'essere può dare la vita ai morti. Nessuno può
vedere Dio senza passare attraverso la morte, questo luogo ardente dove il Trascendente
raggiunge l'abisso della condizione umana. L'unica domanda seria, in quanto esistenziale e
ineludibile, senza la quale i discorsi religiosi sono "alibi", è questa: il Dio
vivente si fa carico o no della morte dell'uomo? Non mancano le risposte teoriche, però
queste non possono evitare lo scandalo che rimane: come può Dio restare nascosto e
silenzioso davanti all'innocente ferito e al giusto oppresso? È il grido di Giobbe e di
tutta l'umanità. La risposta è "cruciale", ma è al di là di tutte le parole:
sulla croce il Verbo è silenzio. Dipendente dal Padre, gli affida il suo spirito. Qui
tuttavia c'è l'incontro di tutti gli esseri umani: l'uomo è con la sua morte, e Dio si
unisce a lui in essa. Soltanto il Dio amore è il vincitore della morte, e solamente con
la fede in lui l'uomo è liberato dalla schiavitù della morte. Il roveto ardente della
croce è così il luogo nascosto dell'incontro: il cristiano vi contempla "colui che
hanno trafitto" e ne riceve "uno spirito di grazia e di consolazione" (Gv
19,37; Zc 12,10). La testimonianza della sua nuova esperienza sarà quella del Cristo
risorto, vincitore della morte attraverso la morte. Il dialogo interreligioso riceve
allora senso nell'economia della salvezza: non si limita a continuare il messaggio dei
profeti e la missione del Precursore, ma si fonda sull'evento della salvezza compiuto da
Cristo e tende al secondo avvento del Signore. Il dialogo interreligioso avviene nella
chiesa in situazione escatologica.
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