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I Cristiani, stranieri in patria.
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Essere cristiano in Turchia, significa fare parte di una comunità
piccolissima: poco meno di 150mila persone su 70 milioni di abitanti, pari
allo 0,2% della popolazione. E' un mosaico di tradizioni ed esperienze, dai
cattolici latini (20mila) ai greco-ortodossi (13mila), passando per gli armeni
(2mila i cattolici e 80mila gli ortodossi), i siri (1200 i cattolici e 10mila
i cattolici), i caldei (appena 300) e i protestanti (5mila). Modi diversi di
testimoniare la fede in Cristo, uniti però dalle stesse difficoltà. Per capire
il ruolo e i problemi delle comunità cristiane bisogna tornare al trattato di
Losanna del 24 luglio 1923, con cui fu siglata la pace tra la Turchia e le
Potenze dell'Intesa che combatterono nella Prima guerra mondiale, la fine
definitiva dell'Impero Ottomano e la nascita dello Stato laico di stampo
khemalista. In materia religiosa, il documento definiva “confessioni ammesse”
soltanto le comunità religiose greco-ortodossa, armena ed ebraica, a cui
veniva conferito un particolare status, comunque ben lontano da un pieno
riconoscimento della personalità giuridica. Da allora, tutte le altre
confessioni (a cominciare da quella cattolica, seguita dai caldei, dai
siri-cattolici e siri-ortodossi e dai protestanti) sono considerate straniere
e soggette a pesanti limitazioni. Un paradosso in una terra dove il
cristianesimo è presente sin dalle origini, grazie alla predicazione di san
Paolo e di sant’Andrea. Le limitazioni in questione - condivise molte volte
anche con le confessioni ammesse - si traducono nell’impossibilità di
acquistare proprietà, di costruire nuove chiese e di aprire seminari e nel
mancato riconoscimento del clero.
Uno stato di cose, spiegato bene da padre Giovanni Sale in un articolo
pubblicato a marzo su Civiltà cattolica. "Le diocesi, parrocchie e
istituti religiosi della minoranza cattolica non beneficiano di riconoscimento
giuridico da parte dello stato; i loro responsabili – vescovi, parroci,
superiori religiosi – e il loro personale religioso non sono riconosciuti come
ministri di culto". E ancora: i loro diritti di proprietà sugli immobili
(chiese, conventi, scuole, ospedali) non sono riconosciuti in quanto tali, ma
unicamente vengono registrati con il nome di privati o come fondazioni
private, cosicché in caso di estinzione di tali persone o fondazioni, in
assenza di successori, gli immobili sono confiscati dal tesoro pubblico. Il
personale religioso straniero, infine, è soggetto a un regime particolare di
permesso di soggiorno, valido spesso soltanto per un anno, quando al contrario
gli altri residenti provenienti da paesi europei ricevono il loro permesso di
soggiorno per tre o per cinque anni”.
A tutto questo si devono aggiungere le difficoltà ordinarie a celebrare
liberamente il culto. A riguardo, è emblematico quanto succede a Demre, città
natale di san Nicola, dove le autorità impediscono da anni al patriarca
ecumenico Bartolomeo I di celebrare la liturgia della festa del santo. La
chiesa locale per lo Stato è un museo e il suo utilizzo è soggetto ad
autorizzazione. Nel 2005, l’episodio più curioso, che ha visto la comunità
ortodossa locale celebrare la divina liturgia in una casa privata mentre nella
chiesa-museo, il muftì locale aveva organizzato una preghiera per la pace. Ma
situazioni simili si registrano anche a Tarso, città natale di san Paolo, con
la chiesa trasformata sempre in museo, inaccessibile al culto anche per i
turisti stranieri che vogliono ripercorrere le orme dell'"apostolo delle
genti".
Alcuni numeri sui cristiani
in Turchia
Al tempo stesso, i leader religiosi sono controllati sia dal governo che dai
servizi segreti e in definitiva non riconosciuti per il ruolo che ricoprono.
Capita così che tra un vescovo e un privato cittadino non vi sia alcuna
differenza, tranne che il pregiudizio di considerare un cristiano un elemento
estraneo, uno straniero, indipendentemente dalla sua cittadinanza. E se i
rapporti con l’Islam sono gestiti dalla Diyanet, quelli con le chiese
cristiane sono affidati al ministero degli Esteri (da poco è stata creata
tuttavia la nuova figura del ministro per gli affari religiosi).
L'intransigenza è totale anche per quanto riguarda la formazione del
clero. La scuola teologica del Patriarcato ecumenico, nell’isola di Heybeliada,
è di fatto chiusa dal 1971, i cattolici non hanno seminari, come gli armeni
che rappresentano anche un caso politico con la questione del genocidio del
1915, mai riconosciuto dalle autorità turche, pur essendo una ferita ancora
aperta.
Un clima anticristiano.
Al di là degli aspetti giuridici, la Turchia
del dopo 11 settembre preoccupa per un risveglio anticristiano di settori
della società, senza dubbio minoritari, ma capaci tuttavia di organizzarsi
anche grazie al sostegno dei media. L’omicidio di don Andrea Santoro e gli
attacchi ad altri religiosi sono maturati in un clima di sospetto e
diffidenza, in una sorta di stato profondo che unisce circoli nazionalistici
presenti nell’esercito, nella polizia, nei servizi segreti e nella stessa
amministrazione. Campagne che vedono nei preti un’orda di missionari pronti a
convertire anche con il denaro, nel patriarcato ortodosso di Costantinopoli il
baluardo per un ritorno allo spirito delle crociate, nei cristiani una
presenza ostile, partendo dal presupposto che, come ribadiscono i Lupi Grigi,
“il turco non ha altro amico che il turco” (leggi il turco islamico).
Mariagrazia Zambon, ne “La Turchia è vicina” (Edizioni Ancora), elenca in modo
dettagliato le tante ombre di intolleranza: le dichiarazioni di personaggi
pubblici come la moglie dell’ex primo ministro Bulent Ecevitt (“La religione
islamica ci sta scivolando tra le mani e ci sono molti musulmani che si
convertono al cristianesimo"), i talk show che mettono in ridicolo la fede
cristiana, i testi scolastici che presentano un “cristianesimo falsato e
ridicolo” con un Vangelo ridotto a storia inventata dai papi, ma anche le
diverse sensibilità a seconda dell’area geografica del Paese. “In Turchia –
spiega la Zambon – c’è in atto un profondo processo di trasformazione, ma
tutta l’Anatolia, cioè gran parte del territorio non ha assimilato il
cambiamento”.
La solita dialettica che vede in campo “frange integraliste, fanatiche e
nazionaliste che hanno i loro circoli e la loro stampa, attraverso cui
esortano all’odio religioso contro l’Occidente, ricordano le crociate e il
colonialismo e definiscono il dialogo interreligioso una trappola del
Vaticano”.
Eppure, anche se realtà simili fanno molto rumore, non mancano “autorità
civili e religiose di ogni credo che da anni stanno costruendo una rete di
relazioni basate sul dialogo e sul rispetto”. Una di queste è mons. Luigi
Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia, secondo cui lo Stato profondo
della Turchia (quello del nazionalismo e del radicalismo islamico), non è
motivo di pessimisimo circa la presenza cristiana in Turchia. “Certo, - spiega
- occorre aiutare i cristiani ad uscire dall’anonimato o dall’indifferenze
nella quale la situazione passata li ha relegati”. E' un impegno che
interpella tutti, a cominciare dal patriarcato ecumenico di Costantinopoli,
una comunità di appena 3mila fedeli, con un passato fatto di grandi numeri,
ridotti in modo esponenziale dalle vicende dell’ultimo secolo.
Un esempio su tutti, lo scambio tra popolazioni "greche" e "turche", sancito
dal trattato di Losanna del 1923, con un milione e 344mila cristiani ortodossi
ricondotti in Grecia e 464mila musulmani rinviati in Turchia, per depotenziare
il ruolo delle minoranze nei due Paesi. A ciò seguì anche il calo costante dei
cristiani di Istanbul, passati da 136 mila del 1927 agli 86 mila del 1965,
fino ad arrivare ai 70 mila di oggi (stima riferita a tutte le confessioni).
La sede del patriarcato (il Fanar), per secoli luogo simbolo della capitale
dell’ortodossia, con il tempo è diventata un sobborgo, obiettivo di proteste e
di atti di violenza, come quello del 1955 quando nel clima seguito
all’occupazione di Cipro, migliaia di vandali assaltarono i quartieri greci,
infrangendo vetrine, profanando cimiteri e distruggendo chiese. Oggi, è
tornata la calma ma, spiega la Zambon nel suo libro, “di tanto in tanto le
vetrate del Fanar vengono distrutte e le mura imbrattate con vernice spray,
per non parlare delle piccole bombe incendiarie che vengono lanciate sul
tetto”.
Intanto, il numero di cristiani è ridotto al lumicino. “Non vogliamo niente di
più che i nostri diritti; – ha detto Bartolomeo I, incontrando un gruppo di
giornalisti in ottobre – al momento della proclamazione della Repubblica turca
i cristiani ortodossi qui erano 180.000, oggi sono meno di 5.000. Chiedetevi
il perché”.
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[Fonte: Korazym.org 29 novembre 2006]
v. anche:
Viaggio del Papa in Turchia
La storia di un
convertito
Missione impossibile: costruire una chiesa in Turchia
Situazione dei cristiani in Turchia e non solo
Cosa vorrebbero dire al Papa i cristiani in Turchia
Cosa significa oggi
essere cristiani in Turchia
A colloquio col vicario
apostolico mons Padovese
Dietro la "sublime porta"
In Turchia un clima
sempre più ostile per i cristiani
Non casuale l'uccisione di
Don Andrea Santoro
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