A colloquio con
l'arcivescovo Celli, presidente del
Pontificio Consiglio delle Comunicazioni
Sociali
La cultura digitale luogo d'incontro per
l'evangelizzazione
di Mario Ponzi
È in dirittura
d'arrivo il nuovo portale web della Santa
Sede. Come già annunciato dall'arcivescovo
Claudio Maria Celli, presidente del
Pontificio Consiglio delle Comunicazioni
Sociali, durante la recente plenaria del
dicastero, subito dopo Pasqua sarà in rete
in italiano, in inglese e in francese. "Ci
sarà da aspettare ancora un po' - spiega il
presule - perché sia operativo anche nelle
altre lingue, cinese compreso. Del resto,
abbiamo voluto che il progetto si
realizzasse in maniera progressiva, per aver
modo di apportare immediatamente tutte le
modifiche che dovessero rendersi
evidentemente necessarie in corso d'opera".
Ma la plenaria non si è occupata solo del
nuovo portale. Ce ne parla l'arcivescovo in
questa intervista al nostro giornale.
La plenaria segna
sempre un momento importante nella vita di
un dicastero. Qual è il problema di fondo
sul quale si è concentrata la vostra
attenzione?
La plenaria consente
un confronto diretto con i collaboratori,
membri e consultori, i quali, vivendo la
loro esperienza in tanti Paesi diversi,
possono fornire un quadro complessivo sullo
stato della comunicazione nel mondo. Quella
di quest'anno ha avuto un significato e uno
sviluppo particolari, perché è stata
inaugurata dall'incontro con il Papa. Le sue
parole sono state illuminanti proprio per
farci capire quale deve essere il punto
fermo: capire che la Chiesa è chiamata a
dialogare con gli uomini di oggi, sempre più
impregnati da una cultura digitale. Si
tratta, in sostanza, di allargare gli
orizzonti della diaconia della cultura. È
quello che chiede il Papa quando raccomanda
di conoscere, di capire i nuovi linguaggi
attraverso i quali l'uomo contemporaneo si
esprime, comunica ciò che egli è, ciò che
egli percepisce.
Dunque un nuovo
modo di evangelizzare?
La Chiesa deve
certamente imparare ad annunciare Cristo
secondo il linguaggio più facilmente e più
direttamente comprensibile dall'uomo al
quale si rivolge. Oggi si tratta dell'uomo
dell'era digitale, della cultura digitale. E
il Papa ha orientato la nostra riflessione
in questo senso, ricordandoci che "occorre
avere il coraggio di ripensare in modo più
profondo, come è avvenuto in altre epoche,
il rapporto tra la fede, la vita della
Chiesa e i mutamenti che l'uomo sta vivendo"
e chiedendoci un rinnovato impegno
nell'aiutare "quanti hanno responsabilità
nella Chiesa a essere in grado di capire,
interpretare e parlare il nuovo linguaggio
dei media in funzione pastorale". In
sostanza, ci ha chiesto di pensare quali
sfide il cosiddetto pensiero digitale pone
alla fede e alla teologia, e quali sono le
domande e le richieste che ne derivano.
Siete riusciti a
trovare delle risposte?
Più che altro abbiamo
individuato le realtà sulle quali è
necessario intervenire per trovare risposte
adeguate.
Per esempio?
L'accento è stato
posto innanzitutto sull'attenzione pastorale
da dedicare agli operatori del mondo della
comunicazione. Si tratta di un aspetto
fondamentale. Strettamente collegata è poi
la questione della formazione di futuri
sacerdoti, catechisti e laici impegnati,
capaci di esercitare la loro missione nel
mondo digitale. Lo scorso anno il Papa, nel
messaggio per la Giornata mondiale delle
comunicazioni sociali, pose proprio
l'accento sulla necessità di provvedere a
una pastorale appropriata per il mondo della
cultura digitale. Il punto fondamentale è
cogliere le dimensioni più profonde dei
processi comunicativi che via via emergono.
La persona umana, come soggetto
comunicativo, si esprime infatti attraverso
un'attrezzatura tecnica che veicola un nuovo
linguaggio, un modo nuovo di capire il
mondo. È questo che va approfondito nei
centri formativi della Chiesa, che già
adesso vede tanti episcopati in prima linea.
Dopo l'incontro delle università cattoliche
del mondo organizzato qui a Roma lo scorso
anno, abbiamo avviato noi stessi una serie
di riunioni continentali proprio per
incentivare questa attività formativa. Siamo
già stati in Spagna, Thailandia e Stati
Uniti. Prossime mete l'America latina e
l'Africa. Si può ben parlare, dunque, di una
"rete" di formazione vasta e articolata,
alla quale il Pontificio Consiglio cerca, in
molti modi, di dare il proprio contributo.
Puntare forte sulla formazione è il nostro
primo obiettivo. Se ne è discusso molto in
plenaria.
E quali sono state
le indicazioni?
Intanto i partecipanti
hanno tenuto a ribadire che formare non
significa aggiungere una materia in più da
studiare nel percorso di apprendimento. O
almeno non è questo l'aspetto più importante
da curare. Bisogna invece ribadire il ruolo
della comunicazione nella Chiesa e di
conseguenza ripensare anche la teologia
nella prospettiva della comunicazione. Molti
degli intervenuti hanno poi posto l'accento
sulla trasversalità della comunicazione
all'interno della Chiesa stessa e hanno
chiesto al Pontificio Consiglio di
approfondire il dialogo con tutti gli altri
dicasteri vaticani affinché si crei un
legame profondo sul tema della
comunicazione. La base ci ha chiesto, in
sostanza, di ripensare il ruolo che il
nostro dicastero dovrebbe interpretare
nell'ambito della missione della Chiesa. Una
missione, lo ricordiamo, dalla quale
derivano complessi ed esigenti compiti
operativi, che ci pongono di fronte non solo
all'esercizio delle nostre responsabilità,
ma, direi, alla ricerca di una forma di
coerenza complessiva nei confronti del
messaggio o del flusso di informazioni da
comunicare.
Come si potrebbe
realizzare questa collaborazione?
Riflettendo
innanzitutto sul fatto che a ognuno, nel
proprio ambito, è richiesto di trasmettere
il messaggio evangelico, di viverlo e di
testimoniarlo in modo concreto. E poi
considerando che la comunicazione non è un
settore, bensì un elemento costitutivo e
culturalmente rilevante nella vita della
Chiesa. Essa infatti si rivolge non solo ad
extra ma anche ad intra, nel senso
che, già in linea di principio, si pone
l'obiettivo di estendere il proprio servizio
verso tutti gli altri dicasteri vaticani.
L'impegno primario di tutti non è altro che
l'evangelizzazione, quindi l'annuncio sempre
nuovo della Parola di Dio. Lo sviluppo delle
nuove tecnologie impone assetti e, in molti
casi, atteggiamenti sempre nuovi,
collaborazioni più estese, coordinamenti più
puntuali, sinergie più allargate. In questo
senso siamo tutti chiamati a essere
comunicatori; tutti convergiamo verso un
unico obiettivo.
E il Pontificio
Consiglio delle Comunicazioni Sociali può
essere il punto di riferimento?
Non parlerei tanto di
punto di riferimento quanto piuttosto di un
ruolo di collaborazione nello sviluppo di
metodologie più adatte al nuovo modo di
comunicare nell'era digitale, ben sapendo
che anche queste vanno finalizzate a
obiettivi comuni. Non si comunica per sé,
perché l'autoreferenzialità è uno dei rischi
maggiori di tutta la comunicazione. Da
questo pericolo il Pontificio Consiglio
intende stare molto alla larga.
In un'intervista dello
scorso anno lei disse che il sacerdote deve
restare il fulcro della diffusione del
messaggio evangelico "qualunque sia la
strada da percorrere per raggiungere l'uomo,
anche se si tratta di una strada
telematica". Cosa è cambiato, se è cambiato
qualcosa, oggi?
Non è cambiato nulla
perché non può cambiare nulla. E questo è un
altro dei dati emersi durante la nostra
plenaria. Nella comunicazione, al di là di
ogni progresso tecnologico, non verrà mai
meno l'esigenza costitutiva del messaggio.
Torno a quello che ci ha detto il Papa
all'inizio dei nostri lavori: "La fede
sempre penetra e arricchisce, esalta e
vivifica la cultura e questa, a sua volta,
si fa veicolo della fede, a cui offre il
linguaggio per pensarsi ed esprimersi. È
necessario quindi farsi attenti ascoltatori
dei linguaggi degli uomini del nostro tempo,
per essere attenti all'opera di Dio nel
mondo". Farsi attenti ascoltatori significa
però anche e soprattutto saper ascoltare
quello che Dio vuol comunicare. Si comunica
se si ha qualcosa da dire. Il sacerdote, in
questo senso, ha il grande privilegio di un
messaggio che, per lui, si è fatto ed è
diventato vita. Il suo compito è anche
quello di comunicare - cioè di rendere
partecipi tutti - questa sua gioia. Quando
ciò avviene è un fatto che non passa
inosservato; né per gli incontri diretti e
personali, né sul web o nel cyberspazio. La
verità sa farsi sempre strada nel mondo, pur
così variegato e talvolta difficile, dei
media. Al sacerdote non si chiede di essere
un professionista della comunicazione, ma un
servitore fedele e appassionato della Parola
di Dio. Direi di più: l'efficacia della
comunicazione dipenderà proprio dalla
fedeltà e dall'amore che egli rivelerà nei
rapporti con i fedeli.
Dal punto di vista
pratico come intendete agire?
Intanto organizzando
corsi di formazione. Cercheremo prima di
tutto di dare un senso nuovo agli incontri
con i vescovi in visita ad limina.
Punteremo però soprattutto sulla formazione
a livello internazionale. In questa ottica
stiamo organizzando a Rio de Janeiro un
seminario sulla comunicazione per i vescovi
brasiliani, un incontro in Medio Oriente e
un altro in Africa. Nella seconda parte
dell'anno ne avremo uno anche in Cile,
destinato agli operatori della rete
informatica dell'America latina (Riial).
Anzi, in questo vasto continente abbiamo
avviato già da tempo una proficua
collaborazione con il Celam e devo dire che
il presidente, il cardinale Raymundo
Damasceno Assis, si è mostrato
particolarmente attento a questa forma di
collaborazione.
(©L'Osservatore Romano
18 marzo 2011)