INTERVENTO
DI DINO BOFFO
PARABOLE
MEMORABILI? Per quali motivi un incontro diventa
memorabile, e un altro invece cade nell’oblio all’indomani della
sua celebrazione? Perché un convegno sa segnare uno scarto, uno
spartiacque - lo stato delle cose prima del convegno, e dopo - e un
altro non lascia traccia alcuna, se non un tanto ponderoso quanto
poco memorabile volume di atti? Il primo tipo di incontri fa
emergere un elemento di novità; tocca in qualche modo la coscienza
e l’intelligenza di chi vi partecipa, e anche di chi lo segue, pur
da casa, tramite giornali, radio, tv ed Internet; mette in moto
insomma delle energie; determina un cambiamento. Il secondo invece
non ci riesce.
La mia speranza, credo la
nostra comune speranza, è che questo possa essere un convegno del
primo tipo. E che da oggi si possa pensare a Parabole mediatiche
come all’appuntamento della svolta. Ne abbiamo bisogno. Eccome.
Oltre, dunque, le chiacchiere rituali, i luoghi comuni, l’enfasi
retorica, l’autocelebrazione un po’ consolatoria e un po’
narcisistica.
FATALE
ILLUSIONE. A proposito di luoghi comuni, vorrei sfatarne
subito uno. Il problema del rapporto mass-media e Chiesa si risolve
moltiplicando gli strumenti - i media, appunto - per noi
disponibili, o abbandonandosi con impeto neofita all’ultimo
strumento che si affaccia sul proscenio. Come se il problema della
comunicazione si risolvesse solo gridando più forte, o dotandosi di
una voce più sofisticata. Più strumenti non comportano, per
automatismo magico, più comunicazione. Tanti, tantissimi siti
Internet non risolvono il problema Internet. Oggi aprire un sito è
facilissimo. È molto più facile che installare una radio privata;
e negli anni Settanta molti di noi pensavano, analogamente, che il
problema dell’emittenza radiofonica libera si risolvesse occupando
più frequenze. Che sono certo condizione indispensabile. Ma per
comunicare che cosa? Per suonare quale spartito? O fare il verso a
chi? Concretamente, chi ci sta ad ascoltare? Chi visita i nostri
siti? E perché li abbiamo costruiti?
Negli stessi anni Settanta una
gran massa di italiani trasmigrava verso le radio private. Oggi una
massa non altrettanto imponente, ma comunque significativa di
italiani naviga a vele spiegate sulle rotte del web. Perché lo fa?
Che cosa cerca? E da noi che cosa vuole? Disponiamo di svariati
media. Ma la sensazione che si dà talora è di essere poco più che
coreografici, se non addirittura afoni.
MISERABILI
E PIONIERI. Illusioni, dunque, oltre che luoghi comuni.
“Italiani & Media, il secondo rapporto sulla comunicazione”,
pubblicato dal Censis insieme all’Ucsi appena due settimane fa,
rivela che un italiano su due non utilizza abitualmente alcun medium
salvo la televisione. Il rapporto li definisce efficacemente “marginali”
o “poveri”, e sono la grande maggioranza. Un italiano su due non
legge, se non del tutto saltuariamente; non acquista né possiede
libri, se non i testi scolastici dei figli, se ha figli. I “pionieri”,
che usano tutti i media e anzi dedicano ai quotidiani e alla radio
più tempo che alla tv, sono appena un milione, il 2.3 per cento
della popolazione: un’élite di studenti e professionisti,
laureati e diplomati al di sotto dei 45 anni. Una ”élite” di
specializzati oppure semplicemente di intellettuali a tal punto
consapevoli da rischiare un distacco sovrano rispetto all’indigenza
di molti. Si ritiene che le coordinate culturali classiche
resistano. Non ci si rende conto invece che sono ormai solo
inerziali. E che la popolazione si trova per lo più in un altra
orbita.
Ma la gente “nostra” dov’è,
dove si colloca? I fedeli, il popolo delle parrocchie ma anche delle
aggregazioni laicali, non sono poi in recinti separati, né li
ritroviamo in statistiche speciali. Oso affermare che neanche i
nostri parroci riservano chissà quale sorpresa. E anzi, il
sovraccarico di lavoro per lo più li induce - loro fortuna - a
disertare il video. Con il rischio purtroppo collegato di una
sottovalutazione pratica circa la ricaduta concreta dei media sulla
coscienza del pubblico. Prioritario così, a volte, finisce con l’essere
invece l’orario delle riunioni. Un assillo, magari camuffato,
garantire il colore in ogni pagina del proprio bollettino
parrocchiale con splendido apparato fotografico, magari a soggetto
fisso. Per il resto “non c’è tempo”, anche se questo implica
restare ai margini dei processi mentali più praticati. Salvo poi
domandarsi, con un carico anche angoscioso: ma perché è così
difficile oggi educare, formare, “tirar su” cristiani adeguati a
questo tempo? Perché è più difficile di ieri incidere sul proprio
territorio, su quel reticolo umano e sociale che pur è stato visto
dispiegarsi e crescere? Salvo ancora restare attoniti dinanzi alle
tragedie che accadono proprio nell’Italia della provincia, tra la
gente che si conosce e dalla quale “mai ci si aspetterebbe…”.
Già, questo è il punto. Anzi, il sintomo.
TUTTI
SULLE SPALLE DI ENEA. Il problema, scarsamente avvertito
all’interno delle nostre comunità, è che siamo già tutti -
proprio tutti - sulle spalle dell’Enea mediatico, ossia che -
consapevoli o meno - viviamo tutti in simbiosi con i media. Diceva
il cardinale Ruini nell’introduzione al convegno: essi, “i
media, costituiscono ormai una condizione della stessa esistenza
umana, fanno cultura per il semplice fatto di esserci e di essere
diventati componente ordinaria della vita sociale”. Sono - in
altre parole - decisivi nella formazione della mentalità corrente,
nel dettare modelli di pensiero e di comportamento. La “cultura
pubblica” - cioè lo stampo sul quale tende a formarsi la
mentalità individuale - si sagoma sul tornio di un palinsesto che
è un combinato di programmazione televisiva miscelata dallo
zapping, pubblicità subita senza filtri, un po’ di radio e di
carta stampata consumata in modo sempre più anomalo rispetto al
timone redazionale, il tutto inserito in un contesto
spettacolare-giocoso che oltre a banalizzare qualsiasi contenuto
sembra imporsi come il codice trionfante dell’era ipermediale. Ne
esce singolarmente confermata la storica profezia del massmediologo
americano Neil Postman: la società dei media altro non fa che
proporre di “divertirsi da morire’”. Attenzione, non sto già
parlando dei contenuti dei media, o dei messaggi. Ma dei mezzi di
comunicazione in sé. Vorrei essere più esplicito possibile, a
costo di urtare qualche suscettibilità. Sento dire non raramente
che il medium (e s’intende di solito la tv) è neutro, tutto
dipende da quello che vi infilano dentro. E dunque il problema si
ridurrebbe alla qualità dei programmi, quello di Internet alla
qualità dei siti, e così via. Vorrei naturalmente che fosse vero:
sarebbe tutto più semplice. Ricordo qui le parole di Giovanni
Cesareo, nell’Introduzione all’edizione dell’86 del classico
Gli strumenti del comunicare (tit. or. Understanding Media, 1964),
che così spiega il famoso, e abusato, motto di McLuhan, il medium
è il messaggio: «Affermando che l’”uso” del medium “non
conta”, McLuhan intendeva indicare, con il massimo di carica
provocatoria, che gli “idioti tecnologici” non riuscivano a
capire quanto ampio, pesante e determinato fosse l’impatto dei
diversi media nel condizionare la concezione del mondo e l’organizzazione
dei rapporti tra gli uomini già a monte dei “messaggi” che essi
potevano veicolare. Si trattava, dunque, della smentita più
radicale a una presunta neutralità dei media (…). Il medium è
ben più d’un semplice canale».
I
MASS-MEDIA, LA NOSTRA ARIA. I mass-media cioè non sono
semplici “mezzi”, freddi “strumenti” che asetticamente
veicolano i messaggi, o fanno scorrere contenuti: e questi solamente
conterebbero, per contrastare i quali bastano dei contenuti di segno
opposto. Non è propriamente così. I mass-media sono bocche di
fuoco che già fanno ambiente, che già determinano l’aria che
respiriamo, l’acqua in cui nuotiamo, l’universo che abitiamo.
Sono loro, strutturalmente - questo stava a cuore a McLuhan, la
struttura dei singoli media, da comprendere e disvelare per un uso,
o un rifiuto, consapevoli - i principali ispiratori della
modernità. Impossibile oggi comprendere il mondo e i nostri simili
a prescindere da una comprensione profonda dei mass-media. E questo
basterebbe per renderci inquieti. Come possiamo appellarci al
giacimento religioso-cattolico, che è in dotazione della nostra
coscienza collettiva, quando i media per natura loro intrinseca
procedono per impressioni e non attraverso accumulo? Che risultato
dà puntare sull’interiorità quando le nostre strutture cognitive
sono tutte proiettate verso l’esterno? Ha ancora valore il
procedimento logico-progressivo in cui è cresciuta la generazione
precedente la mia, se le pulsioni a cui si è soggetti modificano l’organizzazione
del sapere? Se la ritenzione dei significati e del proprio punto di
vista è inesorabilmente sfidata e fatalmente infiacchita? Come
possiamo toccare il cuore - individuato non come centrale emotiva ma
essenza stessa dell’intendimento - di uomini e donne sempre più
disabituati a pensare in proprio, a declinare concetti, a sostenere
percorsi mentali minimamente complessi? Se il getto di adrenalina ha
fatalmente sostituito la traccia a lungo termine? Che cosa significa
per noi, in ultima analisi, quel “conoscere bene il mondo
contemporaneo” raccomandato vivamente dal Concilio (cfr.A.A.29b),
e quel saperci porre continuamente “al livello della cultura”
della società in cui viviamo, la quale inesorabilmente evolve e non
sempre per linee razionali e prevedibili?
MODERNITÀ
LIQUIDA. Ma che tipo di società è la nostra? Zygmunt
Bauman, che abbiamo ascoltato giovedì pomeriggio, parla di
modernità liquida. Nulla è durevole e tutto deve cambiare; i
modelli sono tanti, innumerevoli, tutti sullo stesso piano e in
contrasto tra loro, con il risultato che nessuno ha reale autorità
né potere coercitivo. Non ci sono più strutture date una volta per
sempre. Bisogna cambiare, questo è l’imperativo. E avverte:
«Ribaltando una tradizione millenaria, oggi sono i ricchi e potenti
a odiare tutto quanto è durevole e a cercare il transitorio, mentre
i più poveri si aggrappano a quel po’ che posseggono e tentano
disperatamente e contro tutte le avversità di farlo durare il più
a lungo possibile» (Modernità liquida, Laterza, 2002, pag. XXI).
La coscienza non sopporta né confini segnati né posti di
frontiera. Qualsiasi rete densa e fitta di legami sociali, e in
particolare una rete profondamente legata al territorio (pensiamo
alla famiglia e alle comunità ecclesiali), rappresenta un ostacolo,
dunque va sminuita, resa irrilevante. Modernità liquida, dicevamo,
o “modernità in polvere”, secondo la definizione che ne dà l’antropologo
indo-americano Arjun Appadurai. I mass-media non si limitano a
rappresentare la società neo-moderna. La sostengono, la alimentano.
Per il filosofo tedesco Hans Magnus Enzensberger la neo-tv che nulla
dice perché nulla vuole dire, non porta a termine alcun discorso
perché non intende andare da alcuna parte, la tv il cui fine è la
tv stessa, il cui scopo è insito in sé. Farsi guardare, null’altro
che farsi guardare. Il più a lungo possibile. Da più gente
possibile (la dittatura dell’audience!). La neo-tv è la tv del
flusso continuo, che mai s’interrompe e mira a non farsi
abbandonare mai; è la tv che non racconta la realtà ma la
costruisce, rappresentando se stessa in infiniti fotogrammi dove
gente di tv invita e celebra altra gente di tv, dove i programmi tv
diventano notizie del tg; è la tv del talk-show, in cui i dibattiti
ruotano su se stessi senza sviluppo, dove un’opinione vale l’altra,
un ospite vale l’altro in una gigantesca marmellata che finisce -
ahìnoi - per travolgere anche gli ospiti più qualificati, mossi
dalle più nobili intenzioni. Nessuno caccia i preti dalla neo-tv,
purché accettino le regole della neo-tv e si accomodino di fianco
alla fattucchiera, al transessuale e all’opinionista “zero”,
oppure si releghino agli estremi margini del palinsesto. Nessuno
oggi intende escluderci in modo esplicito; specie se portiamo l’abito,
che fa tanto colore, possiamo restare, purché ci uniformiamo alle
regole e non pretendiamo di segnare eccezione. Vespa in questo non
è diverso da Costanzo. Questa tv è la rappresentazione fedele
della modernità liquida. Ma ogni medium tende a farsi liquido.
Liquidissimo è Internet, mutevole e ibrido, qui la scienza più
alta coabita, senza distinzione alcuna ma affidandosi unicamente al
fiuto, alla sagacia, all’esperienza del navigante, accanto alla
cialtroneria più bassa, in una sorta di brodo primordiale in
perenne cambiamento, dove il valore principe è la velocità, altra
icona della neo-modernità: non importa dove tu vada, basta che ci
vada velocemente.
POSTAZIONE
DI RISCATTO. È evidente che la Chiesa non può coabitare
tranquillissimamente nella neo-modernità, mostrandosi indifferente
o rassegnata di fronte alle sue provocazioni. D’altra parte, in
quale clima culturale si è mai accasata pacificamente, nella sua
storia bimillenaria? In nessuno. E sua capacità è stata quella non
di contrapporre una cultura propria a una cultura “altra”; un
suo mondo preconfezionato ad altri “mondi” in continuo
allestimento; ma possibilmente di trasformare e riscattare. E questo
fin dai primi secoli cristiani, nei confronti della classicità. Del
resto, come non ricordare le parole dell’Evangelii Nuntiandi?
«Evangelizzare, per la Chiesa, è portare la buona novella in tutti
gli strati dell’umanità e, con suo influsso, trasformare dal di
dentro, rendere nuova l’umanità stessa (…). Lo scopo dell’evangelizzazione
è appunto questo cambiamento interiore (…), raggiungere e quasi
sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i
valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le
fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in
contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza» (nn.
18-19). Dunque, stare dentro il processo con una sua propria
attitudine reattiva. Oggi, poi, c’è un motivo in più - secondo
me - per stare dentro ai meccanismi che concorrono al formarsi della
cultura pubblica. Se assistiamo a uno spegnimento progressivo del
pensiero critico-personale, è anche vero che la parola umana per
effetto dei media elettronici è tornata ad essere di nuovo
pubblica. Avverte Derrick de Kerckhove: «La maggior parte delle
informazioni viene trattata non più nell’isolamento della
coscienza privata e neppure nell’interazione dei lettori con il
testo, ma in piena luce dai media elettronici, dalla radio e dalla
televisione». Ecco, a me pare che sia questo scenario a cielo
aperto, questo laboratorio di calchi nuovi che però non conosce
pareti chiuse, a costituire la sfida più interessante. Partecipare
dal di dentro all’elaborazione del “cosciente collettivo”,
delle “linee di pensiero”, delle “fonti ispiratrici”, dei
“modelli di vita” forniti appunto dai mass-media, prima forza d’urto
della neo-modernità. Quei mass-media che sono presenti e
comunicanti, e seducenti: qui nasce e va combattuta la sfida.
Tenendo conto peraltro che è proprio di questa cultura non
accettare assolutismi interpretativi, che c’è sempre un margine,
un’intercapedine, un retro-pensiero su cui far leva. Non si hanno
cioè chiavi di lettura totalizzanti ed esclusive. Esiste e molto
probabilmente esisterà sempre una - chiamiamola - riserva
antropologica, un di più nell’uomo che gli consente varie e
imprevedibili capacità di reazione e metabolizzazione. Anche per
questo noi rimaniamo ottimisti.
EMERGENZA
CHE CI RIMODELLA. Le emergenze però si affrontano. Senza
paraocchi o mistificazioni. E le si affronta tutti insieme,
comunitariamente. I cirenei sono necessari, ma non bastano.
Diventano patetici se li si lascia soli ad oltranza. Se è vero
quanto affermava ancora nell’introduzione all’incontro il
presidente della Cei, ossia che le forme tradizionali di
trasmissione della fede devono «nelle loro modalità espressive
tenere sempre più presente l’influenza della cultura mediatica»
e che questo implica «una nuova capacità di gestire l’impegno
pastorale quotidiano», beh, allora ci troviamo piazzati al centro
del problema. Che poi è il punto cruciale indicato dagli
Orientamenti pastorali per questo decennio impegnato non a caso
sulla comunicazione.
Non vorrei semplificare
troppo, ma colgo in particolare due linee di intervento. Quella
degli strumenti e quella degli animatori. Di mezzi - grazie a Dio -
ne disponiamo in abbondanza. È uno dei settori in cui più abbiamo
ricevuto dal passato, dove maggiore è stato lo sforzo di
rinnovamento, e dove più significativo è stato l’impegno di
innovazione e di messa in campo di modalità nuove. Occorre semmai
chiederci se abbiamo compreso il senso del loro esserci, non certo
per sfizio di qualcuno. Cioè il loro valore “strumentale” di
accompagnatori-amici ad hoc ogni giorno pensati, e per questo
critici, per questo liberi, per questo preoccupati più di
spettinarci che di accarezzarci, di non dar mai tregua nel farci
allungare lo sguardo, nell’indurci a vedere continuamente l’altra
faccia dei problemi ma anche l’altra parte della vita, nel
cogliere innanzitutto la cifra umana delle situazioni, nell’istillare
la voglia di capire (non di galleggiare), di smascherare i trucchi
del circo massmediale, di smontare la tv opulenta e truffaldina, di
non ingurgitare alcunché ad occhi chiusi. E occorre, arrivati a
questo punto, chiederci perché resiste - e come resiste! - una
sottovalutazione pratica attorno a questi strumenti. Certo
scetticismo, certa freddezza. Sicuramente non sono perfetti, ogni
giorno vanno migliorati. Ma questo non è forse vero per tutti i
media? C’è talora un calloso pregiudizio anche in istituzioni
prestigiose e saputelle della nostra area, un atteggiamento
inspiegabile che è, esso sì, un’ostinazione anti-culturale. Come
se indipendenza di giudizio e professionalità fossero - per
principio - reperibili solo in imprese editoriali altre da noi.
Ingenuità a quintali, e una remissività che tracima in un
autolesionismo persino commuovente. Perché - ci chiediamo - i
nostri media rischiano a tutt’oggi di essere stimati più all’esterno
che all’interno della comunità? Sopravvivono forse - cerco di
arguire - i tic della “cristianità”, quando per giustificare a
noi stessi di essere potenti sentivamo il bisogno di autoconficcarci
le frecce altrui. Perché - chiedo ancora - i nostri media servono
più per far sapere agli altri, agli ambienti laici e laicisti quel
che si pensa nella Chiesa, piuttosto che rinforzare nei cattolici l’originalità
del loro punto di vista e l’abilità a dar conto della speranza e
delle ragioni che avvertono vere e utili circa i problemi all’ordine
del giorno? Certo, questi nostri strumenti, assolutamente sempre
perfettibili, danno una mano non piccola al Paese raccontando quel
che spesso sarebbe altrimenti taciuto, e ricordando che il
pluralismo per essere tale ha bisogno di una concreta e scomoda
pluralità di voci. Il conformismo non fa democrazia.
UN
NUOVO PROFILO PASTORALE. Che cosa i nostri ambienti
dovrebbero comprendere, e ancora non hanno compreso, o almeno non
abbastanza? Non comprendono, per esempio, che perché ci sia sui
media una consapevolezza diffusa, occorre che ogni comunità abbia i
propri animatori della cultura e della comunicazione. Analogamente a
chi - come la Caritas e la San Vincenzo e altri… - richiama l’intera
comunità al dovere di servire i poveri, ovunque si trovino; come
chi, da animatore della liturgia, aiuta l’intera comunità a
vivere in modo forte e ricco la liturgia; e come chi, da educatore,
interpreta in modo forte un ruolo che a tutti appartiene, in quanto
genitori o semplicemente adulti battezzati; ebbene, questo nuovo
profilo pastorale inviterà l’intera comunità al dovere, e
speriamo al piacere (sì, divertirsi anche con una buona dose di
ironia), di stare dentro a questa cultura per contribuirvi, e - Dio
lo voglia - per segnarla. Per invitare a una valorizzazione critica,
intelligente, abile dei mass-media. A non finire mai rimorchiati
quanto a idee e punti di vista. A essere informati sui media
cristianamente ispirati, conoscerne la logica e la proposta, gli
indirizzi e le frequenze, i costi e le potenzialità. Dicono a denti
stretti gli esperti del marketing di settore: se i cattolici
sapessero le potenzialità che hanno, la risorsa che costituisce la
loro rete di presenza capillare sul territorio, se sapessero cosa
significa poter contare su un reticolo di sportelli esclusivamente
dedicati sull’intero territorio nazionale, se decidessero di
saperlo e volessero sfruttare questa chance, allora sì… Già.
Allora sì. Peccato che abbiamo perso la coscienza che al bene va
preparata la strada, vanno costruiti i canali e gli stessi vanno
ripuliti da quel che li ostruisce, va imbandita la tavola, va
inscenata e ingentilita l’offerta. Insomma c’è bisogno di
sottrarre alibi alla trascuratezza e superficialità altrui, e c’è
bisogno di chi fecondi questa volontà di bene col proprio impegno
personale, col proprio volontariato nascosto, con la propria umile
fierezza, la propria disinibita gioiosa dedizione.
AD
OCCHI APERTI. Nella società neo-moderna è possibile
inserire alcune antitossine capaci di ridimensionarne il potere
sulle coscienze, restituendo libertà, autonomia, responsabilità
agli uomini e alle donne del nostro tempo. Noi giornalisti,
scrittori, autori radiofonici e televisivi, “architetti” del
web, operatori culturali, noi tutti fedeli che desideriamo vivere
una vita consapevole, e vorremmo essere amici di Dio all’altezza
di questi tempi difficili e affascinanti, noi tutti avvertiamo
nitida una grande responsabilità. Non intendiamo allontanarla da
noi, ma farcene carico. Da oggi in avanti, da Parabole mediatiche in
poi, vorremmo che la Chiesa italiana non fosse più la stessa. Una
vertigine la cogliesse. Per far finire le timidezze e le assenze
come pure certe permalosità e arroganze, figlie tutte, con esiti
opposti, della stesso senso di inadeguatezza, della stessa paura.
Fine delle omissioni, inizio delle trasmissioni. Inizio, sì, di una
stagione a occhi aperti e cuore spalancato.