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Egitto: perché sparano ai cristiani

Vedi documentazione più estesa:
[Altri luoghi in cui la croce può costare la vita]
[In Medio Oriente le antiche chiese stanno sparendo]
[Per i cattolici libertà limitata in Turchia. Ecco i nodi da sciogliere]
[Il Papa all'Ambasciatore turco]
[In generale, su Cristiani in Islam - uno dei più recenti scritti di
Samir Khalil Samir]
]Cristiani Iraq - India - Iran - Palestina - Pakistan - Medio Oriente - Cina - Cipro - Arabia Saudita - Turchia - Uzbekistan]
[cfr. precedenti in Egitto del 2003 e 2005]

Le violenze contro i cristiani copti da parte degli estremisti islamici mirano a sconvolgere ogni ipotesi di accordo tra militari e Fratelli Musulmani.
10/05/2011

Una messa copta di suffragio
 per le vittime degli scontri con i salafiti

Il quartiere di Imbaba, al Cairo, è una roccaforte dei copti e dei cristiani in genere. Nel giro di qualche isolato si raggruppano cinque chiese copte e tre chiese anglicane. Inevitabile, quindi, che finisse in prima linea negli scontri tra i copti e gli estremisti salafiti che da mesi chiedono la liberazione di Kamilia Shehata. Si tratta della moglie di un sacerdote copto che, secondo una vulgata diffusa tra i musulmani, si sarebbe convertita all’islam e per questo sarebbe stata sequestrata nella chiesa poi attaccata.

Un ennesimo episodio di violenza che rimanda alla discriminazione ai danni della corposa minoranza copta (il 9% degli 80 milioni di abitanti dell’Egitto), alla cancellazione di una parte importante della storia egiziana, alla pratica di una lunga dittatura (quella di Hosni Mubarak) che si è retta anche coltivando i pregiudizi e i rancori della maggioranza islamica. Viene però da chiedersi quale fosse il reale obiettivo degli strateghi islamisti che hanno lanciato una folla armata contro la chiesa copta. Detto in altre parole: perché scontri come questi (12 morti almeno) non si sono avuti nelle settimane della rivolta di piazza Tahrir, quando la polizia non metteva il naso nelle strade? Perché proprio adesso, quando il rischio è assai più alto? Non dimentichiamo che il Governo, guidato dal primo ministro Issam Sharaf in nome e per conto della giunta militare, ha fatto arrestare più di 200 persone e ha annunciato che applicherà ai responsabili dei tumulti le leggi anti-terrorismo.

La "svolta" dei Fratelli Musulmani

Usando i copti come facile capro espiatorio, i salafiti in realtà mirano ad altro. In particolare, all’accordo che potrebbe profilarsi tra le due forze oggi più influenti nel Paese: l’esercito e i Fratelli Musulmani. L’esercito si è preso sulle spalle la responsabilità del cambiamento, indicando a Mubarak la via dell’esilio e impedendo ai suoi più stretti collaboratori (per primo il generale Suleiman, per 12 anni capo dei servizi segreti) di uscire dalla porta per rientrare dalla finestra. Ma l’esercito è a propria volta un’élite, una casta: i suoi uomini sono dei privilegiati, sotto il suo controllo si trovano aziende di ogni genere e tutti e quattro i presidenti egiziani dal 1952 (da quando fu liquidata la monarchia costituzionale) sono usciti dalle sue file.

Nelle strade e soprattutto nelle campagne, invece, i Fratelli Musulmani contano di più. Nei giorni della rivoluzione di piazza Tahrir la loro leadership ha tenuto a mostrare moderazione e amor di patria. Ha appoggiato le decisioni della giunta militare. Una volta cacciato Mubarak, ha invitato i propri militanti a tornare alle case e al lavoro e a interrompere le dimostrazioni. Al referendum costituzionale del 19 marzo, promosso dal Governo provvisorio controllato dall’esercito, i Fratelli Musulmani si sono espressi per il “sì”, e il referendum è passato con il 77% dei consensi. Infine, hanno accettato senza batter ciglio la promulgazione di leggi (per prima quella del 30 marzo, che vieta i partiti costituiti su base religiosa o regionale) che sembrano più tipiche dell’Egitto di Mubarak che di quello attuale, che si vuole diverso. Insomma, hanno fatto di tutto per accreditarsi agli occhi dei militari come un partner politico moderato e affidabile.

Manifestazione dei copti.
Cairo, spartizione potere

Quello che si delinea all’orizzonte, insomma, è un accordo tra militari e Fratelli Musulmani per la spartizione del potere e per avviare l’Egitto sulla strada di uno Stato islamico che si vorrebbe moderato e che, nella migliore delle ipotesi, potrebbe seguire le orme della Turchia. Molti pensano che i generali, abituati a contare molto ma restando dietro le quinte, potrebbero mandare avanti l’attuale primo ministro, Issam Sharaf, politico di non enorme personalità, farlo eleggere presidente e affiancarlo con un vice che, guarda caso, sarebbe un ex generale. Per esempio Sami Inan, attuale capo di Stato maggiore dell’Esercito. Ai Fratelli Musulmani andrebbero, in quel caso, ministeri e incarichi di prima grandezza.

Proprio questa prospettiva fa infuriare i musulmani legati all’estremismo, che rifiutano qualunque prospettiva che non sia l'instaurazione di uno Stato islamico duro e puro. Al Qaeda, in uno dei suoi recenti pronunciamenti, ha denunciato i Fratelli Musulmani come “secolarizzati e falsamente fedeli all’Islam”. La loro alleanza con i militari è il vero obiettivo dei terroristi ma anche di coloro che agitano le pattuglie violente dei salafiti.
[Fonte: Famiglia Cristiana, 10 maggio 2011]


Minoranze più forti della paura

Il martirio dei cristiani del Medio Oriente scompagina molti dei luoghi comuni e delle semplificazioni su questa area del mondo surriscaldata e molto più complessa di come è stata rappresentata nel dopo 11 settembre. L'ultima tragedia in ordine di tempo si è consumata in Egitto, un Paese moderato secondo queste rappresentazioni. Otto cristiani copti sono stati uccisi nella notte di Natale - celebrato il 7 gennaio secondo il calendario seguito dalla minoranza - all'uscita dalla Messa in un villaggio vicino al sito archeologico di Luxor. Si tratterebbe di una vendetta per il rapimento e il presunto stupro di una dodicenne musulmana della zona per mano di un giovane cristiano. Ma il pretesto ha dato il la per un atto di sangue che ha radici più profonde.

Formalmente, nella Costituzione l'Egitto garantisce la libertà di culto delle religioni, ma nella pratica questo diritto è pesantemente limitato. Un esempio: il permesso per la costruzione di una chiesa è sottoposto al rispetto di diverse condizioni: non deve essere edificata su un terreno agricolo né vicina a una moschea o a monumenti; se viene costruita in una zona abitata anche da musulmani, occorre avere prima il loro permesso; ci deve essere in quella zona un numero sufficiente di cristiani, non devono esserci altre chiese vicine, occorre il permesso della polizia se si è vicino a ponti sul Nilo o a suoi canali o alla ferrovia. La burocrazia diventa così una museruola che costringe la minoranza a praticare il proprio credo dentro un recinto privato. È una condizione di discriminazione di fatto che i cristiani del Medio Oriente - con le rare eccezioni di alcune aree - portano come una croce, con un coraggio degno di ammirazione. Minoranze vittime anche di un paradosso: per il fondamentalismo islamico il cristianesimo è sinonimo di Occidente, quello stesso Occidente che sacrifica il destino dei cristiani orientali in nome di interessi geopolitici ed economici. L'Arabia Saudita - dove si finisce in galera se trovati in possesso di una Bibbia - è uno degli alleati del nostro mondo, oltre che custode delle più grandi riserve petrolifere del mondo.

Il fondamentalismo è una malattia delle religioni. L'islam ne è affetto più delle altre per non avere sciolto alcuni nodi decisivi: il rapporto con la modernità, la separazione fra religione e politica, la lettura critica del suo testo sacro (il Corano) e tutto ciò che ne segue riguardo al rapporto con le minoranze dei Paesi islamici e al significato della violenza. Ciò con buona pace degli irenisti per i quali tutte le religioni sono uguali. Una lettura fallace della realtà e quindi rischiosa. L'islam politico è un'ideologia che fa presa sulle frustazioni delle persone - povere o ricche che siano - ma non può essere contrastato sullo stesso piano, riducendo il cristianesimo a sua volta a ideologia (occidentalista). Gli stessi cristiani orientali chiedono di non cadere in questo tranello. Testimoniano l'avvenimento di Cristo senza cedere alla paura e alla vendetta. Per loro è stato un Natale di sangue ancora in Iraq, con le chiese prese di mira dalle autobombe dei terroristi. Dal 2003 la metà degli 800 mila iracheni seguaci di Gesù - il 2 per cento della popolazione complessiva - ha lasciato il Paese. È anche per rispondere a questo esodo che Benedetto XVI ha convocato per l'ottobre 2010 il Sinodo dei vescovi del Medio Oriente, mettendo a tema la comunione e la testimonianza.
Ma la politica deve fare la sua parte, almeno chiarendo le ambiguità di certe relazioni internazionali.


© Copyright Eco di Bergamo, 8 gennaio 2010

Ecco dove la croce può costare la vita
di Andrea Tornielli

DISCRIMINAZIONI Dall’Irak alla Nigeria passando per l’India e il Sud America, le persecuzioni sono ancora troppo frequenti

Roma - C’è l’Egitto, ma anche l’Irak (dove la guerra ha notevolmente peggiorato le condizioni di vita dei cristiani), il Pakistan, l’India, la Nigeria... Sono ancora troppi i Paesi dove si rischia la vita, talvolta tra l’indifferenza generale, soltanto perché si professa la fede cristiana.

I casi più gravi sono avvenuti in Irak a metà dicembre, quando delle autobomba sono esplose fuori dalle chiese di Mossul e si sono verificati alcuni omicidi. Nella stessa zona, l’anno precedente, quaranta cristiani erano stati vittime delle violenze degli estremisti sunniti e ben 12mila di loro avevano abbandonato la regione per cercare rifugio altrove. Come dimenticare, poi, le stragi dell’Orissa, compiute ai danni dei cristiani nell’agosto 2008? Vennero bruciate case, assaliti conventi e ospedali, vennero violentate e bruciate vive delle suore. I responsabili degli attacchi sono stati processati e condannati a pene molto lievi oppure assolti.

Nel luglio 2009 c’è stata una recrudescenza delle violenze in Nigeria, durante una rivolta fomentata da un gruppo integralista che chiedeva l’applicazione rigida della sharia, la legge coranica, anche ai cristiani. Pesanti conseguenze ci sono state in Pakistan per l’applicazione delle leggi antiblasfemia, che sono costate la vita a vari appartenenti a fedi diverse da quella musulmana. La paura si tocca con mano, visto che - informa l’agenzia Zenit, ben il 40% di persone in meno hanno partecipato nei giorni scorsi alle celebrazioni natalizie, nonostante le severe misure di sicurezza. Mentre in Vietnam, è notizia di queste ore comunicata da Radio Vaticana, la polizia ha abbattuto con gli esplosivi il crocifisso nel cimitero cattolico di Hanoi e i fedeli richiamati sul posto dal boato sono stati caricati e picchiati dalla polizia. «È un attacco pesante - scriveva qualche tempo fa sul Giornale il missionario Piero Gheddo, commentando la crescita delle violenze - che ha radici forti e non risparmia nessuno. Le comunità cristiane locali danno fastidio, perché con la loro stessa esistenza diffondono una religione, una cultura e un sistema di vita fondati sul valore assoluto della persona umana, quindi sulla libertà, l’eguaglianza di tutti di fronte allo Stato, la donna con gli stessi diritti dell’uomo, la democrazia, la giustizia sociale».

Persino negli Stati Uniti - ad affermarlo è sempre Radio Vaticana - sarebbe aumentato il numero di crimini commessi contro le organizzazioni cristiane. Dodici omicidi e oltre 1.200 atti di violenza nell’anno appena concluso, documentati in un rapporto del «Cristian Security Network». E non ci sono soltanto i Paesi dove i cristiani sono vittime per la mancanza di libertà religiosa. Ci sono anche i Paesi dove missionari, preti, religiosi, suore e volontari laici perdono la vita svolgendo il loro quotidiano lavoro a servizio delle comunità, in favore dei poveri. Nell’anno 2009, informa l’annuale dossier dell’agenzia Fides, hanno perso la vita in modo violento 37 operatori pastorali: 30 sacerdoti, due religiose, due seminaristi, tre laici. Si tratta del numero più alto registrato negli ultimi dieci anni. Dandone notizia sul quotidiano vaticano nei giorni scorsi, l’editorialista de L’Osservatore Romano, Lucetta Scaraffia, ha fatto notare come le vittime siano state quasi il doppio dell’anno precedente e soprattutto che la notizia non è stata data con il dovuto rilievo perché «contraddice l’immagine della Chiesa dominante sui media», dove viene di solito rappresentata come «una struttura ricca e potente», un’oligarchia «anziana e rigida che sarebbe incapace di capire come è cambiato il mondo», un «anticume da liquidare per la libertà dell’umanità».

Un triste primato spetta all’America, dove in Brasile, Colombia, Messico, Cuba, El Salvador, Stati Uniti e Guatemala sono stati ben 23 gli operatori pastorali assassinati. Si può infine ricordare che anche il nostro Paese ha versato il suo tributo di sangue, dato che tra le vittime del 2009 ci sono due missionari italiani: padre Giuseppe Bertaina, dei missionari della Consolata, ucciso in Kenya lo scorso gennaio, e don Ruggero Ruvoletto, missionario Fidei donum, ucciso in Brasile in settembre.


© Copyright Il Giornale, 8 gennaio 2010

«In Medio Oriente le antiche chiese stanno sparendo. Dovremmo essere più uniti»
Intervista di Giacomo Galeazzi ad Antonio Maria Vegliò 

“Senza di loro l’Egitto tornerà al Medioevo”. “Sono la parte più evoluta del Paese: l’odio nasce da lì

Città del Vaticano - Arcivescovo Antonio Maria Vegliò, attuale ministro dell'Immigrazione ed ex segretario della Congregazione delle Chiese Orientali:

Il Vaticano si aspettava l’attacco ai copti più grave degli ultimi vent’anni?

«Da tempo i segnali sono inquietanti. Noi cristiani in Egitto siamo una goccia in un mare islamico e pesano anche le forti contrapposizione al nostro interno. Se un copto cattolico passa al rito ortodosso deve essere ribattezzato. Un’assurdità. Il nostro patriarca e gli otto vescovi vivono il dramma quotidiano di guidare una minoranza minacciata dagli estremisti islamici e lo stesso accade alla gerarchia ortodossa. Eppure il ruolo dei cristiani è fondamentale per l’Egitto».

Perché?

«C’è anche invidia sociale nei loro confronti. I copti sono la parte più colta della società egiziana eppure tra loro solo l’ex segretario generale dell’Onu Boutros-Ghali è riuscito a emergere. Come i Maroniti in Libano, i copti sono i veri autoctoni. L’Islam è arrivato dopo però i fondamentalisti vogliono azzerare la nostra presenza nella terra in cui sono nati Gesù e i tre monoteismi. Già è faticoso integrare in Occidente povera gente musulmana che emigra per fame. Convivere con l’Islam laddove è schiacciante maggioranza è ormai una sfida quasi proibitiva per il mondo moderno. Le nostre comunità laggiù stanno diventando musei di pietra. Ogni mese fuggono a migliaia, soprattutto giovani, perché sono discriminati, rischiano la vita, non hanno un futuro». 

Da cosa nasce l’odio verso i cristiani?

«Ci sono motivi economici e religiosi. La presenza cristiana disturba per l’occidentalizzazione, in quanto è portatrice dei valori di libertà religiosa e di rispetto della vita umana che nella cultura occidentale sono innegabilmente presenti (anche se spesso li viviamo male), mentre mancano in quella araba musulmana. Se L’Egitto è un po’ moderno lo deve ai copti, senza di loro il Paese sprofonderebbe nell’oscurantismo, nelle tenebre simili a quelle che ingiustamente si attribuiscono al nostro Medioevo che invece fu un periodo di straordinaria fioritura teologica». 

Roma li ha abbandonati? 

«No. Il Papa riceve costanti informazioni sulla situazione in Medio Oriente e la Chiesa del silenzio parla attraverso la sua voce. Qui da noi, nella Chiesa latina, sono poco conosciuti. E’ penoso vederli ridotti dalla diaspora a piccole comunità. I vescovi orientali ci chiedono mezzi e sostegno. I Caldei in Iraq si sono dimezzati, in maroniti in Libano sono scesi del 10% in pochi anni, i copti sono messi ai margini. La religione invece di unire diventa elemento di divisione e di guerra perché i fondamentalisti islamici se ne servono invece di servirla».

 
© Copyright La Stampa, 8 gennaio 2010

Per i cristiani libertà limitata in Turchia. Ecco i nodi da sciogliere
di Marta Ottaviani

Si potrebbe quasi parlare di minoranza nella minoranza. I cristiani cattolici infatti non solo come tutte le altre confessioni non hanno riconoscimento giuridico: non rientrano nemmeno nelle minoranze religiose non musulmane previste dal Trattato di Losanna, che fu firmato nel 1923 e con il quale la Turchia si impegnava a garantire a tutti i suoi abitanti, indipendentemente dalla loro provenienza e dalla loro fede, uguaglianza e libertà. Nel testo del Trattato furono considerate minoranze non musulmane le comunità armene, bulgare, ortodosse ed ebraiche, più o meno le stesse dell’epoca ottomana. Rimasero clamorosamente fuori la comunità cristiane arabofone, uniati, siro-ortodosse, caldee e cattolico-latine. Il mancato riconoscimento giuridico da parte dello Stato turco ha immediate conseguenze che influiscono sulla vita quotidiana delle varie comunità, soprattutto per quanto riguarda aspetti pratici e anche nell’organizzazione della missione pastorale.

Lo status dei vescovi

Per prima cosa i vescovi, senza una parola chiara sulla loro personalità giuridica, davanti alla legge non sono riconosciuti come i capi delle loro comunità religiose.
Nonostante questo grosso limite formale, per fortuna la autorità locali o centrali turche li considerano un punto di riferimento imprescindibile nel confronto interreligioso e anche nel dialogo per trovare soluzioni che portino al miglioramento delle condizioni dei cristiani. Le persone di fede non musulmana non possono di fatto intraprendere la carriera militare.

Impossibile possedere beni

La seconda conseguenza del mancato riconoscimento giuridico è l’impossibilità per i cattolici di possedere, acquistare o aliena re beni. Si tratta di un limite e norme, che viene parzialmente colmato solo in un caso. Si tratta dei beni, solitamente immobili, in possesso di ordini o chiese che esistevano in Turchia quando il Trattato di Losanna è stato firmato. La condizione necessaria sufficiente è che siano intestati a singoli o fondazioni private.
Un’eccezione che nasconde conseguenze negative. Se infatti questi singoli muoiono o le fondazioni cessano la loro attività oppure anche se la destinazione di questi beni viene cambiata, questi pos sono essere confiscati dallo Stato.

Il Seminario resta chiuso

La mancanza del riconoscimento giuridico per i cristiani ha una di retta conseguenza anche sull’istruzione. Visto che per la legge turca le minoranze religiose non musulmane non esistono, è impossibile costruire luoghi di culto, che pure in Turchia non mancano, ma soprattutto non è con sentito aprire scuole confessionali o Seminari per formare sacerdoti. L’esempio più famoso è dato dal Seminario di Halki, sul l’Isola di Heybeliada, chiuso nel 1971 e mai più riaperto, oggetto di costante trattativa fra il governo turco di Ankara e il Patriarcato ortodosso di Costantinopoli. La fine della disputa sembra quanto mai lontana e l’esecutivo islamico moderato guidato da Recep Tayyip Erdogan sta cercando soluzioni di mediazione, come l’insegnamento della teologia ortodossa all’interno della facoltà teologica (musulmana) dell’Università di Istanbul. Ipotesi che però il Patriarca Bartolomeo non sembra minimamente disposto ad accettare. Il tema è particolar mente critico per gli ortodossi.
Solo i vescovi e i sacerdoti di rito latino possono essere stranieri. Il patriarca di Costantinopoli deve essere obbligatoriamente un cittadino turco e se la normativa non cambierà e la scuola rimarrà chiusa, alla morte di Bartolomeo I potrebbero esserci dei seri problemi.

L’ingresso dei sacerdoti

In ultimo, il mancato riconosci mento della personalità giuridica ha un serio impatto sulla capacità di fare andare avanti le parrocchie. Le chiese infatti per la legge turca non esistono e così per il diritto del lavoro turco non esiste il loro personale, incluso quello ecclesiastico. La conseguenza più immediata è la grandissima difficoltà che le diocesi devono fare per fare entrare sul territorio turco sacerdoti, che ottengono permessi di soggiorno di appena un anno, mentre quelli di altre categorie professionali arri vano fino a cinque.

Proselitismo e violenze

Queste limitazioni sono in parte anche dovute al tentativo di limitare l’azione di proselitismo di cui i cristiani vengono da sempre accusati e a causa della quale in passato hanno subito più di una violenza.
L’esclusione dal Trattato di Losanna del 1923 comporta pesanti effetti nella vita quotidiana dei fedeli e per l’organizzazione del servizio pastorale


© Copyright Avvenire, 8 gennaio 2010
 

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