di Andrea Tornielli
In principio era il Verbo. Era il 22 novembre
2001. Karol Wojtyla fece click sul tasto invio
del suo pc portatile. Per la prima volta un
documento pontificio, l’esortazione apostolica
Ecclesia in Oceania, fu promulgato via
e-mail alle diocesi del mondo. Quel giorno la
parola viaggia verso il virtuale. Sono passati
quasi dieci anni e ieri il suo successore,
Benedetto XVI, alla giornata mondiale delle
comunicazioni sociali, ha fatto i conti con la
rivoluzione della grande rete.
Non è strano che il Papa parli di «social
network». Il Cristianesimo è parola, racconto,
parabola, piazza, incontro. La sua forza, nei
secoli, è la capacità di narrare la storia,
unica e necessaria, di un Dio che si fa uomo. E
questo è un discorso che va al di là della fede.
Il web è un mezzo straordinario per raccontare.
La parola all’inizio si è accontentata del
frammento, delle frasi spezzate, di un
linguaggio spot e telegrafico, un discorso
interrotto e spezzato ma di massa.
Non è stato facile orientarsi in questo mare.
Non è semplice distinguere il vero dal falso. Le
informazioni sono quasi infinite, i controlli
random. L’ultima rivoluzione è la piazza
virtuale. Non una piazza grande come il globo,
ma tante piccole piazzette che si incrociano, si
spostano, si rimandano l’una all’altra come un
gioco di specchi esponenziali. Qui la parola è
tutto. È carne. È identità. Benedetto XVI
riconosce che questa rivoluzione sta cambiando
il nostro modo di pensare, di percepirci, la
nostra weltanschauung, la visione del
mondo. «Le nuove tecnologie non stanno cambiando
solo il modo di comunicare, ma la comunicazione
in se stessa, per cui si può affermare che si è
di fronte a una vasta trasformazione culturale.
Con tale modo di diffondere informazioni e
conoscere sta nascendo un nuovo modo di pensare,
con inedite opportunità di stabilire relazioni e
di costruire comunione».
La piazza è comunione. È dialogo. È parola.
Solo che qui, sul web, la faccia è indefinita. È
appunto un avatar, una proiezione, qualcosa di
meno artefatto di una maschera, ma che comunque
resta rarefatta. È carne e anima. Ma in questa
ambiguità rischia di superare il limite tra vero
e falso. È verità e bugia. La domanda che i
filosofi si pongono è quanto questa nuova
dimensione sia umana. Lo è perché è un
espressione dell’uomo, ma in qualche modo va
oltre l’uomo. Il Papa entra in questa dimensione
e fissa dei punti per orientarsi. Non è il
Vangelo nell’era di internet. Non è una
questione di fede. È qualcosa con cui l’uomo si
sta confrontando.
Cosa dice Ratzinger? Non mascheratevi. Non
rinnegate il vostro avatar. Non create falsi
profili. «Nella ricerca di condivisione, di
amicizie, ci si trova di fronte alla sfida
dell’essere autentici, fedeli a se stessi, senza
cedere all’illusione di costruire
artificialmente il proprio profilo pubblico». È
Mefistofele in fondo che invita Faust a
mascherarsi. È la perdita di se stessi il prezzo
da pagare. Anche se poi tra i due quello più
chiaro, quello che finge di meno, è proprio il
povero diavolo. Mefistofele svela le sue
intenzioni. Offre una merce e fissa il prezzo:
l’anima. Quello che alla fine cambia le carte in
tavola, l’ingannatore, è il furbo Faust. La
tentazione di Facebook o di Second Life è
diventare altro da sé. È il sogno, o la
maledizione, di vivere sotto un’altra identità.
Il peccato non è la menzogna. Non è l’inganno,
ma l’alienazione.
È il rischio di vivere un’altra vita, di
rinunciare a tutto, di sacrificare la carne per
realizzarsi completamente come avatar. Qualcuno
dirà che queste cose le persone «sane» non le
fanno. Non è mica poi così scontato. Ci stiamo
abituando all’idea del verosimile. L’importante
non è che la storia sia vera o falsa, ma che sia
razionale o ben raccontata. Una storia è vera
quando il narratore è bravo, quando ha successo,
quando è un simbolo. Il Papa è più cauto:
«Dobbiamo essere consapevoli che la verità che
cerchiamo di condividere non trae il suo valore
dalla popolarità». Il Verbo sul web non va alla
ricerca di contatti. Non si maschera. La storia
più vera non è quella più condivisa.
© Copyright Il Giornale, 25 gennaio 2011