INTERVENTO DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER
Il tema, che mi è stato
proposto, comprende tre concetti principali: comunicazione -
cultura - evangelizzazione. Innanzitutto occorre dire che i due
concetti di comunicazione e di evangelizzazione sono chiaramente
collegati: evangelizzazione è comunicazione di una parola, che è
qualcosa di più che una parola - è un modo di vivere, anzi la vita
stessa. Così l'impostazione del problema è innanzitutto: come il
vangelo può superare la soglia fra me e l'altro? Come si può
giungere ad una comunione nel vangelo, così che esso non solo mi
unisca all'altro, ma unisca entrambi con la parola di Dio e così ne
nasca un'unità che vada veramente in profondità?
Fra le due parole
comunicazione ed evangelizzazione nel nostro tema si trova la parola
cultura. Evidentemente si intende così designare il mezzo di
comunicazione, l'ambiente, nel quale la comunicazione si
può verificare. Di fatto il vangelo non
viene portato ad uomini, il cui spirito sarebbe una "tabula
rasa", come secondo Aristotele e Tomaso d'Aquino è lo spirito
umano nel primo momento del risvegliarsi alla vita. No, la tavola
dello spirito, alla quale giunge la nostra predicazione, è riempita
di molteplici scritte e viene continuamente in contatto con
innumerevoli comunicazioni, così che sembra quasi impossibile
collocarvi ancora qualche altra cosa. Nell'odierna sovrabbondanza di
informazioni vi è ancora posto sulla tavola delle nostre anime,
ovvero il vangelo, come sembra accadere spesso, può essere scritto
ormai solo sul suo margine più esterno? O forse il vangelo non è
un'informazione fra le altre, una riga sulla tavola accanto ad
altre, ma la chiave, un messaggio di natura totalmente diversa dalle
molte informazioni, che ci sommergono giorno dopo giorno? Dalla
questione della caratteristica di questo messaggio dipende anzi
anche la questione della forma giusta della sua comunicazione. Se il
vangelo appare solo come una notizia fra molte, può forse essere
scartato in favore di altri messaggi più importanti. Ma come fa la
comunicazione, che noi chiamiamo vangelo, a far capire che essa è
appunto una forma totalmente altra di informazione - nel nostro uso
linguistico, piuttosto una "performazione", un processo
vitale, per mezzo del quale soltanto lo strumento dell'esistenza
può trovare il suo giusto tono?
Non è facile dare una
risposta. Avevo affermato che la tavola dello spirito non è priva
di scritte. Dobbiamo aggiungere: la persona umana non è mai sola,
essa viene plasmata da una comunità, che le offre le forme del
pensare, del sentire, dell'agire. Questo insieme di forme di pensare
e di rappresentare, che plasma in antecedenza l'essere umano, la
chiamiamo cultura. Della cultura fanno parte innanzitutto la lingua
comune, poi la costituzione della comunità, quindi lo stato con le
sue articolazioni, il diritto, le consuetudini, le concezioni
morali, l'arte, le forme del culto, ecc.. La parola del vangelo si
inserisce in questo insieme vitale della "cultura". Si
deve rendere comprensibile in essa, e deve divenire efficace in
essa, plasmare tutta questa forma di vita, essere in essa per così
dire lievito, che penetra tutta la massa. Il vangelo in una certa
misura presuppone la cultura, non la sostituisce, ma la plasma. Nel
mondo greco al nostro concetto di cultura corrisponde quale termine
più adeguato la parola paideia - educazione nel senso più alto, in
quanto conduce l'uomo alla vera umanità; i latini hanno espresso la
stessa cosa con la parola eruditio: l'uomo viene di-rozzato, viene
formato quale vero essere umano. In questo senso il vangelo è per
sua natura paideia - cultura, ma in questa educazione dell'uomo si
unisce a tutte le forze, che si propongono di configurare l'essere
umano come essere comunitario.
Il tema a me proposto tuttavia
aggiunge alla questione generale della comunicazione del vangelo
tramite lo strumento della cultura ancora una determinazione
temporale: il terzo millennio. Non si tratta quindi in astratto del
rapporto fra vangelo e cultura, ma di come si possa rendere
comunicabile il vangelo nell'ambito della cultura di oggi. Così
occorre almeno in modo molto breve domandarci: cosa è dunque la
nostra cultura, che scrive oggi sulla tavola delle nostre anime? La
precisazione temporale è inoltre accompagnata a motivo della
cornice del nostro convegno anche da una determinazione locale: si
tratta della Chiesa in Italia. Ora, l'Italia con le sue
caratteristiche del tutto specifiche fa parte del mondo occidentale
e della sua cultura. Questa cultura da una parte è stata edificata
dal cristianesimo, ed in Italia questa conformazione attraverso la
fede cattolica è senza dubbio ancora sostanzialmente più
fortemente operante che in molti altri paesi occidentali. In questo
senso il vangelo parla qui non semplicemente in una cornice
totalmente estranea. Questi elementi perduranti di una cultura
cristiana non possiamo sottovalutarli e non vogliamo nello zelo del
rinnovamento metterli da parte quale ciarpame invecchiato, come è
accaduto qui e là nel primo entusiasmo del tempo postconciliare, in
cui tutta la cultura cristiana esistente con una singolare frattura
temporale fu improvvisamente bollata come pre-conciliare e così
etichettata come superata. No, dovremmo essere lieti di queste forme
cristiane che danno configurazione alla nostra vita comunitaria,
spolverarle e purificarle - laddove è necessario -, ma comunque
rafforzarle ed incoraggiarle. Tuttavia già sempre, anche nel
medioevo, questa cultura cristiana era insidiata da elementi non
cristiani e anticristiani. A partire dall'illuminismo la cultura
dell'occidente si allontana con velocità crescente dai suoi
fondamenti cristiani. La dissoluzione della famiglia e del
matrimonio, i crescenti attacchi alla vita umana ed alla sua
dignità, la riduzione della fede a realtà soggettiva e la
conseguente secolarizzazione della coscienza pubblica così come la
frammentazione e la relativizzazione dell'ethos ci mostrano questo
in modo oltremodo chiaro. In questo senso la cultura di oggi in
Italia ed in forme diverse in tutto il mondo occidentale è anche
una cultura lacerata da contraddizioni interne. Esistono modalità
di cultura cristiana che si affermano o che nuovamente emergono,
esistono in contrasto a queste con crescente forza di diffusione
forme che si contrappongono alla paideia cristiana.
L'evangelizzazione, che parla a questa cultura, non ha dunque a che
fare con un destinatario unitario. Deve esercitare l'arte del
discernimento in una realtà contraddittoria e deve trovare anche
nelle zone secolarizzate di questa cultura vie, che si lascino
aprire alla fede.
Prima che io cerchi di
concretizzare ancora ulteriormente queste riflessioni in un paio di
tesi, vorrei proporre per questo itinerario di incontro e di
confronto culturale un'immagine, che ho trovato in Basilio il Grande
(+ 379), il quale nel confronto con la cultura greca del suo tempo
si vide posto davanti ad un compito assai simile a quello che è
posto a noi. Basilio si riallaccia all'autopresentazione del profeta
Amos, il quale diceva di sé: "Pastore sono e coltivatore di
sicomori" (7,14). La traduzione greca del libro del profeta, la
LXX, rende in modo più chiaro nel seguente modo l'ultima
espressione: "Io ero uno, che taglia i sicomori". La
traduzione si fonda sul fatto che i frutti del sicomoro devono
essere incisi prima del raccolto, poi maturano entro pochi giorni.
Basilio presuppone nel suo commentario ad Is. 9, 10 questa prassi,
infatti egli scrive: "Il sicomoro è un albero, che produce
moltissimi frutti. Ma non hanno alcun sapore, se non li si incide
accuratamente e non si lascia fuoriuscire il loro succo, cosicché
divengano gradevoli al gusto. Per questo motivo, noi riteniamo, (il
sicomoro) è un simbolo per l'insieme dei popoli pagani: esso forma
una gran quantità, ma è allo stesso tempo insipido. Ciò deriva
dalla vita secondo le abitudini pagane. Quando si riesce a inciderla
con il Logos, si trasforma, diviene gustosa e utilizzabile".
Christian Gnilka commenta così questo passo: "In questo
simbolo si trovano l'ampiezza, la ricchezza, la fastosità del
paganesimo... ma anche si trova qui il suo limite: così come è, è
insipido, inutilizzabile. Necessita di un cambiamento totale, ma
questo cambiamento non distrugge la sostanza, ma le dà la qualità
che le manca... I frutti restano frutti; la loro abbondanza non
viene diminuita, ma riconosciuta come pregio... D'altra parte la
trasformazione necessaria non potrebbe essere sottolineata in modo
più forte dal punto di vista dell'immagine se non proprio dicendo
che si rende commestibile, ciò che prima non era fruibile. Nella
'fuoriuscita' del succo inoltre sembra alludersi al processo di
purificazione". Ancora una cosa si deve notare: la
trasformazione necessaria non può derivare da una proprietà
dell'albero e del suo frutto - è necessario un intervento del
coltivatore, un intervento dall'esterno. Applicando questo al
paganesimo, a ciò che è proprio della cultura umana, ciò
significa: il Logos stesso deve incidere le nostre culture ed i suoi
frutti, cosicché ciò che non era fruibile venga purificato e non
divenga soltanto fruibile, ma buono. Osservando attentamente il
testo e le sue affermazioni, possiamo aggiungere un'ulteriore
considerazione: sì, ultimamente è solo il Logos stesso, che può
condurre le nostre culture alla loro autentica purezza e maturità,
ma il Logos ha bisogno dei suoi servitori, dei "coltivatori di
sicomori": l'intervento necessario presuppone competenza,
conoscenza dei frutti e del loro processo di maturazione, esperienza
e pazienza. Poiché Basilio parla qui dell'insieme dei pagani e
delle loro abitudini, è evidente che in questa immagine non si
tratta semplicemente della guida individuale delle anime, ma della
purificazione e della maturazione delle culture, tanto più che la
parola "abitudini" (mores) è una delle parole, che
corrispondono presso i padri più o meno al nostro concetto di
cultura. Così in questo testo è rappresentato esattamente ciò, su
cui ci stiamo interrogando: il percorso dell'evangelizzazione
nell'ambito della cultura, il rapporto del vangelo con la cultura.
Il vangelo non sta accanto alla cultura. Non è rivolto
semplicemente all'individuo, ma alla cultura, che plasma la crescita
ed il divenire spirituale del singolo, la sua fecondità o
infecondità per Dio e per il mondo. L'evangelizzazione non è
neppure un semplice adattarsi alla cultura, ovvero un rivestirsi con
elementi della cultura nel senso di un concetto superficiale di
inculturazione, che ritiene siano sufficienti un paio di innovazioni
nella liturgia e espressioni linguistiche cambiate. No, il vangelo
è un taglio - una purificazione, che diviene maturazione e
risanamento. È un taglio, che esige paziente approfondimento e
comprensione, cosicché esso sia fatto nel momento giusto, nella
fattispecie giusta e nel modo giusto, che esige quindi sensibilità,
comprensione della cultura dal suo interno, dei suoi rischi e delle
sue possibilità nascoste o anche palesi. Così è evidente che
questo taglio "non è affare di un momento, al quale dovrebbe
poi semplicemente seguire una ovvia maturazione", ma è
necessario un continuo paziente incontro fra il Logos e la cultura,
mediato dal servizio dei credenti.
A me sembra che in tal modo
veramente sia stato detto l'essenziale di ciò, che esige l'incontro
oggi necessario fra fede e cultura. Così è anche corretta la
concezione unilaterale, che oggi spesso associamo con il concetto di
inculturazione. Forse è però pur sempre utile illustrare ancora
brevemente in tre tesi ciò che si è voluto dire.
1. La fede cristiana è aperta
a tutto ciò che di grande, vero e puro vi è nella cultura del
mondo, come Paolo ha ben espresso nella lettera ai Filippesi:
"Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile,
onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia
oggetto dei vostri pensieri" (4,8). Paolo si riferisce qui
certamente innanzitutto agli elementi essenziali della concezione
morale stoica, che egli riteneva si avvicinasse al cristianesimo, ma
in generale a tutto quello che di grande vi era nella cultura
greco-romana. Ciò che egli ha detto in quell'ambiente, vale
universalmente. Chi oggi evangelizza, innanzitutto ricercherà nella
nostra cultura, ciò che in essa si apre al vangelo e si
preoccuperà per così dire di sviluppare ulteriormente questi
"semi del Verbo". Prenderà in considerazione naturalmente
anche i contesti sociologici e psicologici, che oggi si oppongono
alla fede o viceversa possono divenire punti di incontro. Il
cristianesimo in passato aveva avuto inizio in una cultura cittadina
ed era riuscito solo lentamente ad interessare la campagna: gli
abitanti della campagna rimanevano "pagani". Si è poi
associato alla cultura agraria ed oggi deve ritrovare nelle culture
cittadine gli spazi, in cui poter porre la sua dimora. I 'movimenti',
le nuove forme di itinerari alla fede nei pellegrinaggi, ecc., gli
incontri nei santuari, le giornate della gioventù indicano dei
modelli; su di ciò dovranno riflettere le Conferenze episcopali con
i loro esperti.
2. La fede conosce e ricerca i
punti di contatto, recupera ciò che vi è di buono, ma è anche
opposizione a ciò, che nelle culture sbarra le porte al vangelo. È
un "taglio", come abbiamo sentito. È quindi stata anche
sempre critica delle culture e deve essere proprio anche oggi
impavida e coraggiosa. Gli irenismi non aiutano nessuno. Hugo Rahner
ha mostrato questo efficacemente nel suo lavoro sulla "pompa
diaboli": del rito battesimale fa parte infatti la rinuncia
alla "pompa del demonio". Che cosa è? da che cosa qui il
cristiano si separava? Di fatto la parola si riferiva innanzitutto
al teatro pagano, ai giochi del circo, nei quali lo scannamento di
uomini era divenuto uno spettacolo ricercato, crudeltà, violenza,
disprezzo dell'uomo era il culmine dell'intrattenimento. Ma con
questa rinuncia al teatro si intendeva naturalmente tutto un tipo di
cultura o detto meglio: la degenerazione di una cultura, dalla quale
innanzitutto doveva separarsi colui che voleva diventare cristiano e
che si impegnava a vedere nell'uomo un'immagine di Dio e a vivere
come tale. Così questa rinuncia battesimale è espressione
sintetica del carattere critico nei confronti della cultura che è
tipico del cristianesimo ed un contrassegno per il
"taglio", che qui si rende necessario. Chi non potrebbe
vedere le analogie con il presente e le sue degenerazioni culturali?
3. Nessuno vive solo. Il
richiamo al rapporto fra vangelo e cultura vuole mettere in luce
questo. Divenire cristiano necessita un rapporto vitale, nel quale
si possano realizzare risanamento e trasformazione della cultura.
L'evangelizzazione non è mai soltanto una comunicazione
intellettuale, essa è un processo vitale, una purificazione ed una
trasformazione della nostra esistenza, e per questo è necessario un
cammino comune. Perciò la catechesi deve necessariamente assumere
la forma del catecumenato, nel quale si possano compiere i necessari
risanamenti, nel quale soprattutto viene stabilito il rapporto fra
pensiero e vita. Eloquente è al riguardo il racconto, che Cipriano
di Cartagine (+ 258) ha dato della sua conversione alla fede
cristiana. Egli ci racconta che prima della sua conversione e
battesimo non poteva affatto immaginarsi, come si potesse mai vivere
da cristiano e superare le abitudini del suo tempo. Egli fornisce in
proposito una cruda descrizione di quelle abitudini, che ricorda
proprio le Satire di Giovenale, ma anche fa pensare al contesto
vitale, nel quale oggi devono vivere i giovani: si può qui essere
cristiani? non è questa una forma di vita superata? Quanti si
chiedono questo, a ragione in realtà parlando da un punto di vista
puramente umano. Ma l'impossibile, così narra Cipriano, fu reso
possibile per la grazia di Dio ed il sacramento della rinascita, che
naturalmente è considerato nel luogo concreto, nel quale esso può
divenire efficace: nel cammino comune dei credenti, che aprono una
via alternativa da vivere e la mostrano come possibile. Qui siamo
ora di nuovo al tema della cultura, al tema del "taglio".
Infatti Cipriano parla proprio della violenza delle
"abitudini", cioè di una cultura, che fa apparire la fede
come impossibile. Più di cento anni dopo Gregorio di Nazianzo (+
390) esalta la conversione di Cipriano con le seguenti parole:
"Per le sue conoscenze... rendono testimonianza anche le opere,
di cui egli compose molte e notevoli per il nostro argomento, dopo
che, grazie alla bontà di Dio, 'che tutto crea' e 'volge al meglio'
(Amos 5,8 LXX) egli aveva messo in salvo la sua formazione
precedente portandola da questa parte e aveva sottomesso
l'irragionevolezza alla ragione". Proprio perché egli sul
cammino della conversione, mediante il taglio del Logos, ha
trasformato la cultura del suo mondo, egli ha "messo in
salvo" ciò che di essenziale e di vero essa conteneva.
Mediante l'incisione nel sicomoro della cultura antica i Padri
l'hanno nel complesso "messa in salvo" per noi e
trasformata da strumento marcio in un frutto grandioso. Questo è il
compito, che oggi è a noi proposto nei confronti della cultura
secolarizzata del nostro tempo - questo è evangelizzazione della
cultura.